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Il dolore umano attraverso il pensiero di Eschilo

di Giulia Bravi
  ORESTEA / Agamennone, Schiavi, Conversio
Data di pubblicazione su web 03/04/2019  

L’Orestea di Eschilo ha affascinato tutti i più grandi registi del Novecento fino ai nostri giorni; pensiamo a Pier Paolo Pasolini (1960), Luca Ronconi (1972), Peter Stein (1980), Franco Parenti (1985) e Romeo Castellucci (1995 e 2016), per citarne solo alcuni. C’è qualcosa di profondo ed eterno in questa trilogia classica, l’unica integralmente superstite del teatro attico. 

Anagoor, giovane compagnia veneta vincitrice del Leone d’Argento 2018, approda a Eschilo con una riscrittura dell’Orestea. Lo spettacolo, che ha aperto la 46° edizione del Festival internazionale del Teatro alla Biennale di Venezia lo scorso 20 luglio, non è solo un punto di arrivo per la compagnia, ma è anche l’avvio per una riflessione sulle «macerie dell’Occidente» (cfr. il programma di sala). Dopo Virgilio brucia (2014), Anagoor propone ancora un lavoro sulla parola, sul linguaggio che prova ad accorciare la distanza tra noi e i poeti antichi, riscoprendone l’elemento di purificazione dei sentimenti umani.

Parola e sentimenti: così la saga degli Atridi giunge agli spettatori del nuovo millennio. Quale ripercussione può avere nelle nostre vite un testo così distante nel tempo? Se lo chiede Anagoor, ponendoci di fronte a un doppio interrogativo che riguarda il teatro e più in generale l’arte. La risposta sta tutta nella messa in risalto degli elementi extra storici della tragedia: gli esseri umani più che gli eroi, i loro sentimenti, la perdita di punti di riferimento metafisici che li tutelino di fronte al male. Così questa versione della tragedia è «un’opera sull’Orestea di Eschilo, prima che una riduzione o un trattamento della stessa» (dal programma di sala): una vicenda umana che attraversa l’antica Grecia per approdare alla contemporaneità. Il risultato è magniloquente: tre ore e mezzo, divise in due tempi, di parole, immagini, suoni, musica e danza in un’aura di sacralità espressa nel rito.


Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo 
© Giulio Favotto

Marco Menegoni dà inizio alla messinscena con le luci in sala ancora accese e una musica dal ritmo tribale in sottofondo. Solo in scena il corifeo è uno di noi, uomo comune che dà voce al coro affidando la propria recitazione unicamente alla voce, mentre gli altri attori muti e plastici vivono al suo posto lo spazio del racconto. Parola e azione condividono la scena abitando corpi differenti. Come se stessimo leggendo il testo di Eschilo (tradotto da Simone Derai e Patrizia Vercesi), le immagini sulla scena prendono vita lentamente. Sullo sfondo proiezioni video con riferimenti all’attualità sottolineano la valenza metafisica di un’opera che, a partire dalle vicende di Agamennone al ritorno da Ilio (annunciato da una registrazione riprodotta su magnetofono), racconta una storia senza tempo fatta di umanità, paura e morte. La riflessione su queste tematiche universali affrontate dal coro dell’Agamennone procede, talvolta scostandosi dall’originale, contaminata dal pensiero di poeti e intellettuali di tutti i tempi (da Virgilio a Emanuele Severino, da Leopardi a Sebald, da Hermann Broch a Annie Ernaux) e da allusioni ai giorni nostri (la macellazione negli allevamenti intensivi di bovini denunciata nei video).

La poesia di Eschilo viaggia nel tempo e così viaggiano i suoi protagonisti, mediante l’uso di oggetti di scena che assumono una valenza semantico-cronologica. Quando Clitemnestra (Monica Tonietto) fa il suo discorso al popolo di Argo perché accolga il ritorno del grande eroe con le dovute cerimonie, utilizza un microfono vintage. La confessione di un giovanissimo Egisto (Benedetto Patruno) e della regina (più una madre che un’amante) è messa in onda su due schermi sovrastanti l’arco scenico nei quali i personaggi in primo piano sono mostrati parallelamente. Uno straniante duetto questa intervista-interrogatorio in cui i complici raccontano l’omicidio di Agamennone mentre l’intervistatrice resta invisibile: il richiamo è a quella sorta di tribunale popolare che sono diventati oggi i mezzi di comunicazione di massa (social media e televisione). Il giudizio degli altri e il senso di giustizia sono i veri protagonisti, così come la paura per il diverso e il desiderio di annientarlo.



Un momento dello spettacolo 
© Giulio Favotto

L’elemento “esterno” è rappresentato dalla figura di Cassandra, approdata ad Argo come trofeo di guerra del grande condottiero. L’attrice che la interpreta (Gayané Movsisyan) recita in armeno creando una polifonia linguistica che rispecchia la difficoltà di comunicazione tra culture diverse. È nel silenzio che assistiamo alla sua condanna e alle violenze che le vengono usate e che subito richiamano alla mente l’odierna tragedia dei rifugiati. Così sulle note del Kindertotenlieder n. 1 di Mahler cantato da Monica Tonietto, ai piedi di una montagna di lana fresca di taglio, si ricordano le vittime della guerra, soprattutto i bambini. La musica amplifica la liricità del testo di Eschilo così come la recitazione dalla calda, appassionata voce della Tonietto che ci abbandona soltanto nella lunga scena della cerimonia per Agamennone, preludio del suo omicidio. Qui ancora una volta parola e immagini vengono scisse: gli attori sono doppiati dai primi piani televisivi. L’utilizzo di ogni mezzo possibile di amplificazione e trasmissione contribuisce alla propagazione dell’eco della potenza della poesia di Eschilo.

Il rispetto per l’opera originale è esplicitato anche dalla scansione originale delle parti in cui è composta la tragedia antica, dalla parodo all’esodo. Evitando letture politiche o sociologiche, l’interpretazione di Anagoor sembra più interessata alle sfumature antropologiche e al tema della sacralità: qualcosa che nella cultura contemporanea è andato scomparendo per lasciar posto al sentimento del “vuoto”. Un vuoto abitato dai turbamenti umani, dalle domande senza risposta dei filosofi che da sempre si pongono domande sulla morte cercando di dare un senso all’esistenza. Ecco allora che il passato diventa àncora di salvataggio per il presente.



Un momento dello spettacolo 
© Giulio Favotto 

Nel finale, in cui tutti i personaggi sono in scena, il giudizio di Oreste è affidato, anziché al tribunale delle Eumenidi, a una carrellata di immagini di musei e opere d’arte antiche, di turisti che visitano siti archeologici e monumenti senza più comprendere la vera funzione dell’arte, di quel teatro che ha perduto il suo potere taumaturgico. I costumi creati da Simone Derai, in particolare quello di Clitemnestra con la maschera dalle fattezze tribali che le occulta bocca e naso, riportano alla mente la Medea di Pasolini.

La regia è densa di significati, di allegorie. L’allestimento, frutto di accurato studio, è arricchito dalle coreografie di Giorgia Ohanesian Nardin, dai suoni di Mauro Martinuz e dai video di Simone Derai e Giulio Favotto. Se la prima parte della messinscena è coinvolgente grazie all’operazione di scavo e analisi fatta da Anagoor sull’Agamennone, nella seconda – sintesi di Coefore ed Eumenidi – si perde un po’ il senso del discorso là dove la lunghezza della messinscena ne appesantisce la godibilità.

Spettacolo visto il 16 marzo 2019 al Teatro Fabbricone di Prato.



ORESTEA / Agamennone, Schiavi, Conversio
cast cast & credits
 


Un'immagine dello spettacolo
Un momento dello spettacolo visto il 16 marzo 2019 al Teatro Fabbricone di Prato
© Giulio Favotto


 
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