LOrestea
di Eschilo ha affascinato tutti i più
grandi registi del Novecento fino ai nostri giorni; pensiamo a Pier Paolo Pasolini (1960), Luca Ronconi (1972), Peter Stein (1980), Franco Parenti (1985) e Romeo Castellucci (1995 e 2016), per
citarne solo alcuni. Cè qualcosa di profondo ed eterno in questa trilogia classica,
lunica integralmente superstite del teatro attico. Anagoor, giovane compagnia
veneta vincitrice del Leone dArgento 2018, approda a Eschilo con una
riscrittura dellOrestea. Lo
spettacolo, che ha aperto la 46° edizione del Festival internazionale del
Teatro alla Biennale di Venezia lo scorso 20 luglio, non è solo un punto di
arrivo per la compagnia, ma è anche lavvio per una riflessione sulle «macerie
dellOccidente» (cfr. il programma di
sala). Dopo Virgilio brucia (2014), Anagoor propone
ancora un lavoro sulla parola, sul linguaggio che prova ad accorciare la
distanza tra noi e i poeti antichi, riscoprendone lelemento di purificazione
dei sentimenti umani. Parola e sentimenti: così la saga degli
Atridi giunge agli spettatori del nuovo millennio. Quale ripercussione può
avere nelle nostre vite un testo così distante nel tempo? Se lo chiede Anagoor,
ponendoci di fronte a un doppio interrogativo che riguarda il teatro e più in
generale larte. La risposta sta tutta nella messa in risalto degli elementi
extra storici della tragedia: gli esseri umani più che gli eroi, i loro
sentimenti, la perdita di punti di riferimento metafisici che li tutelino di
fronte al male. Così questa versione della tragedia è «unopera sullOrestea di Eschilo, prima che una
riduzione o un trattamento della stessa» (dal programma di sala): una vicenda
umana che attraversa lantica Grecia per approdare alla contemporaneità. Il
risultato è magniloquente: tre ore e mezzo, divise in due tempi, di parole,
immagini, suoni, musica e danza in unaura di sacralità espressa nel rito.

Un momento dello spettacolo © Giulio Favotto Marco
Menegoni dà inizio alla messinscena con le luci in sala
ancora accese e una musica dal ritmo tribale in sottofondo. Solo in scena il corifeo
è uno di noi, uomo comune che dà voce al coro affidando la propria recitazione
unicamente alla voce, mentre gli altri attori muti e plastici vivono al suo
posto lo spazio del racconto. Parola e azione condividono la scena abitando
corpi differenti. Come se stessimo leggendo il testo di Eschilo (tradotto
da Simone Derai e Patrizia Vercesi), le immagini sulla
scena prendono vita lentamente. Sullo sfondo proiezioni video con riferimenti allattualità
sottolineano la valenza metafisica di unopera che, a partire dalle vicende di
Agamennone al ritorno da Ilio (annunciato da una registrazione riprodotta su
magnetofono), racconta una storia senza tempo fatta di umanità, paura e morte.
La riflessione su queste tematiche universali affrontate dal coro dellAgamennone procede, talvolta scostandosi
dalloriginale, contaminata dal pensiero di poeti e intellettuali di tutti i
tempi (da Virgilio a Emanuele Severino, da Leopardi a Sebald, da Hermann
Broch a Annie Ernaux) e da
allusioni ai giorni nostri (la macellazione negli allevamenti intensivi di
bovini denunciata nei video).
La poesia di Eschilo viaggia nel tempo e
così viaggiano i suoi protagonisti, mediante luso di oggetti di scena che
assumono una valenza semantico-cronologica. Quando Clitemnestra (Monica Tonietto) fa il suo discorso al
popolo di Argo perché accolga il ritorno del grande eroe con le dovute
cerimonie, utilizza un microfono vintage.
La confessione di un giovanissimo Egisto (Benedetto Patruno) e
della regina (più una madre che unamante) è messa in onda su due schermi sovrastanti
larco scenico nei quali i personaggi in primo piano sono mostrati
parallelamente. Uno straniante duetto questa intervista-interrogatorio in cui i
complici raccontano lomicidio di Agamennone mentre lintervistatrice resta
invisibile: il richiamo è a quella sorta di tribunale popolare che sono diventati
oggi i mezzi di comunicazione di massa (social
media e televisione). Il giudizio degli altri e il senso di giustizia sono
i veri protagonisti, così come la paura per il diverso e il desiderio di
annientarlo.
Un momento dello spettacolo © Giulio Favotto Lelemento “esterno” è rappresentato dalla
figura di Cassandra, approdata ad Argo come trofeo di guerra del grande
condottiero. Lattrice che la interpreta (Gayané
Movsisyan) recita in armeno creando una polifonia linguistica che rispecchia la difficoltà di comunicazione tra culture diverse. È nel
silenzio che assistiamo alla sua condanna e alle violenze che le vengono usate e
che subito richiamano alla mente lodierna tragedia dei rifugiati. Così sulle
note del Kindertotenlieder n. 1 di Mahler cantato da Monica Tonietto, ai
piedi di una montagna di lana fresca di taglio, si ricordano le vittime della
guerra, soprattutto i bambini. La musica amplifica la liricità del testo di
Eschilo così come la recitazione dalla calda, appassionata voce della Tonietto
che ci abbandona soltanto nella lunga scena della cerimonia per Agamennone,
preludio del suo omicidio. Qui ancora una volta parola e immagini vengono
scisse: gli attori sono doppiati dai primi piani televisivi. Lutilizzo di ogni
mezzo possibile di amplificazione e trasmissione contribuisce alla
propagazione delleco della potenza della poesia di Eschilo. Il rispetto per lopera originale è
esplicitato anche dalla scansione originale delle parti in cui è composta la
tragedia antica, dalla parodo allesodo. Evitando letture politiche o
sociologiche, linterpretazione di Anagoor sembra più interessata alle
sfumature antropologiche e al tema della sacralità: qualcosa che nella cultura
contemporanea è andato scomparendo per lasciar posto al sentimento del “vuoto”.
Un vuoto abitato dai turbamenti umani, dalle domande senza risposta dei
filosofi che da sempre si pongono domande sulla morte cercando di dare
un senso allesistenza. Ecco allora che il passato diventa àncora di
salvataggio per il presente.
Un momento dello spettacolo © Giulio Favotto Nel finale, in cui tutti i personaggi sono
in scena, il giudizio di Oreste è affidato, anziché al tribunale delle Eumenidi, a una carrellata di immagini
di musei e opere darte antiche, di turisti che visitano siti archeologici e
monumenti senza più comprendere la vera funzione dellarte, di quel teatro che
ha perduto il suo potere taumaturgico. I costumi creati da Simone Derai, in
particolare quello di Clitemnestra con la maschera dalle fattezze tribali che
le occulta bocca e naso, riportano alla mente la Medea di Pasolini.
La regia è densa di significati, di allegorie. Lallestimento, frutto di accurato studio, è arricchito dalle
coreografie di Giorgia Ohanesian Nardin,
dai suoni di Mauro Martinuz e dai
video di Simone Derai e Giulio Favotto.
Se la prima parte della messinscena è coinvolgente grazie alloperazione di
scavo e analisi fatta da Anagoor sullAgamennone,
nella seconda – sintesi di Coefore ed
Eumenidi – si perde un po il senso del
discorso là dove la lunghezza della messinscena ne appesantisce la godibilità. Spettacolo visto il 16 marzo 2019 al Teatro Fabbricone di Prato.
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ORESTEA / Agamennone, Schiavi, Conversio
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Un momento dello spettacolo visto il 16 marzo 2019 al Teatro Fabbricone di Prato © Giulio Favotto
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