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Ricordo di Ilaria Occhini

di Alessandro Tinterri
  Ilaria Occhini
Data di pubblicazione su web 01/08/2019  

È, forse, il più bel ritratto di Ilaria Occhini ed è stato scritto da un’altra donna, Adele Cambria, su «Paese Sera» del 3-4 ottobre 1960: «E rialza il mento con fierezza, come si disponesse a posare per Piero della Francesca. E certo, la linea della nuca, sotto il peso dei capelli chiari, annodati in alto, e il bel profilo esatto, la fanno somigliare ad una donna del Rinascimento: se non fosse per gli occhi, grigioverdi, ma non teneri, ed anzi troppo attenti e senza emozioni, che subito la mostrano com’è: una ragazza di ventiquattro anni, ambiziosa e positiva, e già abbastanza viziata dalla vita».

A viziarla pensò da subito il nonno, Giovanni Papini, che incluse la nipotina preferita, La mia Ilaria, nel libro Figure umane: «Nacque in casa mia, figliola della mia figliola, in una di quelle mattine di marzo umide e quasi bianche che il sole, ogni tanto, rallumina con prepotenza fugace. L’ho tenuta in braccio con tremore, da quando era gracile e tenera e innocente, e ora ritrovo dinanzi a me, creatura parlante e ragionante, colle sue ingenue malizie e le sue chiare volontà, già donna a cinque anni da poco finiti. L’Ilaria, se Dio vuole, non mi conosce come uomo di letteratura e autore di libri bensì mi ricerca e mi vuol bene come uomo che la prende in collo perché possa cogliere i fiori degli alberi… Mi stima, nel suo piccolo mondo, potente al pari di un re e poeta come un fanciullo…».

Figlia dello scrittore Barna Occhini e di Gioconda Papini, Ilaria era nata a Firenze il 28 marzo 1934. Quando frequentava la seconda liceo, all’uscita da scuola, il regista Luciano Emmer la notò e la scritturò per il film Terza liceo (1954), che segnò il suo debutto di attrice in cui, celata sotto lo pseudonimo di Isabella Redi, impersonava Lucia, ragazza ricca ma generosa e anche un po’ ribelle. Tuttavia la sua passione era il teatro e, terminato di girare il film, s’iscrisse all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma, dove ebbe come compagno di corso Gian Maria Volonté e fece in tempo ad avere Silvio d’Amico come insegnante di Storia del teatro, mentre come docenti di recitazione ebbe Sergio Tofano, Annibale Ninchi e Wanda Capodaglio. Frequentò l’Accademia con profitto ma, al termine del terzo anno scolastico 1956-1957, non prese parte al saggio finale, perché intervenne la nascente televisione a rapirla al teatro, offrendole una parte da protagonista nello sceneggiato a puntate Jane Eyre, dal romanzo di Charlotte Brontë, accanto a Raf Vallone, con la regia di Anton Giulio Majano.

Al teatro fece subito ritorno sotto la direzione di Luchino Visconti ne L’impresario delle Smirne di Goldoni e nel 1958 in Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, sempre con la compagnia Morelli-Stoppa, accanto a un giovane Corrado Pani. La Occhini interpretava la giovane nipote dell’Eddie Carbone di Paolo Stoppa, che per gelosia faceva precipitare in tragedia la vicenda di immigrazione clandestina ambientata nella Brooklyn degli anni Cinquanta. Giorgio Prosperi giudicò così la sua interpretazione: «ancora un po’ acerba e petulante nella parte di Catherine, è tuttavia in progresso e crea qualche istante di autentica tensione». Ancora un anno nella compagnia Morelli-Stoppa e un altro spettacolo con la regia di Visconti, Figli d’arte (1959) di Diego Fabbri, e poi fu il regista Orazio Costa Giovangigli, suo insegnante in Accademia, a volerla nella dannunziana Francesca da Rimini (1960), utilizzandola altre volte in seguito come Mascia nelle Tre sorelle di Čechov e poi nelle Allegre comari di Windsor di Shakespeare all’Arena di Verona nel 1976. Nel frattempo, accanto a Gassman nella parte inizialmente destinata a Anna Mara Ferrero, la Occhini, che vestiva i panni di una prostituta, fu testimone dello storico fiasco di Un marziano a Roma (1960) di Ennio Flaiano, commentato dall’autore con uno dei suoi memorabili aforismi: «L’insuccesso mi ha dato alla testa».

Al cinema continuò a lavorare, ma sempre in ruoli non da protagonista che, tuttavia, le valsero un Nastro d’argento per Benvenuti in casa Gori (1990) di Alessandro Benvenuti e il riconoscimento del David di Donatello per la migliore attrice non protagonista in Mine vaganti (2010) di Ferzan Özpetek. La sua carriera televisiva intanto proseguiva, si può dire senza interruzioni, regalandole il ruolo da coprotagonista, accanto a Alberto Lionello, nel Puccini, ritratto in cinque puntate del celebre compositore, in cui la Occhini impersonava la moglie Elvira. Fu quella una miniserie firmata da Sandro Bolchi, particolarmente apprezzata dal pubblico televisivo, che vantava nel cast il Giulio Ricordi di Tino Carraro, Vincenzo De Toma nei panni di Luigi Illica, e poi Giancarlo Dettori come Arturo Toscanini, Mario Maranzana come Giuseppe Giacosa, e Renato De Carmine-Gabriele D’Annunzio. Era un’epoca in cui la televisione a caccia d’interpreti pescava a piene mani nel teatro italiano e il personaggio della battagliera Elvira Puccini consentì alla Occhini di sfoggiare una dizione impeccabile nel suo migliore toscano.

Ma il suo cuore continuò a battere per il teatro e, convinta assertrice delle compagnie private, ebbe a rilasciare dichiarazioni coraggiose rispetto ai Teatri Stabili: «Non aspiro ad andarci e, del resto, non ho avuto molte offerte di questo genere. Mi piace la compagnia di giro, l’indipendenza. Degli Stabili, non mi piace l’atmosfera: un po’ tetra, che sa di impiegatizio e di rivalse sindacali. Non c’è rischio, non c’è rabbia, non c’è divertimento, insomma. C’è la paga sicura, questa sì, e la possibilità di spettegolare nei camerini. Considerato, poi, che agli Stabili spetterebbe un compito culturale che, nella maggior parte dei casi, non assolvono – sacrificando invece sull’altare del divismo e dei personalismi – mi sembra che questo mio atteggiamento sia sufficientemente spiegato». Così la pensava nel 1976.

Ma accade nella vita di cambiare opinione, ed eccola nell’ultima fase della sua carriera presente in alcune significative realizzazioni teatrali degli Stabili di quegli anni di fine secolo scorso. Fu, infatti, grazie al Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia che si scoprì interprete pirandelliana nell’originale rilettura della trilogia di Pirandello del teatro nel teatro, diretta da Giuseppe Patroni Griffi: imperiosa Generala in Questa sera si recita a soggetto (1986), impeccabile Madre nei Sei personaggi in cerca d’autore (aprile 1988) e Delia Morello di una passionalità da cinema muto in Ciascuno a suo modo (ottobre 1988).

E ancora, nel 1996 al Teatro di Roma, prese parte alla memorabile trasposizione scenica di Ronconi del capolavoro di Gadda Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, uno spettacolo corale di oltre cinquanta attori, al centro del quale è l’inchiesta sulla «barbara uccisione dell’infelice e inutilmente sensuale Liliana Balducci di Ilaria Occhini» (Franco Quadri).

Infine, nuovamente con Ronconi, sullo scorcio del secolo che stava per finire la vedemmo sospesa a mezz’aria sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma dare corpo e voce al ritratto della Madre nel visionario Alcesti di Samuele di Alberto Savinio, che solo Ronconi poteva avere l’ardire di riproporre, dopo il fiasco della messinscena strehleriana al Piccolo Teatro di Milano di cinquant’anni prima. Non era certo quello il ritratto rinascimentale di cui parlava Adele Cambria, bensì una sorta di saviniana “poltromamma” che interloquiva col “potrobabbo” di Massimo De Rossi, presenza arcigna di madre borghese intrisa di implicazioni freudiane che commentava gli accadimenti del figlio e della nuora sul palcoscenico.

E con Savinio ci piace concludere, a dimostrazione della curiosità e della disponibilità con cui questa attrice, figlia e nipote di scrittori, nonché moglie dello stesso scrittore Raffaele La Capria, mise il suo talento e la sua notorietà al servizio della riscoperta di un altro scrittore, Savinio appunto, in vita assai mal ripagato del suo amore per il teatro. L’Alcesti di Samuele era stata preceduta, nel marzo 1990, dalla riproposta di Capitano Ulisse, titolo centrale nella scarna produzione saviniana per il teatro ripescato da un vecchio compagno di Accademia della Occhini, il regista Mario Missiroli che ne curò la regia al Teatro Biondo Stabile di Palermo. L’attrice vi figurava come protagonista femminile nei ruoli di Circe, Calipso e Penelope; il che le consentiva di triplicarsi nella vendicativa e furibonda maga fatale, nella burrosa e sedativa Calipso e nella prosaica consorte di una Penelope piuttosto borghese, malgrado la corona turrita che le cingeva il capo regale. Incarnazione ironica e sorniona di un eterno femminino, invano inseguito dal non meno borghese Capitano Ulisse, dagli accenti di gozzaniana, piuttosto che di dantesca, memoria. Una parte che diversi decenni prima Marta Abba aveva rifiutato.



 



 
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