Drammaturgia musicale è un termine oggi abusato da
studiosi e recensori: spesso mettendo sotto lo stesso ombrello Mozart e Graham Vick, Wagner e Calixto Bieito, diavolo e acqua santa,
alcova e sagrestia. Ma converrà ricordare, in primo luogo, che nel teatro
dopera la drammaturgia è la musica: e che drammaturgo musicale, per
proprietà transitiva, sarà quel regista capace di rendere in termini di
evidenza teatrale quanto loperista fa circolare nei tessuti più riposti delle
proprie armonie, in quei tunnel “leitmotivici” percepibili più allinconscio
che allorecchio del pubblico. Sotto questaspetto, Marin Blažević – regista di punta in area ex iugoslava, direttore a
Fiume del Teatro Nazionale Croato Ivan Zajc – è un drammaturgo operisticamente
esemplare. E appunto da Fiume viene un suo Macbeth nudo e asciutto come
il prototipo verdiano (quello shakespeariano qualche “divagazione” la offre),
dove il racconto scorre senza didascalismi né attualizzazioni, ma semplicemente
dando forma al pensiero musicale dellautore.
Un momento dello spettacolo
© Dražen Šokčević
Qual è, infatti, la linfa nascosta del Macbeth?
Un andamento ora increspato e sciabordante, ora francamente ondulatorio, un arpeggio
tenebroso chiamato a puntellare molti brani e a concluderli
nel registro basso: lampia cellula melodica “a ondate” permeante il canto
spettrale di La luce langue è il momento più sintomatico di questa rete
di segnali sonori che avviluppa lascoltatore. Tutto ciò Blažević, vero drammaturgo
musicale, sa restituircelo: dai passettini burattineschi con cui i sicari
avanzano al proscenio nel grottesco basso ostinato del loro coro allincessante
oscillare – carezzevole e larvale – del collo e del busto di Lady Macbeth
durante, appunto, La luce langue. Pure quella marcia villereccia che descrive
(in modo inappropriato, secondo alcuni) il passaggio fuori scena del re Duncano
non è mai apparsa così congrua, proprio perché Blažević sottolinea lantitesi
tra momento cerimoniale e musica popolaresca con unulteriore dissociazione:
Macbeth e sua moglie danno le spalle luno allaltra, sancendo, nellistante in
cui hanno stabilito il loro disegno criminoso, anche la propria incomunicabilità.
Certe posture dicono più di qualsiasi Regietheater: e la plasticità del
lavoro registico sulla “recitazione” delle mani di lei – non nella scena del
sonnambulismo, ma già dallinizio – è il suggello più eloquente dello
spettacolo.
In un palcoscenico spoglio, con fari a vista, i
pochi oggetti (firmano le scenografie dieci allievi dellAccademia delle Belle
Arti di Brera, con la supervisione di Edoardo
Sanchi) hanno valore di segni: per la coppia
assassina due troni lignei fatti di spade, ma simili anche alle cataste di un
rogo (un modo per agganciare Macbeth al Trovatore, e pure allautodafé
del Don Carlo, visto che a spingere quei troni è un servo di scena in
abiti da domenicano); salvo poi, nel momento terminale della follia di Lady
Macbeth, trasformare quel suo trono nella carrozzina di uninvalida, trascinata
dal medesimo frate. Il resto lo fanno i tagli di luce, i fumi, le ombre (da
brividi la silhouette del piccolo Fleanzio che saltella inconsapevole
mentre avanzano gli assassini), il sangue così copioso da diventare unidea anziché
un fatto, le controscene davanti ai momenti terrificanti: se si debba vedere o
no lo spettro di Banco è un vecchio dilemma registico, mostrarlo o meno
significa far leggere la scena con gli occhi di Macbeth o con quelli degli
altri. Blažević sceglie una soluzione intermedia che scompagina ulteriormente
le percezioni: il fantasma non lo vediamo, ma a scorgerlo – oltre a Macbeth –
sono pure tutti gli invitati al banchetto. Solo la Lady resta cieca davanti
allapparizione: il che da un lato ci fa sposare il suo punto di vista,
piuttosto che quello del marito, dallaltro la rende ancora più isolata e lascia
premonire la sua fine.
Un momento dello spettacolo
© Dražen Šokčević
Infine, il parco ma sapiente uso dei video: primi
piani in bianco e nero – prima che la musica cominci, e poi per tutto lultimo
atto – del volto dei due protagonisti, che sembrano amplificare gli spazi
mentali, piuttosto che quelli fisici. Forse per questo, benché lo spettacolo
opti formalmente per la versione del 1865 (con il taglio delle danze: ma Blažević
mantiene salda la dimensione coreutica “coreografizzando” altri momenti di
pertinenza delle streghe), il regista decide di chiudere con il più ristretto
epilogo della stesura originaria. Lultima parola spetta al protagonista
morente e al suo mondo di fantasmi: per il finale epico-politico dispiegato da Verdi diciotto anni dopo, nel Macbeth
di Blažević, non cè spazio. In questa visualità affilata e disadorna, la
concertazione di Yordan Kamdzhalov rappresenta
un adeguato corrispettivo: incline soprattutto alla grande sciabolata fonica, e
dunque interessato più alloscurità irrefrenabile della tragedia (certe battute
a tutta forza del preludio, il grido di orrore che apre il Finale primo…) che
alla rarefatta misteriosità lirica di molti altri passi, senza però mai
scantonare nelleffettistico o nel monodimensionale. E la compatta orchestra
del Teatro Nazionale Croato, a sua volta propensa a un suono “sinfonico” piuttosto
che “cantabile”, risponde con convinzione a tale lettura.
Daltronde, pure un protagonista un po impoverito
nel timbro e nella rotondità dellemissione come Giorgio Surian (il basso
fiumano, dopo unillustre carriera internazionale, è ora rientrato nella
compagnia del teatro della sua città natale “scoprendosi” una voce da baritono)
suggerisce un Macbeth efficace nella plasticità declamatoria più che nellinvolo
canoro. Viene in mente la parabola di Mario
Petri: altro illustre basso che, sul finire del suo percorso artistico, si
trasformò in baritono, trovando proprio nel ruolo verdiano-shakespeariano la
raffigurazione più calzante. Ma soprattutto si può pensare a certi grandi
Macbeth di scuola germanica, da Metternich
a Fischer-Dieskau (e non a caso: il
tedesco, lingua consonantica, ha affinità più con il croato che con litaliano),
icastici nel ritrarre la sconsolata aridità del personaggio e non nel
restituire quel suono omogeneo, insieme morbido e robusto, che contraddistingue
la baritonalità verdiana. Pallido ma pregnante, il Macbeth di Surian sincanala
in questa direttrice.
Un momento dello spettacolo
© Dražen Šokčević
In teoria anche Kristina Kolar potrebbe apparire leggermente sottodimensionata, in
rapporto a certi squarci titanici della frastagliata vocalità di Lady Macbeth:
ma qui il risultato complessivo è soggiogante. Ci troviamo di fronte non a un
soprano drammatico, ma – piuttosto – a un soprano lirico “tagliente”, capace di
restituire le sferzate sonore del personaggio senza la matronalità delle Lady
tradizionali, e non privo di retrogusti mezzosopranili, assai fertili per
questo ruolo fondamentalmente ibrido. Di catturante magnetismo scenico nel suo
sedurre verso labisso, ma altrettanto ipnotica nel trasformarsi in creatura
sfatta e delirante, e affilatissima pure come dicitrice (la sua lettura della
lettera, che Blažević fa ascoltare registrata e non dal vivo per accentuarne le
fantasmatiche metallicità, ha una nettezza di contorni impressionante), la
Kolar copre in modo ineccepibile lintero arco drammatico
del ruolo. Anche se i momenti migliori, probabilmente, sono un La luce
langue continuamente piegato al caleidoscopio di sollecitazioni della
pagina (compianto, voluttà, ferocia…) e un Brindisi di formidabile varietà
dinamica, perfetto nella dialettica tra la baldanza slanciata della prima
esposizione e langosciosa ripresa a denti stretti.
Entusiasmano meno il Banco giustamente perplesso e
circospetto, ma che non decolla in vero grande personaggio, di Luka Ortar e il Macduff a disagio nel
canto scoperto del Finale primo (e più concentrato, invece, nella sua aria) di Giorgio Christian Surian. Tra le parti
di fianco simpone almeno la Dama di Vanja
Zelčić, voce sempre in vista nel concertato del primo atto, capace di
ritagliarsi un suo piccolo spazio piano anche nella scena del sonnambulismo
della Lady. Quanto al coro fiumano, amalgamatissimo e composto da autentici
cantanti-attori, avrebbe da insegnare a molte compagini corali italiane: con
una menzione speciale per il versante femminile, dove le streghe cantano
proprio «staccate e marcate assai», come raccomanda Verdi in partitura.
Spettacolo visto il 19 febbraio 2019 al Teatro Nazionale Croato Ivan Zajc di Fiume.
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