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Ricordo di Franco Zeffirelli

di Daniele Palma
  Franco Zeffirelli
Data di pubblicazione su web 05/07/2019  

«Ognuno di noi è “un piccolo miracolo di invenzione”, e confeziona il proprio passato in funzione del presente: più si è brillanti, e più gli aneddoti “da salotto” formano una barriera corallina di fantasia attorno al minuscolo nucleo centrale della verità finché non è più possibile capire come stiano realmente le cose».

F. Zeffirelli, Autobiografia, Milano, Mondadori, 2006, p. 10


«The ultimate tragedy for movies, music and opera lovers. I have watched his film of Verdi’s Otello with Placido Domingo a lot of times and always with delight!»

Against Modern Opera Productions (pagina Facebook), commento di un utente, 15 giugno 2019


Da qualche tempo a questa parte, le parole paiono esser diventate un cane rabbioso, pronte a sciogliersi dai lacci del buon gusto e della morigeratezza per aggredire chiunque capiti a tiro. Si banchetta senza ritegno su corpi ancora caldi, traendone maggior piacere quanto più alta è la preda: tutti pronti ad autoproclamarsi Achille, ma lasciando a casa la pietas per Priamo. La morte di Franco Zeffirelli, lo scorso 15 giugno, non è andata esente da questi meccanismi, sebbene non si siano raggiunti i recenti vertici di vetriolo destinati a Camilleri. Il problema è di tutti, e forse ancor più di quelli che sulle parole fondano il proprio minuscolo contributo alla storia. Converrà allora fare una premessa: chi scrive non ama l’arte di Zeffirelli. Non per questo può o vuole sminuire un fatto incontrovertibile: che, al netto delle contraddizioni dell’uomo e delle polemiche in vita e in morte, tale arte sia stata quella di un Grande.

Franco Zeffirelli all’Arena di Verona (2001)

Questa grandezza Zeffirelli la maturò tra sacrifici necessari e carezze del talento; certo, non senza colpi di fortuna, a volte anche incredibili. Basterà a tal proposito citare gli esordi della sua carriera. Sopravvissuto agli anni da partigiano nelle Brigate Garibaldi (di cui non condivideva l’ideologia), nel 1949, meno che trentenne, si ritrovò al fianco di Luchino Visconti come scenografo per un Troilo e Cressida che prosciugò le casse del Maggio Fiorentino. Da lì, come direbbero i rotocalchi, una lunga e tormentata storia d’amore, ma anche il contatto con gli esponenti più illustri della cultura teatrale e cinematografica italiana, poi internazionale. Il primo lavoro nel mondo dell’opera arrivò nel 1953 nientemeno che dalla Scala, per uno spettacolo destinato a rimanere negli annali: il ritorno novecentesco dell’Italiana in Algeri, con una immortale Giulietta Simionato e la regia di Corrado Pavolini, per cui Zeffirelli curò ancora una volta bozzetti e figurini. L’anno successivo, la “creatura di Visconti” si confrontò direttamente col suo maestro, nel ruolo di regista. Sempre sul palco della Scala, mise in scena prima una Cenerentola, a marzo, quindi un Elisir d’amore proprio mentre Visconti debuttava il 7 dicembre con la sua Vestale, interpreti Franco Corelli e Maria Callas.


Tito Gobbi e Maria Callas in Tosca diretto da
Franco Zeffirelli (1964)

Con gli anni Sessanta arrivò la definitiva consacrazione, grazie a una serie di produzioni di impatto internazionale. Nel 1964 Zeffirelli diresse Tito Gobbi e la Callas in una Tosca al Covent Garden, il cui second’atto, mandato in onda dall’emittente televisiva privata ITV, rimane uno dei più affascinanti documenti dell’arte della Divina. Nel 1965, approdò all’Old Vic, chiamato da Laurence Olivier per mettere in scena Molto rumore per nulla con la compagnia del National Theatre. Fu poi la volta del cinema: dopo gli esordi da aiuto di Visconti per La terra trema e Senso, a vent’anni dall’apparizione ne L’onorevole Angelina al fianco di Anna Magnani (1947, regia di Luigi Zampa) diresse la coppia glamour Liz Taylor-Richard Burton in The Taming of the Shrew, per poi avventurarsi, l’anno successivo, nella trasposizione di un altro capolavoro shakespeariano, Romeo and Juliet.

L’elenco sarebbe ancora lungo, potenzialmente sterminato se si considerassero tutti i progetti che non videro la luce, in primis i fallimentari tentativi di cavare un film dalla Tosca londinese o dalla Traviata di Dallas, anno domini 1958, sempre con Maria Callas. Ciò che emerge da questa pur breve carrellata è la capacità di Zeffirelli di entrare in contatto con le persone giuste al momento giusto: da Visconti a Olivier, da “Lenny” Bernstein a Carlos Kleiber a “Jimmy” Levine, da Grace di Monaco a Silvio Berlusconi. A questa capacità si abbinava un impegno serio e rigoroso, ai limiti delle umane possibilità se si considerano mole produttiva ed esiti. Ed è tanto più urgente – ora che l’arte del regista toscano si appresta a esser canonizzata – definire il «minuscolo nucleo di verità» che sta al centro di questo lavoro.

Un’istantanea di Zeffirelli scenografo (anni Sessanta)

In modo sommario e assolutamente non definitivo, potremo allora riconoscere nel “fare” di Zeffirelli una prima radice legata al disegno, a quella ricerca di armonia formale tra le parti che il regista toscano apprese nei suoi studi da architetto e seppe poi tradurre nei mondi dello spettacolo, secondo i diversi media dell’immagine. L’aspetto visuale era impiegato da Zeffirelli come vera e propria testa di ponte, non solo (o almeno non sempre) con un fine estetizzante, ma per rompere gli argini emotivi dello spettatore, suscitandone il riso più smodato come il pianto più catartico. Vengono allora in mente i tre allestimenti pucciniani realizzati per il Metropolitan di New York: dalla Bohème del 1981, con Teresa Stratas e José Carreras, alla Turandot del 1987, «a big, eye catching, densely-packed, opulent new production staged by the master of monumentality» secondo il critico Robert Kimball (Turandot – Hail Opulence!, «New York Post», 4 dicembre 1987). Chi quella Turandot non l’ha potuta vedere che in video ricorderà ad esempio i copricapo dell’eroina eponima, raffinatissimi intrecci di perle e argento: “da vicino” assomigliano a una brutta copia di un lampadario; “da lontano”, garantivano a Eva Marton una freddezza nella figura pareggiata solo dalla lama della sua voce. E ancora, i successi all’Arena di Verona, dalla storica Aida con piramide in miniatura (recentemente animata dai si bemolle filati di Gregory Kunde) alla nuova produzione di Traviata, andata in scena lo scorso 21 giugno, post mortem, quale ultima impresa del maestro.

Zeffirelli mirava quindi agli intestini, ma con la testa, attingendo a un repertorio di saperi artigianali acquisito in anni di formazione strepitosi, al di qua della “frattura” del teatro di regia. Qui sta la seconda radice del suo “fare”, legata appunto agli orizzonti della cultura teatrale italiana del secondo dopoguerra. Affidandoci al racconto di Zeffirelli stesso, «quello che io conobbi allora, era un teatro dove si parlava sempre di cose concrete: ogni tentazione rivolta a scoprire a ogni costo convulsioni contenutistiche, rovesciamenti del testo per svelare pieghe ancora inesplorate e via discorrendo, non era neppure proponibile» (F. Zeffirelli, Autobiografia, Milano, Mondadori, 2006, p. 100). Un teatro di attori, il cui sistema di valori, secondo il toscano, sarebbe stato messo in crisi di lì a poco dai “puledrini” Strehler, Ronconi, De Lullo, Lavia, e via dicendo. Nella consueta dialettica tra tradizione e innovazione, tanto spesso manifesta nel caso dei “grandi vecchi”, Zeffirelli – che pure aveva partecipato alla prima, rampante stagione del neorealismo – assunse col tempo la posizione di estremo baluardo contro ciò che una parte di pubblico, specie di quello operistico, ritiene essere la barbarie contemporanea. 


Franco Zeffirelli e Katia Ricciarelli sul set di Otello (1986)

Ma “oggetti” come il “suo” Otello del 1986, prodotto dalla Cannon films di Menachem Golan e Yoram Globus, ci ricordano quali fossero i limiti di tale “tradizionalità”: «ho tolto trentacinque minuti di Verdi e Boito, ho inferto 163 tagli all’opera, in più ho messo delle toppe indispensabili [nei collegamenti armonici tra i tagli]. Insomma, dopo l’Otello di Shakespeare e quello di Verdi, ci sarà l’Otello di Zeffirelli» (N. Aspesi, L’Otello di Zeffirelli, in «la Repubblica», 15 maggio 1986). Non serve scomodare i teorici della performance per affermare che Zeffirelli, col tempo, sia giunto inesorabilmente a rappresentare sé stesso: operazione non dissimile da quelle aspramente criticate per il teatro di regia, né deprecabile in toto – in un caso e nell’altro. Spetterà ad altri affrontare questo nodo, e sciogliere ciò che vi è connesso: la costante polemica anti-comunista, trasformatasi alle volte in autogiustificazione per il “poco” lavoro offertogli dall’Italia; lo Zeffirelli “popolare” ma inviso ai critici (appunto) comunisti; l’amico di Berlusconi e ispiratore di certe sue attività nel campo della privatizzazione della cultura nazionale, il cui studio in sede critica molto avrà da dirci sullo stato attuale delle cose.


Franco Zeffirelli (2019)

Alla protagonista di Callas forever, film del 2002 con Fanny Ardant, non restava che “dare corpo” a una voce ormai perduta, conservata solo da registrazioni sonore risalenti agli anni di gloria. Di Zeffirelli resta un corpus enorme di immagini e visioni, siano esse sulla carta dei bozzetti conservati a Firenze, presso la Fondazione nata nel 2017, o nei depositi di scene e attrezzeria dei principali teatri del mondo. Vedremo, in un fatidico gioco di specchi, fino a quando si darà loro voce.



 

Vedi qui il video su Le storie di San Francesco di Giotto (1972), con Franco Zeffirelli, regia di Luciano Emmer

















Franco Zeffirelli in Piazza della Signoria a Firenze
 
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