Al di là della retorica (ma sarebbe più corretto dire “della dialettica”,
per luso che ne fa Donizetti) dei “crescendo”
della Sinfonia, delle ornamentazioni della primadonna, dei sopracuti del
tenore, in cosa consiste la difficoltà più profonda di Anna Bolena? Nellessere
incanalata su un doppio binario: equilibri architettonici e frantumazioni delle
articolazioni interne, calibrature classiciste e sollecitazioni romantiche non
più procrastinabili dopo che Bellini,
tre anni prima, aveva realizzato Il pirata. Anche per questo i
drastici tagli cui la Bolena è stata tradizionalmente sottoposta (a
cominciare dalla mitica serata scaligera del 1957 con Maria Callas guidata
dalla bacchetta di Gianandrea Gavazzeni e dalla regia di Luchino Visconti, che segnò la rinascita novecentesca di questo capolavoro sepolto
dalla Storia) hanno deformato la sua giusta percezione: in una partitura che è
tutta un gioco di pesi e contrappesi, pure un solo colpo di forbici vanifica il
quadro complessivo. Figurarsi quando – come si fece allora, e nei decenni a
seguire si è fatto – a venire tagliata è quasi unora di musica.
Molto apprezzabile, dunque, che il Teatro dellOpera di Roma abbia
riproposto questo primo grande melodramma donizettiano nella sua integrità.
Tanto più, però, sarebbe stata necessaria una concertazione personale,
idiomatica, risolutiva sul piano drammatico, articolata su quello stilistico. Riccardo Frizza mostra di credere a una
Bolena infuocata, forse più vigorosa – si avverte una certa pesantezza
di braccio nelle reminiscenze rossiniane della Sinfonia – che romanticamente
impetuosa, tendente a privilegiare le accensioni piuttosto che gli equilibri
(certe scelte agogiche appaiono eccessive, si trascolora da subitanee
accelerazioni ad eccessivi rallentamenti). Latita, almeno in parte, la capacità
di restituire il senso delle grandi architetture formali, delle ampie campate,
dellincastonarsi dellantico pezzo chiuso allinterno di più dilatati monoblocchi
(con il frastagliamento psicologico-vocale che ne è il corollario). E se le protagoniste
egemoni e accentratrici che hanno puntellato, ieri e oggi, la storia
interpretativa di Bolena potevano trarre vantaggio da una direzione un po
generica, una primadonna più “artista” che “mattatrice” come Maria Agresta avrebbe tratto miglior
profitto da una lettura musicale più appiombata.
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama
Si tratta comunque di uninterprete il cui slancio è talvolta
sottopelle, ma che è tuttaltro che povera di carattere. La sua voce di soprano
lirico, per quanto ampia e timbrata, non può valorizzarsi in quel registro
centro-grave spesso sollecitato dallinfelice regina donizettiana: eppure, al
contrario delle due grandi Bolene “liriche” di ieri (Edita Gruberova e Mariella
Devia) che adattavano il ruolo alla propria caratura vocale, e analogamente
semmai al più remoto modello di Renata
Scotto, nella Agresta la duttilità prevale sullegotismo e la cantante non
scende a patti con lontologia canora del personaggio. Dunque, le variazioni
sembrano dettate da sagacia drammatica piuttosto che spettacolarità esornativa;
precisione e morbidezza degli attacchi non vanno a scapito – comè spesso nel
destino delle incarnazioni liricizzate – della voluminosità; e la saldezza con
cui domina il proprio strumento consente alla Agresta delle agilità di forza dalta
temperatura emotiva. Tutto il disegno interpretativo, poi, sembra volto (in
linea più con la realtà storica che con la sua vulgata ottocentesca) a fare
della seconda moglie di Enrico VIII non una vittima predestinata, ma una donna
sensuale e volitiva, con le sue tragiche ambizioni e i suoi lati oscuri. Semmai,
qua e là, si nota il vezzo di cambiare alcune vocali per aggredire meglio il
suono: ma è un peccato veniale.
In questa prospettiva, anche Carmela
Remigio plasma una Jane Seymour (colei che diventerà la terza delle sei
consorti di Enrico VIII) di fertile ambiguità psicologica, al contempo opposta
speculare alla Bolena della Agresta: non la tradizionale rivale diabolica della
primadonna angelica, ma una creatura contraddittoria, sedotta prima che
seduttrice, vittima del turbine dei sensi piuttosto che della smania di potere,
arrampicatrice per destino e non per vocazione. Il fatto stesso di essere a sua
volta un soprano (la parte di Seymour è nominalmente mezzosopranile, ma di
fatto ibrida) consente alla Remigio di affrancarsi dal cliché
antagonistico, profilando, in termini drammaturgico-vocali, una Jane che è una
sorta di “doppio” rovesciato di Anna. Purtroppo, rispetto alla Agresta, la sua
è una voce oggi assai meno sana: molte ottime intenzioni interpretative sembrano
più intuibili che tradotte in canto, mentre ciò che oggettivamente resta
allascoltatore sono certe aperture di suono – alla ricerca di un più cospicuo
volume – nel settore grave e alcune impennate acute oltremodo oscillanti.
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama
La parte di Percy – il “vero amore” di Bolena tradito per il soglio – è
una delle più archetipiche della grande tenorilità protoromantica. A farsi
carico del soave “legato” di quella mestizia trepidante e delle impennate
sopracute di quelle aristocraticissime concitazioni è stato, a Roma, René Barbera: che sfoggia
unorganizzazione vocale capace di tutte le note del ruolo (le più estreme modanate
in un pregevole falsettone), ma non lomogeneità per uniformare un registro
superiore molto sonoro a uno centrale assai più gracile per volume ed
espansione. Dario Russo aggredisce i panni regali di
Enrico VIII con un vitalismo sensuale e violento, almeno nel primo atto
notevole per robustezza fonica e densità timbrica: peccato che poi la voce,
forse non amministrata con accortezza, inizi a opacizzarsi.
Smeton, il paggio innamorato che sarà causa involontaria della
catastrofe finale, era incarnato da Martina
Belli con verosimiglianza fisica e vocalità fin troppo luminosa per questo
ruolo contraltile: ma dovendosi confrontare con due soprani, anche la sua voce
di mezzosoprano piuttosto chiaro creava il necessario divario timbrico. Quanto
ai ruoli minori di Rochefort e Hervey, la musica di Donizetti imprime loro
unicasticità da cui comprimari di talento possono trarre gran profitto. Ci è
riuscito in pieno Andrii Ganchuk:
voce baritonale “importante” da dirottare verso cimenti più impegnativi, ma pure
interprete efficace nel ritrarre le ambiguità del fratello di Anna, la sua
corresponsabilità nellambizione dissennata della sorella. Meno convincente la
raffigurazione di Hervey, classica anima nera del potente di turno: un carattere
ricorrente nei comprimariati tenorili donizettiani (vengono in mente, di primo
acchito, Normanno della Lucia e Don Gasparo della Favorita), ma con
troppi eccessi di sottolineatura nel ritrattino sbozzato da Nicola Pamio.
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama
Forse per evidenziare quel doppio binario di
cui si diceva allinizio, pure
Andrea De
Rosa realizza una regia bifasica: antirealistica nellimpronta complessiva,
allinsegna di una visualità schematica e visionaria, ma con improvvise virate
nella prosaicità naturalista (i cachinni da mandrillo in fregola alla corte di
Enrico, il manrovescio di Anna a Smeton…); così come la stilizzata
concettualità dellimpianto scenico geometrico-metallico sembra poi contraddetta
da certi arredi – i cuscini, i candelabri – sapientemente calligrafici (forse
non a caso la scenografia è a quattro mani: “di”
Luigi Ferrigno, ma “da unidea di”
Sergio Tramonti). Ondivago, non sempre coerente, lo spettacolo
trova il suo punto di forza nelleleganza dei costumi cinquecenteschi di
Ursula Patzak e imprime nello
spettatore almeno un
flash emozionante: la rete metallica che cala sul
letto della protagonista, trasformando in gabbia il suo talamo colpevole.