Su
una trilogia tutta al femminile si articola la 55a stagione degli
spettacoli classici al Teatro Greco di Siracusa: Elena e Troiane di Euripide
(in scena fino al 23 giugno) e Lisistrata di Aristofane
(in programmazione dal 28 giugno al 6 luglio) sono i testi scelti per un ciclo,
Donne e guerra, che vuole essere
denuncia della follia della violenza bellica e al tempo stesso tributo al
coraggio e alla resilienza femminile di fronte al dolore. Due tragedie e una
commedia scritte in un breve arco di anni (Troiane
è del 415 a.C., Elena del 412, Lisistrata del 411) da due autori
letterariamente in contrasto, ma omologhi nel loro essere convintamente
pacifisti.
Spiazzante per il pubblico ateniese del V secolo a.C., lElena è ancora oggi unopera
inafferrabile e sconcertante, per la singolare architettura drammaturgica che
la caratterizza e che ne fa una tragedia anomala, percorsa comè da intonazioni
diverse e contrastanti che vanno dal drammatico al comico e anche al grottesco.
Al centro della scena cè uneroina che tutti conoscono, o credono di
conoscere: la più bella delle donne, sposa di Menelao, ladultera che, fuggendo
con Paride a Troia, ha scatenato una guerra distruttiva di una città e di un
popolo. Ma Euripide ha in serbo una sorpresa per gli spettatori: Elena a Troia
non è mai andata. Al suo posto la dea Hera ha mandato un eidolon, un fantasma fatto daria con la sua fisionomia. La vera
Elena è in Egitto, e là da diciassette anni aspetta larrivo di Menelao,
mantenendosi fedele al marito nonostante Teoclimeno, re di quel paese, voglia
sposarla. Un momento dello spettacolo © Maria Pia Ballarino Traendo
spunto da una versione del mito presente in Stesicoro, autore della Palinodia (frr. 192, 193 Page), e, in
forma diversa e razionalistica, in Erodoto (II, 112-120), Euripide
plasma limmagine di una donna innocente, vittima di una doxa, una fama immeritata che langustia al punto da farle
rinnegare e odiare la sua stessa bellezza, causa per lei di tanti mali.
Larrivo di Menelao, naufrago sulle spiagge egizie, le aprirà la via del
ritorno a Sparta e la riabilitazione agli occhi del mondo.
A
partire dalla drammatica situazione iniziale, con Elena supplice sulla tomba
del defunto re Proteo per sfuggire alle profferte amorose del giovane sovrano
Teoclimeno, fino allavventuroso lieto fine, lopera è un susseguirsi di colpi
di scena e di improvvise virate da unintonazione allaltra, che ne rendono
problematica la rappresentazione. Il regista Davide Livermore ha saputo
districarsi nel ginepraio drammaturgico dellElena, costruendo uno spettacolo per certi versi sovrabbondante, ma
capace di veicolare lo spirito composito del testo, messo opportunamente in
luce dalla traduzione di Walter Lapini.
Lambientazione
scenografica è ardita: un lago di acque scure ricopre lorchestra e lo spazio
scenico del Teatro Greco, creando una sorta di buia palude che impaccia i
movimenti dei personaggi vincolando ciascuno al proprio destino. Semisommersa ai
margini della scena, una nave da guerra arrugginita protende sullacqua i suoi
cannoni ormai in disarmo. Sullo sfondo, in alto, un ampio schermo rimanda
immagini di mari tempestosi e di cieli nuvolosi e plumbei, illuminati da
bagliori improvvisi e popolati di statuarie e inquietanti presenze. Il volto
della stessa Elena, invecchiato e incorniciato da una bianca chioma, vi appare
in contrasto con la luminosa presenza scenica della protagonista (Laura
Marinoni) rivestita di un abito sfolgorante di paillette (i costumi sono di
Gianluca Falaschi). Lazione scenica e le immagini video sono
costantemente accompagnate da una musica potente, composta da Andrea Chenna,
che nella sua scrittura originale innesta due brani della Valse di Ravel
e del Fandango dal Quintetto n. 4 di Boccherini. Oltre
alle armonie dellarpa suonata dal vivo, al disegno musicale concorrono anche i
suoni prodotti dal moto degli attori nellacqua, grazie anche allutilizzo di
microfoni subacquei: una partitura variegata per assecondare gli sbalzi
stilistici del testo. Un momento dello spettacolo © Franca Centaro
Col
volto coperto da un velo nero, Elena solca la scena seduta su una poltrona
telecomandata a distanza, a tradurre visivamente la condizione delleroina
vittima del volere degli dèi, arbitri capricciosi della sua esistenza. La
circonda un Coro di giovani uomini che indossano lunghe gonne nere, con
uninversione di genere rispetto al testo praticata dal regista anche per la
figura di Teucro (Viola Marietti), reduce dalla guerra di Troia, e più
avanti per i due Messaggeri, affidati entrambi a giovani donne, Linda
Gennari e Maria Chiara Centorami. Queste ultime, vestite come la
protagonista, incarnano una sorta di doppio dilatando il tema del sosia su cui
è costruito il testo euripideo, primo nel suo genere della tradizione teatrale
dellOccidente. E anche luso insistito degli specchi nei quali si riflette
limmagine della protagonista allude al contrasto tra doxa e aletheia, tra
apparenza e verità, che innerva la tragedia.
Come
da copione, larrivo in scena di Menelao (Sax Nicosia) accosta alla
drammaticità della condizione di Elena quella del condottiero greco, vincitore
a Troia, divenuto ora misero, lacero naufrago, costretto a elemosinare un aiuto
in terra straniera. Lincontro con la vecchia portinaia (Mariagrazia Solano),
che lo scaccia in malo modo, armeggiando con una scopa di saggina, segna una
svolta nel testo che vira verso il grottesco, aprendosi poi, dopo il
riconoscimento dei due sposi, a un percorso avventuroso e comico nellideazione
della fuga e nellattuazione dellinganno ai danni del comicamente ingenuo
Teoclimeno.
Una
trama narrativa complessa, intessuta comè anche di temi alti. Due su tutti: la
vibrante denuncia dellinutilità e della follia della guerra, espressa dal
vecchio soldato, quando comprende linganno del fantasma («abbiamo combattuto
invano per una nuvola?», v. 706), e
poi dal Coro, nel primo stasimo (vv. 1151-1164), e laffermazione del valore
della ragione umana in rapporto al divino nellepisodio di Teonoe, la
profetessa, sorella del re, che Elena e Menelao devono convincere a essere loro
complice, prendendo una decisione del tutto autonoma.
Un momento dello spettacolo © Maria Pia Ballarino
Dal
momento del riconoscimento in poi, Livermore scatena la sua fantasia e colora
in maniera decisa tutti i personaggi. Elena, giocando tra seduzione e astuzia,
grazie alla sapienza attoriale di Laura Marinoni, che passa agevolmente dal
tono tragico a quello comico, è smaccatamente “teatrale” nellesprimere davanti
a Teoclimeno il proprio dolore per la presunta morte di Menelao. LAtride,
incapace di formulare un piano di fuga credibile, dipende totalmente dalle
trame strategiche della moglie. Quanto al re (Giancarlo Judica Cordiglia),
appare nelle vesti di un damerino del 700, lezioso e superficiale, facile
preda del raggiro che si consuma alle sue spalle. Anche Teonoe indossa abiti e
parrucca come una dama di corte: una scelta, questa del regista, che collide
col ruolo chiave di profondo contenuto morale e filosofico affidato alla sacerdotessa
da Euripide. Sebbene non si possa affermare che il poeta arrivi a contrapporre
il libero arbitrio delluomo al capriccio dispotico degli dei fino a negare la
legittimità di questi ultimi e a esaltare la forza preponderante della ragione
individuale, le parole pronunciate da Teonoe hanno un peso intrinseco destinato
a perdersi qualora esse siano affidate a una sorta di Marie-Antoinette che si
esprime col canto della pur brava Simonetta Cartia.
Lapparizione
sui generis dei Dioscuri, due aitanti
giovani (Vladimir Randazzo e Marcello Gravina), i cui fisici
scolpiti vengono esaltati da lunghi abiti bianchi scintillanti di lustrini,
chiude la trama come nelloriginale ma non segna la fine dello spettacolo, che
in ultimo offre alla vista degli spettatori – non più nellimmagine video, ma
in carne e ossa sulla scena – unElena ormai vecchia. È forse una suggestione
arrivata al regista attraverso lElena
di Ritsos, dove leroina mitica, giunta alla fine della propria
esistenza, è lincarnazione dellinconsistenza della gloria, della bellezza,
delle passioni, in una sconsolata rappresentazione della caducità della vita
umana.
Un momento dello spettacolo © Maria Pia Ballarino Al turgore visivo e sonoro dellElena si contrappone lasciuttezza delle Troiane dirette da Muriel Mayette-Holtz la quale, muovendosi nel solco della tradizione e appoggiandosi alla fluida traduzione di Alessandro Grilli, ha puntato sul pathos intrinseco alla narrazione del dolore e dellolocausto di un popolo. Il focus della tragedia è interamente puntato sulle donne, vittime di una guerra che ha distrutto la loro città e le loro famiglie. Devastazione e morte ammorbano laria e gravano pesanti anche sul destino dei vincitori, macchiatisi di hybris e destinati a un amaro ritorno, come sanciscono Poseidone e Atena nel prologo dellopera. Alla raffigurazione tradizionale degli dèi – luno col chitone (Massimo Cimaglia), laltra con peplo, elmo e lancia (Francesca Ciocchetti) – che ne sottolinea la distanza dalla condizione umana, la regista contrappone il nutrito coro delle Troiane: quarantacinque donne ricoperte di informi tute grigie lordate di polvere, così come lo sono i loro volti, capelli e mani. Non sfugge il riferimento visivo alle terribili immagini dell11 settembre 2001, impresse nella mente di quanti assistettero attoniti a quellaccadimento. Tra le coreute cè Ecuba, una regina che la sorte ha duramente colpito senza tuttavia fiaccarne il coraggio o cancellarne la dignità, come suggerisce linterpretazione di Maddalena Crippa, misurata e composta nellesprimere la sofferenza indicibile del personaggio, capace al tempo stesso di sostenere le altre madri, mogli e figlie travolte dal suo stesso destino. I
corpi devastati delle donne si muovono in un paesaggio reso spettrale da una
selva di alberi morti: sono tronchi provenienti dal Friuli Venezia Giulia
devastato dalla tempesta Vaia, che nellottobre 2018 rase al suolo interi
boschi del nord dItalia. Lidea è stata dellarchitetto Stefano Boeri,
al suo debutto come creatore di scene, per stabilire con quellimmagine unequivalenza
tra la desertificazione dei sentimenti e insieme degli spazi di vita
conseguente alla guerra. La follia degli uomini non colpisce solo gli esseri
viventi ma spezza il delicato equilibrio della natura.
Un momento dello spettacolo © Franca Centaro Nellopera euripidea la tragicità della situazione iniziale sembra non lasciare spazio a ulteriori lutti e invece il succedersi dei personaggi sulla scena crea una climax ascendente di disgrazie. Lapparizione di Cassandra mette in luce la violenza sacrilega compiuta sul suo corpo e lascia intravedere il futuro di morte che lattende ad Argo. La fragilità anche fisica dellattrice che incarna la sacerdotessa (Marial Bajma Riva) conferisce al personaggio una fisionomia patologica, esasperata dalla recitazione allucinata e dai movimenti spasmodici che la deprivano della sua connaturata sacralità. Al suo delirio subentra il dolore di Andromaca (reso in maniera un po stereotipata da Elena Arvigo) – ormai schiava di Neottolemo e destinata a essere la sua concubina – che si trasforma in disperazione nellapprendere la fine crudele decisa dai greci per il piccolo Astianatte, il figlio di Ettore. Né le vittime troveranno conforto nellagognata punizione di Elena, ladultera (connotata in tutta la sua sfrontatezza e sottile fascino da Viola Graziosi) che riesce a far breccia nel cuore del debole Menelao (Graziano Piazza), nonostante le lucide accuse rivoltele da Ecuba. A Paolo
Rossi è stato affidato lonere di portare in scena lambiguo Taltibio, il
soldato semplice, luomo comune indurito da dieci anni di guerra che ne hanno
anestetizzato i sentimenti e lumana pietà al punto da fargli adempiere con
solerzia e cinismo il proprio ingrato compito di consegnare ai padroni le nuove
schiave. Un ruolo che lattore interpreta senza crederci fino in fondo,
mettendo in campo laria stralunata che gli è propria. Semplici ed essenziali
sono le musiche di Cyril Giroux, volutamente minimaliste,
sorprendentemente affidate al suono della chitarra di Fiammetta Poidomani
che accompagna le voci del Coro a creare unatmosfera di dolorosa quotidianità. Un momento dello spettacolo © Maria Pia Ballarino
Alla sepoltura di Astianatte, ultima vittima della ferocia dei vincitori, concorrono tutte le donne che affiancano Ecuba nel rito funebre, spogliandosi delle loro grigie tute per creare un tumulo di stoffe: una tomba povera, fatta con quanto rimane della passata ricchezza. Il loro gesto rivela il rosso delle sottovesti, dissonante con il contesto plumbeo (una reminiscenza della bimba icona di Schindler list?), simbolo del sangue versato e della bruciante sofferenza che le pervade. Di fronte allannientamento tuttavia le troiane, nella lettura di Muriel Mayette-Holtz, sono «donne capaci di rialzare la testa e di marciare sulla propria pena» traendo forza dal carisma di Ecuba, che infonde in loro la forza di resistere, sebbene in ultimo il rogo della città martoriata, che la regista ha voluto vivo sulla scena, appaia allanziana regina lestremo rimedio ai suoi mali.
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