Il Don Giovanni tradotto e adattato da Valerio Binasco per il Teatro Nazionale di Torino ambienta la vicenda del “mitico” personaggio ai nostri giorni, riuscendo solo in parte convincente. La plausibilità delle situazioni “aggiornate” e dei conseguenti rapporti fra i personaggi urta col linguaggio del testo originale e con la sua pregnante allusività a complessi valori di portata universale. Così la forza poetica di Molière appare sminuita dallagire, spesso superficiale e velleitario, di figure figlie dun mondo in stato di avanzata degradazione civile e mentale. Eppure, nella volgarità diffusa ed esibita, saffaccia ancora qualche sincera riflessione su unumanità ferita e distorta, segnata da mali generalizzati.
Il regista lavora sulla lingua e insieme sui luoghi immaginari del teatro. Trasloca la scena dalla Sicilia ai dintorni napoletani, attraversati da miseria e scarsa nobiltà e popolati dalle presenze invadenti del costume malavitoso. La scenografia mostra nellatto primo unarchitettura da “basso” suburbano, dai frusti colori pompeiani. La seduzione spericolata e sciagurata (atto secondo) si svolge in un piccolo bar sullanonima riviera. Indi la scena si apre a un esterno con una grande luna-fondale, per tornare poi a una dimora sobria ma trascurata. I cambiamenti scenici richiedono qualche lungaggine, coperta dalla musica che nel corso dello spettacolo commenta emotivamente lazione.
Un momento dello spettacolo © Donato Aquaro
Don Giovanni, scellerato sia come nobile sia come borghese, ricorre a violenza e cinismo per conseguire a ogni costo un sogno paradossale di perfetta malvagità “a oltranza”, sfidando i poteri costituiti. E la scommessa coinvolge pure le potenze spirituali (cosiddette celesti o soprannaturali) che dovrebbero contribuire a orientare la vita comune. Nei bassifondi dove si cimenta nelle sue scorribande erotiche, il Burlador (definito tale nei versi di Tirso da Molina proiettati sul velario dellarcoscenico), fiero di avere ripudiato lElvira rapita e restituita al convento, circuisce servette da angiporto. I fratelli della novizia accorrono a vendicare lonore offeso in completo scuro da camorristi, armati duna spada d'antan. La ragazza si ripresenta piangente con la tonaca e il velo monacali, denuncia lonta, ma nel tentativo di redimere lex amante gli si offre smaniosa e sensuale in un ritorno di fiamma. Un ritorno agli impulsi vitali genuini – perora il regista creatore di questa “modernità”. Ma lo spettatore stenta a digerire i resti delleloquio moliéresque intrisi di neologismi e di dialetto, praticati dal gruppo dei “nativi” ingenui. Intanto, certi anacronismi divertenti finiscono in improbabili spontaneità dei personaggi più umili (recitati da giovani valenti), fra i quali spiccano la dabbenaggine gelosa di Pierrot e la credulità (incredibile) della sua Charlotte.
Lequilibrio del rapporto fra padrone e servo è comunque mantenuto dallinterpretazione dei rispettivi attori. Gianluca Gobbi è incline ad accentuare larroganza cinica e gretta del suo personaggio (veste giacca di pelle e stivaletti) fuggendo pervicacemente le proprie responsabilità. Mentre il fascino del seduttore scompare, questo Don Giovanni esprime uninsofferenza viscerale verso ogni morale, unipocrisia eletta a virtù provocatoria e aggressiva; con picchi di violenza clamorosa, come nel pestaggio del povero Pierrot o nello spergiuro sul matrimonio immediato garantito alla fidanzata. Insiste inoltre perfido a perseguitare linterlocutore, senza mai innescare una riflessione profonda sul senso autentico di quelle scelte comportamentali, apparentemente insensate fino allautolesionismo.

Un momento dello spettacolo © Donato Aquaro
Sganarello trova in Sergio Romano unoriginale intonazione minimalista, impreziosita dalle intuizioni e dai suggerimenti di alternative efficaci ai gesti gratuiti del padrone. Forma con Don Giovanni una coppia non clownesca né convenzionale nel gioco dei ruoli, apprezzabile per il realismo dei dettagli. Il severo monito critico di Molière pare così diluirsi in certi eccessi verbali e nellostentazione dellimpostura da parte di Don Giovanni, che cerca ulteriore conferma di prestigio inducendo il mendicante a bestemmiare. Infine, al suo falso ravvedimento agli occhi del padre (dolente ma speranzoso) saggiunge linvenzione di uno scambio di missive, a riprova dellipocrisia conclamata.
Gli effetti scenici tradizionali, giustificati dal finale “meraviglioso”, sono qui rimpiazzati da una significativa composizione che unisce, nel mausoleo, la Statua del Commendatore e la Figura Velata (con il volto di Elvira). Al tavolo dellestremo convito, lospite impudente e sacrilego è come attratto dal simulacro della sua vittima, fino ad “aderirvi” e a morire sulle sue ginocchia. Echeggia allora il tuono quale segno dun turbamento cosmico (un po comico o ironico). Sganarello, rendendosi conto dellennesima fregatura, invoca: «La mia paga! La mia paga!», ma ormai invano.
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