La figlia del re è adorata da
Tolomeo e ama invece un principe straniero, innamorato però della bella Dori.
Solo che Tolomeo, rigorosamente in incognito, si mostra in vesti femminili e,
dunque, gli è difficile rivelare i propri sentimenti. Mentre il principe non è
in grado di riconoscere la sua amata, a sua volta costretta dagli eventi in
abiti maschili. Una doppia agnizione, che rivela in Dori la sorella della
principessa, ricollocherà cose e coppie al giusto posto: ma intanto, per tre
atti, i giovani si saranno disperati, i vecchi (il principe malato damore ha
uno zio reggente, Dori è scortata da un precettore-grillo parlante) avranno
dispensato saggezze e machiavellismi, i personaggi comico-plebei del servo
poltrone e della nutrice tanto anzianotta quanto smaniosa si saranno a loro
volta bisticciati e accoppiati. Resterà single leunuco Bagoa,
sorvegliante del regio serraglio: ma questo rientra nella natura delle cose.
Un momento dello spettacolo © Rupert Larl
Tale materiale da tragicommedia degli equivoci fu dipanato da Pietro Antonio Cesti, nel 1657, attraverso una drammaturgia musicale più elegiaca che pulsante, più pacata che esilarante. La Dori colpisce soprattutto per la sua classica misura, laccorta sapienza strutturale, la scorrevolezza con cui viene sciorinato un andamento paratattico (un profluvio di recitativi, arie e ariette assai di rado interrotto da qualche duetto): lavoro squisito, non accattivante, ma irrinunciabile per il Festival di Musica Antica di Innsbruck che, da alcuni anni, sta sviluppando un articolato progetto attorno al compositore aretino. Cesti, infatti, nella capitale del Tirolo visse e lavorò a lungo: ed era inevitabile che, prima o poi, sul palcoscenico del Landestheater approdasse La Dori, il cui battesimo avvenne proprio a Innsbruck. Se la vis teatrale è laspetto più latitante (ma sarebbe ingeneroso darne
colpa a Cesti, figlio di una civiltà operistica dove il melodramma era
destinato ai palazzi, prima che ai palcoscenici), il merito dello spettacolo è stato
quello di recuperare tale componente, facendo rientrare dalla finestra
dellesecuzione quel che il musicista aveva tenuto fuori dalla porta della partitura.
Ciò è stato possibile, si direbbe, per la felice unità dintenti del
concertatore e del regista: Ottavio Dantone, alla guida del suo ensemble
Accademia Bizantina, lavora molto sullarticolazione del fraseggio strumentale,
i contrasti psicologico-stilistici, la varietà dellandamento drammatico
insomma; e Stefano Vizioli, ben servito dal puzzle stilizzato
della scenografia di Emanuele Sinisi (quinte scomponibili, le ante di un
armadio trasformate in tasselli di un paesaggio dipinto), riporta il testo a
una teatralità archetipica, dove convivono i panni stesi di Mirandolina e i
saltimbanchi di piazza, il teschio di Amleto e i lazzi della Commedia dellArte.
Un momento dello spettacolo © Rupert Larl
I cantanti non sono tutti di pari
valore, ma compongono una squadra molto omogenea. Sul fronte femminile spicca
la protagonista Francesca Ascioti, espressiva dicitrice e voce di
mezzosoprano duttile e timbrata, tale – dunque – da poter aspirare anche a
mondi canori più espansivamente operistici di quello di Cesti. Simpone altrettanto
Emöke Baráth, che restituisce con gran presenza scenico-vocale le
ambiguità di Tolomeo: personaggio virile e dinequivocabile eterosessualità,
per quel che valgono certe categorie nel mondo barocco, ma in vesti muliebri e
scritto in registro sopranile. Più circoscrivibile, oggi come oggi, a un
ristretto repertorio seicentesco (volume contenuto, emissione avara di vibrato)
la voce della comunque gradevolissima Francesca Lombardi Mazzulli.
Tra i personaggi maschili, il
controtenore Rupert Enticknap risolve abilmente – ossia con
unisteria mai sopra le righe – il suo ingrato personaggio dinnamorato fragile
ma anche antipatico, inetto e con un complesso edipico grosso così. Ancor più
si fanno onore bassi e bassi-baritoni grazie alla nobile solidità di Federico
Sacchi (il principe zio) e alla voce robusta ma flessibile di Pietro
Di Bianco (il comandante innamorato di quella bella sconosciuta
che è Tolomeo travestito), da riascoltare senzaltro nel grande repertorio
ottocentesco. Un po altalenanti invece i ruoli di carattere: se Konstantin
Derri, sfruttando in senso grottesco la sua voce di controtenore acutissimo,
fa delleunuco Bagoa unincarnazione quasi surreale, la coppia servo-nutrice (Rocco
Cavalluzzi e il tenore Alberto Allegrezza en travesti)
risolve le sue schermaglie più sotto il segno della comicità grassa che della
stilizzazione. Mentre, nei panni dellaio, Bradley Smith conferma
lassioma che non sempre un apprezzato tenore protagonista sa flettersi a bravo
caratterista.
Un momento dello spettacolo © Rupert Larl
La Dori, ovviamente, era solo
un tassello del festival che, in quasi un mese e mezzo di programmazione, ha
visto alternarsi altri due titoli operistici, oltre a numerosi concerti
strumentali e vocali: tra questi ultimi ha spiccato – nella sontuosa, ma
acusticamente non felicissima Riesensaal dellHofburg – il recital di
una neodiva dello star-system barocco come la russa Julia Lezhneva.
Lapidariamente intitolata La Voce,
la serata ha visto il non ancora trentenne soprano inanellare pagine di Porpora,
Vivaldi e del Graun e dellHändel “italiani”, accompagnata
dallensemble, anchesso russo, La Voce Strumentale: dunque, a sua volta,
una compagine programmaticamente allinsegna della cantabilità, non a caso concertata
da un violinista – Dmitry Sinkovsky – che è pure un ottimo controtenore.
Anzi, verrebbe da dire, soprattutto un ottimo controtenore, poiché il
violinista – almeno in una serata allinsegna della spettacolarità
virtuosistica come questa – è tanto talentato quanto istrionico, ma di un
istrionismo che talvolta fa velo al talento. Il concertatore, poi, ha
unirruenza mimica che lo rende spesso dispersivo.
La Lezhneva gioca abilmente le
sue carte di vocalista levigata piuttosto che sonora (lottava inferiore fioca
lascia allo stato intenzionale alcune belle soluzioni espressive); la
fraseggiatrice appare talvolta arzigogolata (resta limpressione che allottima
pronuncia italiana non corrisponda una piena comprensione del testo), ma
complessivamente efficace; e, in generale, la dialettica coloristica di Vivaldi
– non a caso lautore su cui sincentra maggiormente il programma – sembra
esserle più congeniale della rutilante tavolozza haendeliana. Ne fa fede quel rarefatto
gioco di specchi che è Zeffiretti che sussurrate, tratto dallErcole
sul Termodonte: la Lezhneva restituisce con pudica intensità i dolori e gli
incantamenti adolescenziali della pagina, mentre il violinista-concertatore, tornato
a indossare per loccasione la veste controtenorile, ne raddoppia i vocalizzi
con effetti deco squisitamente muliebri. Caro maestro Sinkovsky, dia retta: si
dedichi soprattutto al canto, è più facile trovare buoni violinisti che bravi
controtenori.
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