«Ognuno di noi è “un piccolo miracolo di invenzione”, e
confeziona il proprio passato in funzione del presente: più si è brillanti, e
più gli aneddoti “da salotto” formano una barriera corallina di fantasia attorno
al minuscolo nucleo centrale della verità finché non è più possibile capire
come stiano realmente le cose».
F. Zeffirelli, Autobiografia, Milano, Mondadori,
2006, p. 10
«The ultimate tragedy for movies, music and opera
lovers. I have watched his film of Verdis Otello with Placido Domingo a lot of
times and always with delight!»
Against Modern Opera Productions (pagina Facebook), commento di un utente, 15
giugno 2019
Da qualche tempo a
questa parte, le parole paiono esser diventate un cane rabbioso, pronte a
sciogliersi dai lacci del buon gusto e della morigeratezza per aggredire
chiunque capiti a tiro. Si banchetta senza ritegno su corpi ancora caldi,
traendone maggior piacere quanto più alta è la preda: tutti pronti ad
autoproclamarsi Achille, ma lasciando a casa la pietas per Priamo. La
morte di Franco Zeffirelli, lo scorso 15 giugno, non è andata esente da
questi meccanismi, sebbene non si siano raggiunti i recenti vertici di vetriolo
destinati a Camilleri. Il problema è di tutti, e forse ancor più di
quelli che sulle parole fondano il proprio minuscolo contributo alla storia.
Converrà allora fare una premessa: chi scrive non ama larte di Zeffirelli. Non
per questo può o vuole sminuire un fatto incontrovertibile: che, al netto delle
contraddizioni delluomo e delle polemiche in vita e in morte, tale arte sia
stata quella di un Grande. Franco Zeffirelli allArena di Verona (2001) Questa grandezza
Zeffirelli la maturò tra sacrifici necessari e carezze del talento; certo, non
senza colpi di fortuna, a volte anche incredibili. Basterà a tal proposito citare
gli esordi della sua carriera. Sopravvissuto agli anni da partigiano nelle
Brigate Garibaldi (di cui non condivideva lideologia), nel 1949, meno che
trentenne, si ritrovò al fianco di Luchino Visconti come scenografo per
un Troilo e Cressida che prosciugò le casse del Maggio Fiorentino. Da
lì, come direbbero i rotocalchi, una lunga e tormentata storia damore, ma
anche il contatto con gli esponenti più illustri della cultura teatrale e cinematografica
italiana, poi internazionale. Il primo lavoro nel mondo dellopera arrivò nel
1953 nientemeno che dalla Scala, per uno spettacolo destinato a rimanere negli
annali: il ritorno novecentesco dellItaliana in Algeri, con una
immortale Giulietta Simionato e la regia di Corrado Pavolini, per
cui Zeffirelli curò ancora una volta bozzetti e figurini. Lanno successivo, la
“creatura di Visconti” si confrontò direttamente col suo maestro, nel ruolo di
regista. Sempre sul palco della Scala, mise in scena prima una Cenerentola,
a marzo, quindi un Elisir damore proprio mentre Visconti debuttava il 7
dicembre con la sua Vestale, interpreti Franco Corelli e Maria
Callas.
Tito Gobbi e Maria Callas in Tosca diretto da Franco Zeffirelli (1964) Con gli anni
Sessanta arrivò la definitiva consacrazione, grazie a una serie di produzioni di
impatto internazionale. Nel 1964 Zeffirelli diresse Tito Gobbi e la
Callas in una Tosca al Covent Garden, il cui secondatto, mandato in
onda dallemittente televisiva privata ITV, rimane uno dei più affascinanti
documenti dellarte della Divina. Nel 1965, approdò allOld Vic, chiamato da Laurence Olivier per mettere in scena Molto
rumore per nulla con la compagnia del National Theatre. Fu poi la volta del
cinema: dopo gli esordi da aiuto di Visconti per La terra trema e Senso,
a ventanni dallapparizione ne Lonorevole Angelina al fianco di Anna
Magnani (1947, regia di Luigi Zampa) diresse la coppia glamour Liz
Taylor-Richard Burton in The Taming of the Shrew, per poi
avventurarsi, lanno successivo, nella trasposizione di un altro capolavoro
shakespeariano, Romeo and Juliet.
Lelenco sarebbe
ancora lungo, potenzialmente sterminato se si considerassero tutti i progetti
che non videro la luce, in primis i fallimentari tentativi di cavare un
film dalla Tosca londinese o dalla Traviata di Dallas, anno
domini 1958, sempre con Maria Callas. Ciò che emerge da questa pur breve
carrellata è la capacità di Zeffirelli di entrare in contatto con le persone giuste
al momento giusto: da Visconti a Olivier, da “Lenny” Bernstein a Carlos
Kleiber a “Jimmy” Levine, da Grace di Monaco a Silvio
Berlusconi. A questa capacità si abbinava un impegno serio e rigoroso, ai
limiti delle umane possibilità se si considerano mole produttiva ed esiti. Ed è
tanto più urgente – ora che larte del regista toscano si appresta a esser
canonizzata – definire il «minuscolo nucleo di verità» che sta al centro di
questo lavoro. Unistantanea di Zeffirelli scenografo (anni Sessanta) In modo sommario e
assolutamente non definitivo, potremo allora riconoscere nel “fare” di
Zeffirelli una prima radice legata al disegno, a quella ricerca di armonia
formale tra le parti che il regista toscano apprese nei suoi studi da
architetto e seppe poi tradurre nei mondi dello spettacolo, secondo i diversi media
dellimmagine. Laspetto visuale era impiegato da Zeffirelli come vera e
propria testa di ponte, non solo (o almeno non sempre) con un fine
estetizzante, ma per rompere gli argini emotivi dello spettatore, suscitandone
il riso più smodato come il pianto più catartico. Vengono allora in mente i tre
allestimenti pucciniani realizzati per il Metropolitan di New York: dalla Bohème
del 1981, con Teresa Stratas e José Carreras, alla Turandot del
1987, «a big, eye catching, densely-packed, opulent new production staged by
the master of monumentality» secondo il critico Robert Kimball (Turandot – Hail Opulence!, «New York Post»,
4 dicembre 1987). Chi quella Turandot non lha potuta vedere che in
video ricorderà ad esempio i copricapo delleroina eponima, raffinatissimi
intrecci di perle e argento: “da vicino” assomigliano a una brutta copia di un
lampadario; “da lontano”, garantivano a Eva Marton una freddezza nella
figura pareggiata solo dalla lama della sua voce. E ancora, i successi
allArena di Verona, dalla storica Aida con piramide in miniatura (recentemente
animata dai si bemolle filati di Gregory Kunde) alla nuova produzione di
Traviata, andata in scena lo scorso 21 giugno, post mortem, quale
ultima impresa del maestro.
Zeffirelli mirava quindi
agli intestini, ma con la testa, attingendo a un repertorio di saperi
artigianali acquisito in anni di formazione strepitosi, al di qua della
“frattura” del teatro di regia. Qui sta la seconda radice del suo “fare”,
legata appunto agli orizzonti della cultura teatrale italiana del secondo
dopoguerra. Affidandoci al racconto di Zeffirelli stesso, «quello che io
conobbi allora, era un teatro dove si parlava sempre di cose concrete: ogni
tentazione rivolta a scoprire a ogni costo convulsioni contenutistiche,
rovesciamenti del testo per svelare pieghe ancora inesplorate e via discorrendo,
non era neppure proponibile» (F. Zeffirelli, Autobiografia, Milano,
Mondadori, 2006, p. 100). Un teatro di attori, il cui sistema di valori,
secondo il toscano, sarebbe stato messo in crisi di lì a poco dai “puledrini” Strehler,
Ronconi, De Lullo, Lavia, e via dicendo. Nella consueta
dialettica tra tradizione e innovazione, tanto spesso manifesta nel caso dei
“grandi vecchi”, Zeffirelli – che pure aveva partecipato alla prima, rampante
stagione del neorealismo – assunse col tempo la posizione di estremo baluardo
contro ciò che una parte di pubblico, specie di quello operistico, ritiene
essere la barbarie contemporanea. Franco Zeffirelli e Katia Ricciarelli sul set di Otello (1986)
Ma “oggetti” come
il “suo” Otello del 1986, prodotto dalla Cannon films di Menachem
Golan e Yoram Globus, ci ricordano quali fossero i limiti di tale
“tradizionalità”: «ho tolto
trentacinque minuti di Verdi e Boito, ho inferto 163 tagli allopera, in più ho
messo delle toppe indispensabili [nei collegamenti armonici tra i tagli].
Insomma, dopo lOtello di Shakespeare e quello di Verdi, ci sarà lOtello di
Zeffirelli» (N. Aspesi, LOtello di Zeffirelli, in «la Repubblica», 15
maggio 1986). Non serve scomodare i teorici della performance per
affermare che Zeffirelli, col tempo, sia giunto inesorabilmente a rappresentare
sé stesso: operazione non dissimile da quelle aspramente criticate per il teatro
di regia, né deprecabile in toto – in un caso e nellaltro. Spetterà ad
altri affrontare questo nodo, e sciogliere ciò che vi è connesso: la costante
polemica anti-comunista, trasformatasi alle volte in autogiustificazione per il
“poco” lavoro offertogli dallItalia; lo Zeffirelli “popolare” ma inviso ai
critici (appunto) comunisti; lamico di Berlusconi e ispiratore di certe sue
attività nel campo della privatizzazione della cultura nazionale, il cui studio
in sede critica molto avrà da dirci sullo stato attuale delle cose.
Franco Zeffirelli (2019)
Alla protagonista
di Callas forever, film del 2002 con Fanny Ardant, non restava
che “dare corpo” a una voce ormai perduta, conservata solo da registrazioni sonore
risalenti agli anni di gloria. Di Zeffirelli resta un corpus enorme di
immagini e visioni, siano esse sulla carta dei bozzetti conservati a Firenze,
presso la Fondazione nata nel 2017, o nei depositi di scene e attrezzeria dei
principali teatri del mondo. Vedremo, in un fatidico gioco di specchi, fino a
quando si darà loro voce.
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