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Donne e guerra

di Caterina Barone
  Elena / Le Troiane
Data di pubblicazione su web 27/05/2019  

Su una trilogia tutta al femminile si articola la 55a stagione degli spettacoli classici al Teatro Greco di Siracusa: Elena e Troiane di Euripide (in scena fino al 23 giugno) e Lisistrata di Aristofane (in programmazione dal 28 giugno al 6 luglio) sono i testi scelti per un ciclo, Donne e guerra, che vuole essere denuncia della follia della violenza bellica e al tempo stesso tributo al coraggio e alla resilienza femminile di fronte al dolore. Due tragedie e una commedia scritte in un breve arco di anni (Troiane è del 415 a.C., Elena del 412, Lisistrata del 411) da due autori letterariamente in contrasto, ma omologhi nel loro essere convintamente pacifisti.

Spiazzante per il pubblico ateniese del V secolo a.C., l’Elena è ancora oggi un’opera inafferrabile e sconcertante, per la singolare architettura drammaturgica che la caratterizza e che ne fa una tragedia anomala, percorsa com’è da intonazioni diverse e contrastanti che vanno dal drammatico al comico e anche al grottesco. Al centro della scena c’è un’eroina che tutti conoscono, o credono di conoscere: la più bella delle donne, sposa di Menelao, l’adultera che, fuggendo con Paride a Troia, ha scatenato una guerra distruttiva di una città e di un popolo. Ma Euripide ha in serbo una sorpresa per gli spettatori: Elena a Troia non è mai andata. Al suo posto la dea Hera ha mandato un eidolon, un fantasma fatto d’aria con la sua fisionomia. La vera Elena è in Egitto, e là da diciassette anni aspetta l’arrivo di Menelao, mantenendosi fedele al marito nonostante Teoclimeno, re di quel paese, voglia sposarla.


Un momento dello spettacolo
© Maria Pia Ballarino

Traendo spunto da una versione del mito presente in Stesicoro, autore della Palinodia (frr. 192, 193 Page), e, in forma diversa e razionalistica, in Erodoto (II, 112-120), Euripide plasma l’immagine di una donna innocente, vittima di una doxa, una fama immeritata che l’angustia al punto da farle rinnegare e odiare la sua stessa bellezza, causa per lei di tanti mali. L’arrivo di Menelao, naufrago sulle spiagge egizie, le aprirà la via del ritorno a Sparta e la riabilitazione agli occhi del mondo.

A partire dalla drammatica situazione iniziale, con Elena supplice sulla tomba del defunto re Proteo per sfuggire alle profferte amorose del giovane sovrano Teoclimeno, fino all’avventuroso lieto fine, l’opera è un susseguirsi di colpi di scena e di improvvise virate da un’intonazione all’altra, che ne rendono problematica la rappresentazione. Il regista Davide Livermore ha saputo districarsi nel ginepraio drammaturgico dell’Elena, costruendo uno spettacolo per certi versi sovrabbondante, ma capace di veicolare lo spirito composito del testo, messo opportunamente in luce dalla traduzione di Walter Lapini.

L’ambientazione scenografica è ardita: un lago di acque scure ricopre l’orchestra e lo spazio scenico del Teatro Greco, creando una sorta di buia palude che impaccia i movimenti dei personaggi vincolando ciascuno al proprio destino. Semisommersa ai margini della scena, una nave da guerra arrugginita protende sull’acqua i suoi cannoni ormai in disarmo. Sullo sfondo, in alto, un ampio schermo rimanda immagini di mari tempestosi e di cieli nuvolosi e plumbei, illuminati da bagliori improvvisi e popolati di statuarie e inquietanti presenze. Il volto della stessa Elena, invecchiato e incorniciato da una bianca chioma, vi appare in contrasto con la luminosa presenza scenica della protagonista (Laura Marinoni) rivestita di un abito sfolgorante di paillette (i costumi sono di Gianluca Falaschi). L’azione scenica e le immagini video sono costantemente accompagnate da una musica potente, composta da Andrea Chenna, che nella sua scrittura originale innesta due brani della Valse di Ravel e del Fandango dal Quintetto n. 4 di Boccherini. Oltre alle armonie dell’arpa suonata dal vivo, al disegno musicale concorrono anche i suoni prodotti dal moto degli attori nell’acqua, grazie anche all’utilizzo di microfoni subacquei: una partitura variegata per assecondare gli sbalzi stilistici del testo.


Un momento dello spettacolo
© Franca Centaro

Col volto coperto da un velo nero, Elena solca la scena seduta su una poltrona telecomandata a distanza, a tradurre visivamente la condizione dell’eroina vittima del volere degli dèi, arbitri capricciosi della sua esistenza. La circonda un Coro di giovani uomini che indossano lunghe gonne nere, con un’inversione di genere rispetto al testo praticata dal regista anche per la figura di Teucro (Viola Marietti), reduce dalla guerra di Troia, e più avanti per i due Messaggeri, affidati entrambi a giovani donne, Linda Gennari e Maria Chiara Centorami. Queste ultime, vestite come la protagonista, incarnano una sorta di doppio dilatando il tema del sosia su cui è costruito il testo euripideo, primo nel suo genere della tradizione teatrale dell’Occidente. E anche l’uso insistito degli specchi nei quali si riflette l’immagine della protagonista allude al contrasto tra doxa e aletheia, tra apparenza e verità, che innerva la tragedia.

Come da copione, l’arrivo in scena di Menelao (Sax Nicosia) accosta alla drammaticità della condizione di Elena quella del condottiero greco, vincitore a Troia, divenuto ora misero, lacero naufrago, costretto a elemosinare un aiuto in terra straniera. L’incontro con la vecchia portinaia (Mariagrazia Solano), che lo scaccia in malo modo, armeggiando con una scopa di saggina, segna una svolta nel testo che vira verso il grottesco, aprendosi poi, dopo il riconoscimento dei due sposi, a un percorso avventuroso e comico nell’ideazione della fuga e nell’attuazione dell’inganno ai danni del comicamente ingenuo Teoclimeno.

Una trama narrativa complessa, intessuta com’è anche di temi alti. Due su tutti: la vibrante denuncia dell’inutilità e della follia della guerra, espressa dal vecchio soldato, quando comprende l’inganno del fantasma («abbiamo combattuto invano per una nuvola?», v. 706), e poi dal Coro, nel primo stasimo (vv. 1151-1164), e l’affermazione del valore della ragione umana in rapporto al divino nell’episodio di Teonoe, la profetessa, sorella del re, che Elena e Menelao devono convincere a essere loro complice, prendendo una decisione del tutto autonoma. 


Un momento dello spettacolo
© Maria Pia Ballarino

Dal momento del riconoscimento in poi, Livermore scatena la sua fantasia e colora in maniera decisa tutti i personaggi. Elena, giocando tra seduzione e astuzia, grazie alla sapienza attoriale di Laura Marinoni, che passa agevolmente dal tono tragico a quello comico, è smaccatamente “teatrale” nell’esprimere davanti a Teoclimeno il proprio dolore per la presunta morte di Menelao. L’Atride, incapace di formulare un piano di fuga credibile, dipende totalmente dalle trame strategiche della moglie. Quanto al re (Giancarlo Judica Cordiglia), appare nelle vesti di un damerino del ’700, lezioso e superficiale, facile preda del raggiro che si consuma alle sue spalle. Anche Teonoe indossa abiti e parrucca come una dama di corte: una scelta, questa del regista, che collide col ruolo chiave di profondo contenuto morale e filosofico affidato alla sacerdotessa da Euripide. Sebbene non si possa affermare che il poeta arrivi a contrapporre il libero arbitrio dell’uomo al capriccio dispotico degli dei fino a negare la legittimità di questi ultimi e a esaltare la forza preponderante della ragione individuale, le parole pronunciate da Teonoe hanno un peso intrinseco destinato a perdersi qualora esse siano affidate a una sorta di Marie-Antoinette che si esprime col canto della pur brava Simonetta Cartia.

L’apparizione sui generis dei Dioscuri, due aitanti giovani (Vladimir Randazzo e Marcello Gravina), i cui fisici scolpiti vengono esaltati da lunghi abiti bianchi scintillanti di lustrini, chiude la trama come nell’originale ma non segna la fine dello spettacolo, che in ultimo offre alla vista degli spettatori – non più nell’immagine video, ma in carne e ossa sulla scena – un’Elena ormai vecchia. È forse una suggestione arrivata al regista attraverso l’Elena di Ritsos, dove l’eroina mitica, giunta alla fine della propria esistenza, è l’incarnazione dell’inconsistenza della gloria, della bellezza, delle passioni, in una sconsolata rappresentazione della caducità della vita umana.


Un momento dello spettacolo
© Maria Pia Ballarino

Al turgore visivo e sonoro dell’Elena si contrappone l’asciuttezza delle Troiane dirette da Muriel Mayette-Holtz la quale, muovendosi nel solco della tradizione e appoggiandosi alla fluida traduzione di Alessandro Grilli, ha puntato sul pathos intrinseco alla narrazione del dolore e dell’olocausto di un popolo. Il focus della tragedia è interamente puntato sulle donne, vittime di una guerra che ha distrutto la loro città e le loro famiglie. Devastazione e morte ammorbano l’aria e gravano pesanti anche sul destino dei vincitori, macchiatisi di hybris e destinati a un amaro ritorno, come sanciscono Poseidone e Atena nel prologo dell’opera. Alla raffigurazione tradizionale degli dèi – l’uno col chitone (Massimo Cimaglia), l’altra con peplo, elmo e lancia (Francesca Ciocchetti) – che ne sottolinea la distanza dalla condizione umana, la regista contrappone il nutrito coro delle Troiane: quarantacinque donne ricoperte di informi tute grigie lordate di polvere, così come lo sono i loro volti, capelli e mani. Non sfugge il riferimento visivo alle terribili immagini dell’11 settembre 2001, impresse nella mente di quanti assistettero attoniti a quell’accadimento. Tra le coreute c’è Ecuba, una regina che la sorte ha duramente colpito senza tuttavia fiaccarne il coraggio o cancellarne la dignità, come suggerisce l’interpretazione di Maddalena Crippa, misurata e composta nell’esprimere la sofferenza indicibile del personaggio, capace al tempo stesso di sostenere le altre madri, mogli e figlie travolte dal suo stesso destino. 

I corpi devastati delle donne si muovono in un paesaggio reso spettrale da una selva di alberi morti: sono tronchi provenienti dal Friuli Venezia Giulia devastato dalla tempesta Vaia, che nell’ottobre 2018 rase al suolo interi boschi del nord d’Italia. L’idea è stata dell’architetto Stefano Boeri, al suo debutto come creatore di scene, per stabilire con quell’immagine un’equivalenza tra la desertificazione dei sentimenti e insieme degli spazi di vita conseguente alla guerra. La follia degli uomini non colpisce solo gli esseri viventi ma spezza il delicato equilibrio della natura.


Un momento dello spettacolo
© Franca Centaro

Nell’opera euripidea la tragicità della situazione iniziale sembra non lasciare spazio a ulteriori lutti e invece il succedersi dei personaggi sulla scena crea una climax ascendente di disgrazie. L’apparizione di Cassandra mette in luce la violenza sacrilega compiuta sul suo corpo e lascia intravedere il futuro di morte che l’attende ad Argo. La fragilità anche fisica dell’attrice che incarna la sacerdotessa (Marial Bajma Riva) conferisce al personaggio una fisionomia patologica, esasperata dalla recitazione allucinata e dai movimenti spasmodici che la deprivano della sua connaturata sacralità.

Al suo delirio subentra il dolore di Andromaca (reso in maniera un po’ stereotipata da Elena Arvigo) – ormai schiava di Neottolemo e destinata a essere la sua concubina – che si trasforma in disperazione nell’apprendere la fine crudele decisa dai greci per il piccolo Astianatte, il figlio di Ettore. Né le vittime troveranno conforto nell’agognata punizione di Elena, l’adultera (connotata in tutta la sua sfrontatezza e sottile fascino da Viola Graziosi) che riesce a far breccia nel cuore del debole Menelao (Graziano Piazza), nonostante le lucide accuse rivoltele da Ecuba.

A Paolo Rossi è stato affidato l’onere di portare in scena l’ambiguo Taltibio, il soldato semplice, l’uomo comune indurito da dieci anni di guerra che ne hanno anestetizzato i sentimenti e l’umana pietà al punto da fargli adempiere con solerzia e cinismo il proprio ingrato compito di consegnare ai padroni le nuove schiave. Un ruolo che l’attore interpreta senza crederci fino in fondo, mettendo in campo l’aria stralunata che gli è propria. Semplici ed essenziali sono le musiche di Cyril Giroux, volutamente minimaliste, sorprendentemente affidate al suono della chitarra di Fiammetta Poidomani che accompagna le voci del Coro a creare un’atmosfera di dolorosa quotidianità.


Un momento dello spettacolo
© Maria Pia Ballarino

Alla sepoltura di Astianatte, ultima vittima della ferocia dei vincitori, concorrono tutte le donne che affiancano Ecuba nel rito funebre, spogliandosi delle loro grigie tute per creare un tumulo di stoffe: una tomba povera, fatta con quanto rimane della passata ricchezza. Il loro gesto rivela il rosso delle sottovesti, dissonante con il contesto plumbeo (una reminiscenza della bimba icona di Schindler list?), simbolo del sangue versato e della bruciante sofferenza che le pervade. Di fronte all’annientamento tuttavia le troiane, nella lettura di Muriel Mayette-Holtz, sono «donne capaci di rialzare la testa e di marciare sulla propria pena» traendo forza dal carisma di Ecuba, che infonde in loro la forza di resistere, sebbene in ultimo il rogo della città martoriata, che la regista ha voluto vivo sulla scena, appaia all’anziana regina l’estremo rimedio ai suoi mali.



Elena / Le Troiane
Elena
cast cast & credits
 
Le Troiane
cast cast & credits
 


Laura Marinoni (Elena)
© Maria Pia Ballarino







Elena Arvigo (Andromaca)
© Maria Pia Ballarino

 
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