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Un aretino tirolese

di Paolo Patrizi
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Data di pubblicazione su web 29/08/2019  

La figlia del re è adorata da Tolomeo e ama invece un principe straniero, innamorato però della bella Dori. Solo che Tolomeo, rigorosamente in incognito, si mostra in vesti femminili e, dunque, gli è difficile rivelare i propri sentimenti. Mentre il principe non è in grado di riconoscere la sua amata, a sua volta costretta dagli eventi in abiti maschili. Una doppia agnizione, che rivela in Dori la sorella della principessa, ricollocherà cose e coppie al giusto posto: ma intanto, per tre atti, i giovani si saranno disperati, i vecchi (il principe malato d’amore ha uno zio reggente, Dori è scortata da un precettore-grillo parlante) avranno dispensato saggezze e machiavellismi, i personaggi comico-plebei del servo poltrone e della nutrice tanto anzianotta quanto smaniosa si saranno a loro volta bisticciati e accoppiati. Resterà single l’eunuco Bagoa, sorvegliante del regio serraglio: ma questo rientra nella natura delle cose.


Un momento dello spettacolo 
© Rupert Larl

Tale materiale da tragicommedia degli equivoci fu dipanato da Pietro Antonio Cesti, nel 1657, attraverso una drammaturgia musicale più elegiaca che pulsante, più pacata che esilarante. La Dori colpisce soprattutto per la sua classica misura, l’accorta sapienza strutturale, la scorrevolezza con cui viene sciorinato un andamento paratattico (un profluvio di recitativi, arie e ariette assai di rado interrotto da qualche duetto): lavoro squisito, non accattivante, ma irrinunciabile per il Festival di Musica Antica di Innsbruck che, da alcuni anni, sta sviluppando un articolato progetto attorno al compositore aretino. Cesti, infatti, nella capitale del Tirolo visse e lavorò a lungo: ed era inevitabile che, prima o poi, sul palcoscenico del Landestheater approdasse La Dori, il cui battesimo avvenne proprio a Innsbruck.

Se la vis teatrale è l’aspetto più latitante (ma sarebbe ingeneroso darne colpa a Cesti, figlio di una civiltà operistica dove il melodramma era destinato ai palazzi, prima che ai palcoscenici), il merito dello spettacolo è stato quello di recuperare tale componente, facendo rientrare dalla finestra dell’esecuzione quel che il musicista aveva tenuto fuori dalla porta della partitura. Ciò è stato possibile, si direbbe, per la felice unità d’intenti del concertatore e del regista: Ottavio Dantone, alla guida del suo ensemble Accademia Bizantina, lavora molto sull’articolazione del fraseggio strumentale, i contrasti psicologico-stilistici, la varietà dell’andamento drammatico insomma; e Stefano Vizioli, ben servito dal puzzle stilizzato della scenografia di Emanuele Sinisi (quinte scomponibili, le ante di un armadio trasformate in tasselli di un paesaggio dipinto), riporta il testo a una teatralità archetipica, dove convivono i panni stesi di Mirandolina e i saltimbanchi di piazza, il teschio di Amleto e i lazzi della Commedia dell’Arte.


Un momento dello spettacolo 
© Rupert Larl

I cantanti non sono tutti di pari valore, ma compongono una squadra molto omogenea. Sul fronte femminile spicca la protagonista Francesca Ascioti, espressiva dicitrice e voce di mezzosoprano duttile e timbrata, tale – dunque – da poter aspirare anche a mondi canori più espansivamente operistici di quello di Cesti. S’impone altrettanto Emöke Baráth, che restituisce con gran presenza scenico-vocale le ambiguità di Tolomeo: personaggio virile e d’inequivocabile eterosessualità, per quel che valgono certe categorie nel mondo barocco, ma in vesti muliebri e scritto in registro sopranile. Più circoscrivibile, oggi come oggi, a un ristretto repertorio seicentesco (volume contenuto, emissione avara di vibrato) la voce della comunque gradevolissima Francesca Lombardi Mazzulli.

Tra i personaggi maschili, il controtenore Rupert Enticknap risolve abilmente – ossia con un’isteria mai sopra le righe – il suo ingrato personaggio d’innamorato fragile ma anche antipatico, inetto e con un complesso edipico grosso così. Ancor più si fanno onore bassi e bassi-baritoni grazie alla nobile solidità di Federico Sacchi (il principe zio) e alla voce robusta ma flessibile di Pietro Di Bianco (il comandante innamorato di quella bella sconosciuta che è Tolomeo travestito), da riascoltare senz’altro nel grande repertorio ottocentesco. Un po’ altalenanti invece i ruoli di carattere: se Konstantin Derri, sfruttando in senso grottesco la sua voce di controtenore acutissimo, fa dell’eunuco Bagoa un’incarnazione quasi surreale, la coppia servo-nutrice (Rocco Cavalluzzi e il tenore Alberto Allegrezza en travesti) risolve le sue schermaglie più sotto il segno della comicità grassa che della stilizzazione. Mentre, nei panni dell’aio, Bradley Smith conferma l’assioma che non sempre un apprezzato tenore protagonista sa flettersi a bravo caratterista. 


Un momento dello spettacolo 
© Rupert Larl

La Dori, ovviamente, era solo un tassello del festival che, in quasi un mese e mezzo di programmazione, ha visto alternarsi altri due titoli operistici, oltre a numerosi concerti strumentali e vocali: tra questi ultimi ha spiccato – nella sontuosa, ma acusticamente non felicissima Riesensaal dell’Hofburg – il recital di una neodiva dello star-system barocco come la russa Julia Lezhneva.  Lapidariamente intitolata La Voce, la serata ha visto il non ancora trentenne soprano inanellare pagine di Porpora, Vivaldi e del Graun e dell’Händel “italiani”, accompagnata dall’ensemble, anch’esso russo, La Voce Strumentale: dunque, a sua volta, una compagine programmaticamente all’insegna della cantabilità, non a caso concertata da un violinista – Dmitry Sinkovsky – che è pure un ottimo controtenore. Anzi, verrebbe da dire, soprattutto un ottimo controtenore, poiché il violinista – almeno in una serata all’insegna della spettacolarità virtuosistica come questa – è tanto talentato quanto istrionico, ma di un istrionismo che talvolta fa velo al talento. Il concertatore, poi, ha un’irruenza mimica che lo rende spesso dispersivo.

La Lezhneva gioca abilmente le sue carte di vocalista levigata piuttosto che sonora (l’ottava inferiore fioca lascia allo stato intenzionale alcune belle soluzioni espressive); la fraseggiatrice appare talvolta arzigogolata (resta l’impressione che all’ottima pronuncia italiana non corrisponda una piena comprensione del testo), ma complessivamente efficace; e, in generale, la dialettica coloristica di Vivaldi – non a caso l’autore su cui s’incentra maggiormente il programma – sembra esserle più congeniale della rutilante tavolozza haendeliana. Ne fa fede quel rarefatto gioco di specchi che è Zeffiretti che sussurrate, tratto dall’Ercole sul Termodonte: la Lezhneva restituisce con pudica intensità i dolori e gli incantamenti adolescenziali della pagina, mentre il violinista-concertatore, tornato a indossare per l’occasione la veste controtenorile, ne raddoppia i vocalizzi con effetti d’eco squisitamente muliebri. Caro maestro Sinkovsky, dia retta: si dedichi soprattutto al canto, è più facile trovare buoni violinisti che bravi controtenori.


La Dori, ovvero La schiava fedele


cast cast & credits
 
trama trama
La Voce - Concerto
cast cast & credits
 
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Festival di Musica Antica di Innsbruck (16 luglio-27 agosto 2019)
La Dori, ovvero La schiava fedele di Pietro Antonio Cesti (24 agosto) e La Voce concerto con musiche di Händel e Vivaldi (25 agosto)



































Un momento dello spettacolo visto il 24 agosto 2019 al Tiroler Landestheater
 © Rupert Larl




























































































La soprano Julia Lezhneva in concerto il 25 agosto 2019 all'Hofburg di Innsbruck
 
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