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La linfa di Macbeth

di Paolo Patrizi
  Macbeth
Data di pubblicazione su web 26/02/2019  

Drammaturgia musicale è un termine oggi abusato da studiosi e recensori: spesso mettendo sotto lo stesso ombrello Mozart e Graham Vick, Wagner e Calixto Bieito, diavolo e acqua santa, alcova e sagrestia. Ma converrà ricordare, in primo luogo, che nel teatro d’opera la drammaturgia è la musica: e che drammaturgo musicale, per proprietà transitiva, sarà quel regista capace di rendere in termini di evidenza teatrale quanto l’operista fa circolare nei tessuti più riposti delle proprie armonie, in quei tunnel “leitmotivici” percepibili più all’inconscio che all’orecchio del pubblico. Sotto quest’aspetto, Marin Blažević – regista di punta in area ex iugoslava, direttore a Fiume del Teatro Nazionale Croato Ivan Zajc – è un drammaturgo operisticamente esemplare. E appunto da Fiume viene un suo Macbeth nudo e asciutto come il prototipo verdiano (quello shakespeariano qualche “divagazione” la offre), dove il racconto scorre senza didascalismi né attualizzazioni, ma semplicemente dando forma al pensiero musicale dell’autore.

Un momento dello spettacolo © Dražen Šokčević
Un momento dello spettacolo
© Dražen Šokčević

Qual è, infatti, la linfa nascosta del Macbeth? Un andamento ora increspato e sciabordante, ora francamente ondulatorio, un arpeggio tenebroso chiamato a puntellare molti brani e a concluderli nel registro basso: l’ampia cellula melodica “a ondate” permeante il canto spettrale di La luce langue è il momento più sintomatico di questa rete di segnali sonori che avviluppa l’ascoltatore. Tutto ciò Blažević, vero drammaturgo musicale, sa restituircelo: dai passettini burattineschi con cui i sicari avanzano al proscenio nel grottesco basso ostinato del loro coro all’incessante oscillare – carezzevole e larvale – del collo e del busto di Lady Macbeth durante, appunto, La luce langue. Pure quella marcia villereccia che descrive (in modo inappropriato, secondo alcuni) il passaggio fuori scena del re Duncano non è mai apparsa così congrua, proprio perché Blažević sottolinea l’antitesi tra momento cerimoniale e musica popolaresca con un’ulteriore dissociazione: Macbeth e sua moglie danno le spalle l’uno all’altra, sancendo, nell’istante in cui hanno stabilito il loro disegno criminoso, anche la propria incomunicabilità. Certe posture dicono più di qualsiasi Regietheater: e la plasticità del lavoro registico sulla “recitazione” delle mani di lei – non nella scena del sonnambulismo, ma già dall’inizio – è il suggello più eloquente dello spettacolo.

In un palcoscenico spoglio, con fari a vista, i pochi oggetti (firmano le scenografie dieci allievi dell’Accademia delle Belle Arti di Brera, con la supervisione di Edoardo Sanchi) hanno valore di segni: per la coppia assassina due troni lignei fatti di spade, ma simili anche alle cataste di un rogo (un modo per agganciare Macbeth al Trovatore, e pure all’autodafé del Don Carlo, visto che a spingere quei troni è un servo di scena in abiti da domenicano); salvo poi, nel momento terminale della follia di Lady Macbeth, trasformare quel suo trono nella carrozzina di un’invalida, trascinata dal medesimo frate. Il resto lo fanno i tagli di luce, i fumi, le ombre (da brividi la silhouette del piccolo Fleanzio che saltella inconsapevole mentre avanzano gli assassini), il sangue così copioso da diventare un’idea anziché un fatto, le controscene davanti ai momenti terrificanti: se si debba vedere o no lo spettro di Banco è un vecchio dilemma registico, mostrarlo o meno significa far leggere la scena con gli occhi di Macbeth o con quelli degli altri. Blažević sceglie una soluzione intermedia che scompagina ulteriormente le percezioni: il fantasma non lo vediamo, ma a scorgerlo – oltre a Macbeth – sono pure tutti gli invitati al banchetto. Solo la Lady resta cieca davanti all’apparizione: il che da un lato ci fa sposare il suo punto di vista, piuttosto che quello del marito, dall’altro la rende ancora più isolata e lascia premonire la sua fine.

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Dražen Šokčević

Infine, il parco ma sapiente uso dei video: primi piani in bianco e nero – prima che la musica cominci, e poi per tutto l’ultimo atto – del volto dei due protagonisti, che sembrano amplificare gli spazi mentali, piuttosto che quelli fisici. Forse per questo, benché lo spettacolo opti formalmente per la versione del 1865 (con il taglio delle danze: ma Blažević mantiene salda la dimensione coreutica “coreografizzando” altri momenti di pertinenza delle streghe), il regista decide di chiudere con il più ristretto epilogo della stesura originaria. L’ultima parola spetta al protagonista morente e al suo mondo di fantasmi: per il finale epico-politico dispiegato da Verdi diciotto anni dopo, nel Macbeth di Blažević, non c’è spazio. In questa visualità affilata e disadorna, la concertazione di Yordan Kamdzhalov rappresenta un adeguato corrispettivo: incline soprattutto alla grande sciabolata fonica, e dunque interessato più all’oscurità irrefrenabile della tragedia (certe battute a tutta forza del preludio, il grido di orrore che apre il Finale primo…) che alla rarefatta misteriosità lirica di molti altri passi, senza però mai scantonare nell’effettistico o nel monodimensionale. E la compatta orchestra del Teatro Nazionale Croato, a sua volta propensa a un suono “sinfonico” piuttosto che “cantabile”, risponde con convinzione a tale lettura.

D’altronde, pure un protagonista un po’ impoverito nel timbro e nella rotondità dell’emissione come Giorgio Surian (il basso fiumano, dopo un’illustre carriera internazionale, è ora rientrato nella compagnia del teatro della sua città natale “scoprendosi” una voce da baritono) suggerisce un Macbeth efficace nella plasticità declamatoria più che nell’involo canoro. Viene in mente la parabola di Mario Petri: altro illustre basso che, sul finire del suo percorso artistico, si trasformò in baritono, trovando proprio nel ruolo verdiano-shakespeariano la raffigurazione più calzante. Ma soprattutto si può pensare a certi grandi Macbeth di scuola germanica, da Metternich a Fischer-Dieskau (e non a caso: il tedesco, lingua consonantica, ha affinità più con il croato che con l’italiano), icastici nel ritrarre la sconsolata aridità del personaggio e non nel restituire quel suono omogeneo, insieme morbido e robusto, che contraddistingue la baritonalità verdiana. Pallido ma pregnante, il Macbeth di Surian s’incanala in questa direttrice.

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Dražen Šokčević

In teoria anche Kristina Kolar potrebbe apparire leggermente sottodimensionata, in rapporto a certi squarci titanici della frastagliata vocalità di Lady Macbeth: ma qui il risultato complessivo è soggiogante. Ci troviamo di fronte non a un soprano drammatico, ma – piuttosto – a un soprano lirico “tagliente”, capace di restituire le sferzate sonore del personaggio senza la matronalità delle Lady tradizionali, e non privo di retrogusti mezzosopranili, assai fertili per questo ruolo fondamentalmente ibrido. Di catturante magnetismo scenico nel suo sedurre verso l’abisso, ma altrettanto ipnotica nel trasformarsi in creatura sfatta e delirante, e affilatissima pure come dicitrice (la sua lettura della lettera, che Blažević fa ascoltare registrata e non dal vivo per accentuarne le fantasmatiche metallicità, ha una nettezza di contorni impressionante), la Kolar copre in modo ineccepibile l’intero arco drammatico del ruolo. Anche se i momenti migliori, probabilmente, sono un La luce langue continuamente piegato al caleidoscopio di sollecitazioni della pagina (compianto, voluttà, ferocia…) e un Brindisi di formidabile varietà dinamica, perfetto nella dialettica tra la baldanza slanciata della prima esposizione e l’angosciosa ripresa a denti stretti.

Entusiasmano meno il Banco giustamente perplesso e circospetto, ma che non decolla in vero grande personaggio, di Luka Ortar e il Macduff a disagio nel canto scoperto del Finale primo (e più concentrato, invece, nella sua aria) di Giorgio Christian Surian. Tra le parti di fianco s’impone almeno la Dama di Vanja Zelčić, voce sempre in vista nel concertato del primo atto, capace di ritagliarsi un suo piccolo spazio piano anche nella scena del sonnambulismo della Lady. Quanto al coro fiumano, amalgamatissimo e composto da autentici cantanti-attori, avrebbe da insegnare a molte compagini corali italiane: con una menzione speciale per il versante femminile, dove le streghe cantano proprio «staccate e marcate assai», come raccomanda Verdi in partitura.

Spettacolo visto il 19 febbraio 2019 al Teatro Nazionale Croato Ivan Zajc di Fiume.


Macbeth
Melodramma in quattro parti


cast cast & credits
 
trama trama


Un momento dello spettacolo © Dražen Šokčević
Un momento dello spettacolo diretto da Marin Blažević al Teatro Nazionale Croato Ivan Zajc (Fiume)
© Dražen Šokčević





 
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