Ho assistito con vero gusto allultima replica
dello spettacolo Eduardo per iNuovi, «quattro atti
brevi di Eduardo De Filippo», al bel
Teatro Niccolini di Firenze rinnovato e restituito alla sua originaria funzione
di palestra (anche) per i giovani. La regia e la drammaturgia sono di Gianfelice
Imparato, attore, regista e drammaturgo con un ventaglio di esperienze che
vanno (in teatro) da La gatta Cenerentola
di De Simone (1976) alla regia di La festa (1999) di Scimone/Sframeli.
Dopo essere stato negli anni 1980-1995 uno degli attori principali della
compagnia Granteatro diretta dal fiorentino napoletanizzato Carlo Cecchi
(con sede appunto al Niccolini), poi interprete eduardiano sotto la guida del compianto
Luca De Filippo, attualmente sostituisce questultimo con personale
efficacia nella compagnia intitolata al figlio di Eduardo, gestita con aperture
inedite e generose da Carolina Rosi.
Gianfelice stesso mi ha invitata: forse per i
miei annosi studi eduardiani, ma anche perché ci siamo conosciuti personalmente
nelloccasione della ripresa di Questi
fantasmi! al Teatro Verdi di Pisa (2017), dove ho presentato a pubblico e
studenti universitari lo spettacolo messo in scena dalla compagnia Luca De Filippo.
Gli devo un parere, e glielo do molto volentieri.
Bello spettacolo, divertentissimo con un fondo
sotteso di amarezza (come avrebbe voluto lattore-autore), perfettamente
calibrato nelle coreografie e nella recitazione dei giovani scelti dallo stesso
Imparato fra i diplomati del Corso per Attori Orazio Costa e di altre scuole di
teatro per questo spettacolo, i quali formano nellinsieme appunto il gruppo de
iNuovi con residenza al Niccolini.
Quattro atti unici brevi – Pericolosamente, I morti non fanno paura, Amicizia
(primo tempo), Uomo e galantuomo
(secondo tempo) –, sebbene dallultimo si estragga e si rappresenti soltanto e
giustamente il primo atto, con lesilarante ma magistrale (alla lettera) “scena
delle prove”. Del resto, come atto unico e con il titolo Ho fatto il guaio? Riparerò! il testo era stato allestito dalla
compagnia di Vincenzo Scarpetta nel 1924 (Vincenzo/Alberto, limpresario; Eduardo/Gennaro, il capocomico). Come
novità e in tre atti fu poi presentato al Sannazzaro di Napoli, nel 1933, dal
Teatro Umoristico “I De Filippo”. Si conferma così quella drammaturgia delle attrazioni che (anche) Claudio Meldolesi
individua come formato originario di quella eduardiana; testimoniata
emblematicamente dalla genesi a tappe di Natale
in casa Cupiello dove ogni atto, specialmente il primo e il secondo, ha
potuto essere recitato autonomamente. Ancora Meldolesi afferma che da Pirandello
Eduardo ha imparato a strutturare in tre atti o in due tempi le sue commedie,
pur senza tradire ma “riattivando” il portato drammaturgico della tradizione (lattrazione
come puntello tragicomico dellatto). Gianfelice Imparato e iNuovi © Filippo Manzini
E proprio Pirandello risorge nello
spettacolo de iNuovi in una prospettiva
lievemente “canzonatoria”: nellatto unico di Uomo e galantuomo alla prova di Malanova
da Libero Bovio è subentrata quella
di La morsa. La citazione pirandelliana affettuosamente ironica costituisce una
costante del percorso artistico di Eduardo e fratelli: il loro primo innesto scenico sulla drammaturgia del
“Superautore” (Meldolesi) avviene attraverso il mondo famigliare delle parodie; con quel Sei comici in cerca dautore che, insieme a Sik-Sik, lartefice magico, costituisce uno dei quadri della
rivista Pulcinella principe in sogno
(1930). Coincidenza significativa, anche questa, della capacità dassorbimento
del teatro eduardiano: mentre il nostro crea il sosia Sik-Sik, propone la
caricatura quasi esorcistica dei fantasmi di Pirandello; e li trasforma da “personaggi” in “comici”, ovvero in attori (Eduardo il Padre, Titina la Figliastra e
Peppino il Figlio…). Quanto alle Cantate, pensiamo agli equivoci personaggi che
irrompono in Questi fantasmi! disorientando
il protagonista: famigliari dellamante di sua moglie ma con connotazioni
melodrammaticamente ectoplasmatiche.
Colpiscono subito nello spettacolo de iNuovi
(la scelta di La morsa si deve a loro,
secondo Imparato) non tanto questa variante, che entra nel secondo tempo
dimostrando la duttilità della drammaturgia eduardiana,
quanto la lingua, lessenzialità scenografica, la valorizzazione degli effetti
comici, la naturalezza (non il naturalismo!) della recitazione, e soprattutto –
come già accennato – il perfetto coordinamento di prossemica e coreografia dellensemble. Proprio per concentrarmi su
questi aspetti performativi eviterò qui di riferire la storia dei testi,
perlopiù appartenenti alla Cantata dei
giorni pari allepoca del magnifico trio anteguerra formato dal “blocco”
Eduardo-Titina-Peppino; alcuni di tali testi variati dallautore stesso nel
prosieguo delle pubblicazioni delle Cantate. Soltanto Amicizia appartiene alla Dispari
(dovè inserita per la prima volta nel 1958, dopo il debutto nel 52, anche se
qualche studioso ne fa risalire la composizione agli anni Trenta). Incominciamo dalla lingua: nello spettacolo de iNuovi
si recita in italiano perché gli attori provengono da diverse regioni. Come
lingua teatrale qui litaliano funziona benissimo dal punto di vista dei
“meccanismi, della grammatica e della musicalità della drammaturgia comica”
(Note di regia): non si tratta di adeguarsi alla ricezione di un pubblico medio
quanto piuttosto di valorizzare ogni singolo attore, il suo apporto speciale al
complesso. Al tempo stesso si testimoniano luniversalità e la traducibilità
del teatro eduardiano, anche se, ovviamente, la genesi partenopea di tale
comicità resta un valore aggiunto. I meccanismi sono quelli di una “terra di
teatro” che affonda le radici in un passato illustre, popolare e colto; eppure essi
rispondono in pieno a quelli individuati da Bergson in Il riso (1900): il diavolo a molla e la
ripetizione (di situazioni e di frasi), nonché specialmente il qui pro quo. Pericolosamente. Arturo (Filippo Lai) e Dorotea (Laura Pinato) © Filippo Manzini In Pericolosamente
assistiamo allassurda modalità escogitata – allinizio per caso – da Arturo (Filippo Lai) per tenere a freno le
intemperanze della moglie Dorotea (Laura
Pinato); ma la ripetizione dello sparo suscita il riso (anche se solo verso
la fine si scoprirà a salve) perché noi spettatori siamo coinvolti in una
momentanea “anestesia del cuore” al punto che deridiamo (inconsciamente?) il
testimone allibito e impotente (Michele: Lorenzo
Volpe), amico invitato dal coniuge (fintamente) sparatore a occupare una
camera di quella casa famigliarmente movimentata.
Unaltra camera (in affitto a un commesso
viaggiatore) in I morti non fanno paura
(titolo che ribattezza nel 1952 la variata Requie
a lanema soja... del 26)
si è trasformata (nellantefatto) in morgue per il decesso
improvviso del proprietario. Si assiste alle curiose condoglianze alla vedova
Amalia (Claudia Ludovica Marino),
inconsolabile soprattutto perché lasciata in miseria, da parte dei colleghi
della compagnia del Gas Alfredo (Filippo
Lai) e Giovannino (Francesco Grossi),
compreso il ritardatario (per litigio coniugale) Pietro (Lorenzo Volpe).
Segue l“avvenimento” inatteso dellingresso dellaffittuario ammalato Enrico (Athos Leonardi) che crea tensione e
scompiglio perché (ignaro del passaggio
del defunto) vuole andare coricarsi nel suo
letto. In Amicizia,
dove il titolo è ironico e antifrastico, un moribondo tardivo (Bartolomeo: Filippo Lai) – stando alla sorella Carolina
che impazientemente lo accudisce (Nadia
Saragoni) – dovrebbe ricevere un amico più volte ricusato, a meno che non
si travesta da una serie di personaggi senza la cui visita egli non può morire. Con questatto termina
il primo tempo che ha come fil rouge
la morte o la sua finzione, una morte che desta il riso anche perché, fin da
queste commedie, lautore è convinto che «la
tragedia moderna è quella che fa ridere […] ma affondando il dito nella piaga […],
nella tragedia comune […]. Noi ridiamo di tutto in questo momento, perfino
della morte!» (E. De Filippo, Lezioni di
teatro: allUniversità di Roma “La Sapienza”, a cura di P. Quarenghi,
Torino, Einaudi, 1986, p. 92).
Questo regista non compie evidenti rivoluzioni
formali, come invece aveva fatto Alfonso Santagata – altro cecchiano
prima di fondare con Morganti la compagnia Katzenmacher – nello
spettacolo Quali fantasmi,
tre atti unici di Eduardo (Gennareniello,
Il cilindro e già Amicizia) del 2003 (Premio Girulà-Teatro
a Napoli 2004 per la migliore drammaturgia). Imparato trae succhi tragicomici
dagli interpreti (otto, che si alternano o si sdoppiano nei personaggi), capaci
di connotare le relative parti con una scioltezza che tuttavia si fonda su una «mimica
discreta» (Molinari, in C. Molinari, V. Ottolenghi, Firenze, Vallecchi, 1985, p.108) marcando espressioni distintive allinfuori
del personaggio ignaro che ricorre in
ciascuno dei tre atti unici (laspirante inquilino, il commesso viaggiatore, lamico
trasformista) e che allinizio non appare particolarmente caratterizzato. Anche
se poi questultimo, specialmente
nel primo e nel terzo caso,
resta coinvolto dallimprevista e sorprendente dinamica dellazione.
Pericolosamente. Dorotea (Laura Pinato), Arturo (Filippo Lai) e Michele (Lorenzo Volpe) © Filippo Manzini Ai giovani attori il regista concede uno spazio
individuale e scenico creando atmosfere adeguate su un palco popolato soltanto
di pochi arredi: un tavolo con sedie; una fila di sedie sulla sinistra e una
poltrona sulla destra, con sullo sfondo una gigantografia del morto inquadrata
da drappi azzurri; due locations
separate da un paravento, con una poltrona sulla destra. Il trucco è
soprattutto nei giochi di luce creati sul fondale da Loris Giancola.
Scenografia essenziale che consente dinamismi coreografici: si gira attorno
alla tavola; si conserva una certa staticità allinizio, fino allarrivo del
ritardatario, e poi dellaffittuario che prima si siede al centro, poi dà luogo
a entrate e uscite; ci si traveste per passare il “limite” fra ingresso e
camera del moribondo. Di fatto, il leitmotiv
di sottofondo della messinscena è meta-teatrale: è “teatro” la ricorrenza dei
finti spari che terminerà in un doppio colpo preventivo; così come linfilata
di condolenti schierati come spettatori dallaltro lato della vedova, con
vicina impicciona (Laura Pinato,
insistentemente e vanamente seduttiva verso laffittuario).
Ma in I
morti… appaiono teatrali i rocamboleschi sforzi (cui concorre limmancabile
portiere, Luca Pedron) di nascondere
per poi traumaticamente rivelare loccupazione “ardente” della camera allinquilino,
il quale alla fine (cè sempre una sorpresa finale) per quanto circondato dai
grossi ceri preferirà linterno con tracce del defunto agli accoltellamenti del
fuori. Per non parlare dei travestimenti cui si sottopone lamico per
accontentare il moribondo, culminanti nella scoperta (in veste di notaio) del
tradimento di sua moglie con lui: atto brevissimo, Amicizia, fulminante, cattivo del più amaro Eduardo che fa ridere. Tutto il secondo tempo è occupato, sè detto, dal
primo atto di Uomo e galantuomo:
scena profilata sul fondo dal disegno della balaustra duna terrazza, poi
appena arredata, sulla sinistra, da un tavolino con sedie. Questo spazio
stilizzato e allaperto incornicia la rappresentazione del mondo duna
compagnia di guitti girovaghi: il loro quotidiano in un albergo di paese dove
fanno di tutto, lavano (in prima scena, due attrici appendono le corde per
stendere i panni), cucinano (di nascosto, vedi la gag del fumo che fuoriesce
dalla loro camera), provano il loro teatro. Vi acquistano perciò rilievo gli
incerti di un mestiere o di unarte povera che continua come vita: dove il motivo della distrazione dun pubblico balneare (o
provinciale) diventa uno di molti ostacoli incontrati dalla compagnia sul
cammino accidentato della propria sopravvivenza.
Pericolosamente. Gianfelice Imparato e attori in prova © Filippo Manzini La struttura complessiva della commedia presenta
una successione secca di scene che rimanda al modello scarpettiano, ovvero del
migliore Scarpetta assimilato da un emergente Eduardo che ha visto
Pirandello. Nella messinscena dellatto unico (per la sinergia di Imparato con iNuovi)
emergono i bisticci con la cameriera (Ninetta: Laura Pinato) che non sopporta linvadenza dei comici, la
giacchetta rovinata dalla “sugna” (che il capocomico Gennaro, tornando dalla
sua misera spesa, si è messo incautamente in tasca), lunica appunto dellattore e delluomo. Daltra parte, se pazzi, fanciulli che non crescono mai o
visionari non sono che varianti, nellantropologia drammatica eduardiana, del
primo termine del conflitto fra “individuo” e “società”, a questa genìa di
spostati appartiene naturalmente lattore, uno che affronta e sperimenta sulla
propria pelle il dramma del passaggio
dalla vita al teatro e viceversa. Specialmente, appunto, lattore di infima
categoria, che incontriamo la prima volta in Uomo e galantuomo, ma che ritroveremo in Sik-Sik, lartefice magico (1929-30), in La parte di Amleto (1940), in La
grande magia (1948) e in Larte della
commedia (1964).
Con un procedimento a incastro (che ricorda
appunto Miseria e nobiltà del padre
naturale e darte Eduardo Scarpetta) è inserita in tale cornice meta-teatrale
unavventura “borghese”: limpresario della compagnia Alberto (Athos Leonardi, a suo tempo un
memorabile Luca De Filippo) apprende dalla sua misteriosa amante (Bice: Nadia Saragoni) che attende un figlio,
e vorrebbe sposarla per riparare il guaio (è un galantuomo!). Tuttavia la donna si ostina a non rivelargli la
propria identità, e cerca di impedirgli di rimediare. Intanto sopraggiunge
Salvatore (Luca Pedron), guappesco
fratello della primadonna Viola (Erica Trinchera),
incinta di Gennaro (Filippo Lai). Ne
scaturisce il qui pro quo che
consente autonomia allatto: Alberto scambia Salvatore per il fratello di Bice
e lo rassicura delle sue oneste intenzioni; Salvatore dà la buona notizia alla
sorella e minaccia Gennaro se impedirà il matrimonio di Viola con quel ricco
signore.
Eccoci quindi allemblematica “scena delle prove”
che si potenzia della lezione serio-comica sullarte del suggeritore nelledizione
1979 della Cantata dei giorni pari,
dopo ledizione TV di Eduardo (26 dicembre 1975, Raidue) che offre lepisodio
per esteso, e dopo altre rappresentazioni in teatro. La scena vi appare più lunga e
dettagliata e comprende, appunto, la lezione impartita da Gennaro al povero
Attilio (Francesco Grossi). I morti non fanno paura. A sinistra: Alfredo (Filippo Lai), Giovannino (Francesco Grossi), Pietro (Lorenzo Volpe), portiere (Luca Pedron). Al centro: Enrico (Athos Leonardi). A destra: Amalia (Laura Pinato) e Claudia (Ludovica Marino) Daltronde le didascalie eduardiane (di cui lultima
edizione riveduta è ricca) non si rivolgono solo come istruzioni per luso agli
interpreti e ai registi del futuro, ma recano le tracce di movimenti,
espressioni e ammiccamenti, gesti, suoni, alterazioni o vuoti della voce che
hanno formato nel “tempo grande” (Bachtin) la mobile realizzazione
performativa delle Cantate. Anche per ciò la drammaturgia del “Grande
giucoliero” è quanto di più vicino si possa immaginare a una drammaturgia della prova. E iNuovi ne
approfittano creando la scena più esilarante del loro spettacolo, radunandosi via via sul palco come attori di
attori che provano (si è detto) La morsa
(Gennaro: Filippo Lai; Attilio: Francesco Grossi; Viola: Erica Trinchera; Florence: Claudia Ludovica Marino), nonché come attori di
acchittati personaggi borghesi (Attilio: Francesco
Grossi) o bassamente prepotenti (Salvatore: Luca Pedron). Proprio lultimo irromperà a rovinare quella prova
che Lai, privo delle caratterizzazioni eduardiane ma provvisto di una sua mite,
demoralizzata presenza scenica, tenta vanamente di condurre con la distratta
coprotagonista vistosamente incinta, Erica Trinchera. Una
prova già interrotta ripetutamente dalle entrate di Claudia Ludovica Marino in cerca di suggerimenti gastronomici; nonché
dagli stessi bisticci – proprio a proposito delle didascalie del testo – fra il
preteso capocomico e linefficiente “suggeritore darte”. Anche il meccanismo
dellirruzione si fonda su quello del qui
pro quo, scambiando un abbraccio di scena per uno reale e innescando una
bomba comica che costringe tutti, ma proprio tutti (anche Laura Pinato, qui cameriera ma nel complesso dotata di
versatilità), a una fuga o a una reciproca rincorsa circolare (cui si
riaggregherà anche Nadia Saragoni)
come in un congedo vorticoso dal pubblico plaudente. Daltra parte la cura degli effetti comici –
lazzi pulcinelleschi, trovate gestuali e verbali, espedienti farseschi dintrigo
e dequivoco, fallimenti di propositi – non impedisce di cogliere il risvolto
serio degli atti unici eduardiani neppure in questa messinscena: si gioca con
la morte, si è detto, ma anche con la povertà e con la fame, in contesti
meta-teatrali che arrivano, con lultimo atto, a raffigurare la routine eccentrica di guitti imparentati
con gli antichi, ma sempre presenti nel nostro ed europeo teatro, Comici dellArte.
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