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Un Eduardo per iNuovi pienamente godibile

di Anna Barsotti
  Eduardo per iNuovi
Data di pubblicazione su web 17/10/2018  

Ho assistito con vero gusto all’ultima replica dello spettacolo Eduardo per iNuovi, «quattro atti brevi di Eduardo De Filippo», al bel Teatro Niccolini di Firenze rinnovato e restituito alla sua originaria funzione di palestra (anche) per i giovani. La regia e la drammaturgia sono di Gianfelice Imparato, attore, regista e drammaturgo con un ventaglio di esperienze che vanno (in teatro) da La gatta Cenerentola di De Simone (1976) alla regia di La festa (1999) di Scimone/Sframeli. Dopo essere stato negli anni 1980-1995 uno degli attori principali della compagnia Granteatro diretta dal fiorentino napoletanizzato Carlo Cecchi (con sede appunto al Niccolini), poi interprete eduardiano sotto la guida del compianto Luca De Filippo, attualmente sostituisce quest’ultimo con personale efficacia nella compagnia intitolata al figlio di Eduardo, gestita con aperture inedite e generose da Carolina Rosi.   
 
Gianfelice stesso mi ha invitata: forse per i miei annosi studi eduardiani, ma anche perché ci siamo conosciuti personalmente nell’occasione della ripresa di Questi fantasmi! al Teatro Verdi di Pisa (2017), dove ho presentato a pubblico e studenti universitari lo spettacolo messo in scena dalla compagnia Luca De Filippo. Gli devo un parere, e glielo do molto volentieri.   
 
Bello spettacolo, divertentissimo con un fondo sotteso di amarezza (come avrebbe voluto l’attore-autore), perfettamente calibrato nelle coreografie e nella recitazione dei giovani scelti dallo stesso Imparato fra i diplomati del Corso per Attori Orazio Costa e di altre scuole di teatro per questo spettacolo, i quali formano nell’insieme appunto il gruppo de iNuovi con residenza al Niccolini.   
 
Quattro atti unici brevi – Pericolosamente, I morti non fanno paura, Amicizia (primo tempo), Uomo e galantuomo (secondo tempo) –, sebbene dall’ultimo si estragga e si rappresenti soltanto e giustamente il primo atto, con l’esilarante ma magistrale (alla lettera) “scena delle prove”. Del resto, come atto unico e con il titolo Ho fatto il guaio? Riparerò! il testo era stato allestito dalla compagnia di Vincenzo Scarpetta nel 1924 (Vincenzo/Alberto, l’impresario; Eduardo/Gennaro, il capocomico). Come novità e in tre atti fu poi presentato al Sannazzaro di Napoli, nel 1933, dal Teatro Umoristico “I De Filippo”. Si conferma così quella drammaturgia delle attrazioni che (anche) Claudio Meldolesi individua come formato originario di quella eduardiana; testimoniata emblematicamente dalla genesi a tappe di Natale in casa Cupiello dove ogni atto, specialmente il primo e il secondo, ha potuto essere recitato autonomamente. Ancora Meldolesi afferma che da Pirandello Eduardo ha imparato a strutturare in tre atti o in due tempi le sue commedie, pur senza tradire ma “riattivando” il portato drammaturgico della tradizione (l’attrazione come puntello tragicomico dell’atto).


Gianfelice Imparato e iNuovi
© Filippo Manzini

E proprio Pirandello risorge nello spettacolo de iNuovi in una prospettiva lievemente “canzonatoria”: nell’atto unico di Uomo e galantuomo alla prova di Malanova da Libero Bovio è subentrata quella di La morsa. La citazione pirandelliana affettuosamente ironica costituisce una costante del percorso artistico di Eduardo e fratelli: il loro primo innesto scenico sulla drammaturgia del “Superautore” (Meldolesi) avviene attraverso il mondo famigliare delle parodie; con quel Sei comici in cerca d’autore che, insieme a Sik-Sik, l’artefice magico, costituisce uno dei quadri della rivista Pulcinella principe in sogno (1930). Coincidenza significativa, anche questa, della capacità d’assorbimento del teatro eduardiano: mentre il nostro crea il sosia Sik-Sik, propone la caricatura quasi esorcistica dei fantasmi di Pirandello; e li trasforma da “personaggi” in “comici”, ovvero in attori (Eduardo il Padre, Titina la Figliastra e Peppino il Figlio…). Quanto alle Cantate, pensiamo agli equivoci personaggi che irrompono in Questi fantasmi! disorientando il protagonista: famigliari dell’amante di sua moglie ma con connotazioni melodrammaticamente ectoplasmatiche.  
  
Colpiscono subito nello spettacolo de iNuovi (la scelta di La morsa si deve a loro, secondo Imparato) non tanto questa variante, che entra nel secondo tempo dimostrando la duttilità della drammaturgia eduardiana, quanto la lingua, l’essenzialità scenografica, la valorizzazione degli effetti comici, la naturalezza (non il naturalismo!) della recitazione, e soprattutto – come già accennato – il perfetto coordinamento di prossemica e coreografia dell’ensemble. Proprio per concentrarmi su questi aspetti performativi eviterò qui di riferire la storia dei testi, perlopiù appartenenti alla Cantata dei giorni pari all’epoca del magnifico trio anteguerra formato dal “blocco” Eduardo-Titina-Peppino; alcuni di tali testi variati dall’autore stesso nel prosieguo delle pubblicazioni delle Cantate. Soltanto Amicizia appartiene alla Dispari (dov’è inserita per la prima volta nel 1958, dopo il debutto nel ’52, anche se qualche studioso ne fa risalire la composizione agli anni Trenta).
   
Incominciamo dalla lingua: nello spettacolo de iNuovi si recita in italiano perché gli attori provengono da diverse regioni. Come lingua teatrale qui l’italiano funziona benissimo dal punto di vista dei “meccanismi, della grammatica e della musicalità della drammaturgia comica” (Note di regia): non si tratta di adeguarsi alla ricezione di un pubblico medio quanto piuttosto di valorizzare ogni singolo attore, il suo apporto speciale al complesso. Al tempo stesso si testimoniano l’universalità e la traducibilità del teatro eduardiano, anche se, ovviamente, la genesi partenopea di tale comicità resta un valore aggiunto. I meccanismi sono quelli di una “terra di teatro” che affonda le radici in un passato illustre, popolare e colto; eppure essi rispondono in pieno a quelli individuati da Bergson in Il riso (1900): il diavolo a molla e la ripetizione (di situazioni e di frasi), nonché specialmente il qui pro quo.


Pericolosamente. Arturo (Filippo Lai) e Dorotea (Laura Pinato)
© Filippo Manzini
 
In Pericolosamente assistiamo all’assurda modalità escogitata – all’inizio per caso – da Arturo (Filippo Lai) per tenere a freno le intemperanze della moglie Dorotea (Laura Pinato); ma la ripetizione dello sparo suscita il riso (anche se solo verso la fine si scoprirà a salve) perché noi spettatori siamo coinvolti in una momentanea “anestesia del cuore” al punto che deridiamo (inconsciamente?) il testimone allibito e impotente (Michele: Lorenzo Volpe), amico invitato dal coniuge (fintamente) sparatore a occupare una camera di quella casa famigliarmente movimentata.   
 
Un’altra camera (in affitto a un commesso viaggiatore) in I morti non fanno paura (titolo che ribattezza nel 1952 la variata Requie a l’anema soja... del ’26) si è trasformata (nell’antefatto) in morgue per il decesso improvviso del proprietario. Si assiste alle curiose condoglianze alla vedova Amalia (Claudia Ludovica Marino), inconsolabile soprattutto perché lasciata in miseria, da parte dei colleghi della compagnia del Gas Alfredo (Filippo Lai) e Giovannino (Francesco Grossi), compreso il ritardatario (per litigio coniugale) Pietro (Lorenzo Volpe). Segue l’“avvenimento” inatteso dell’ingresso dell’affittuario ammalato Enrico (Athos Leonardi) che crea tensione e scompiglio perché (ignaro del passaggio del defunto) vuole andare coricarsi nel suo letto.     
 
In Amicizia, dove il titolo è ironico e antifrastico, un moribondo tardivo (Bartolomeo: Filippo Lai) – stando alla sorella Carolina che impazientemente lo accudisce (Nadia Saragoni) – dovrebbe ricevere un amico più volte ricusato, a meno che non si travesta da una serie di personaggi senza la cui visita egli non può morire. Con quest’atto termina il primo tempo che ha come fil rouge la morte o la sua finzione, una morte che desta il riso anche perché, fin da queste commedie, l’autore è convinto che «la tragedia moderna è quella che fa ridere […] ma affondando il dito nella piaga […], nella tragedia comune […]. Noi ridiamo di tutto in questo momento, perfino della morte!» (E. De Filippo, Lezioni di teatro: all’Università di Roma “La Sapienza”, a cura di P. Quarenghi, Torino, Einaudi, 1986, p. 92).   
 
Questo regista non compie evidenti rivoluzioni formali, come invece aveva fatto Alfonso Santagata – altro cecchiano prima di fondare con Morganti la compagnia Katzenmacher – nello spettacolo Quali fantasmi, tre atti unici di Eduardo (Gennareniello, Il cilindro e già Amicizia) del 2003 (Premio Girulà-Teatro a Napoli 2004 per la migliore drammaturgia). Imparato trae succhi tragicomici dagli interpreti (otto, che si alternano o si sdoppiano nei personaggi), capaci di connotare le relative parti con una scioltezza che tuttavia si fonda su una «mimica discreta» (Molinari, in C. Molinari, V. Ottolenghi, Firenze, Vallecchi, 1985, p.108) marcando espressioni distintive all’infuori del personaggio ignaro che ricorre in ciascuno dei tre atti unici (l’aspirante inquilino, il commesso viaggiatore, l’amico trasformista) e che all’inizio non appare particolarmente caratterizzato. Anche se poi quest’ultimo, specialmente nel primo e nel terzo caso, resta coinvolto dall’imprevista e sorprendente dinamica dell’azione.


Pericolosamente. Dorotea (Laura Pinato), Arturo (Filippo Lai) e Michele (Lorenzo Volpe)
© Filippo Manzini

Ai giovani attori il regista concede uno spazio individuale e scenico creando atmosfere adeguate su un palco popolato soltanto di pochi arredi: un tavolo con sedie; una fila di sedie sulla sinistra e una poltrona sulla destra, con sullo sfondo una gigantografia del morto inquadrata da drappi azzurri; due locations separate da un paravento, con una poltrona sulla destra. Il trucco è soprattutto nei giochi di luce creati sul fondale da Loris Giancola. Scenografia essenziale che consente dinamismi coreografici: si gira attorno alla tavola; si conserva una certa staticità all’inizio, fino all’arrivo del ritardatario, e poi dell’affittuario che prima si siede al centro, poi dà luogo a entrate e uscite; ci si traveste per passare il “limite” fra ingresso e camera del moribondo. Di fatto, il leitmotiv di sottofondo della messinscena è meta-teatrale: è “teatro” la ricorrenza dei finti spari che terminerà in un doppio colpo preventivo; così come l’infilata di condolenti schierati come spettatori dall’altro lato della vedova, con vicina impicciona (Laura Pinato, insistentemente e vanamente seduttiva verso l’affittuario).   
 
Ma in I morti… appaiono teatrali i rocamboleschi sforzi (cui concorre l’immancabile portiere, Luca Pedron) di nascondere per poi traumaticamente rivelare l’occupazione “ardente” della camera all’inquilino, il quale alla fine (c’è sempre una sorpresa finale) per quanto circondato dai grossi ceri preferirà l’interno con tracce del defunto agli accoltellamenti del fuori. Per non parlare dei travestimenti cui si sottopone l’amico per accontentare il moribondo, culminanti nella scoperta (in veste di notaio) del tradimento di sua moglie con lui: atto brevissimo, Amicizia, fulminante, cattivo del più amaro Eduardo che fa ridere.     

Tutto il secondo tempo è occupato, s’è detto, dal primo atto di Uomo e galantuomo: scena profilata sul fondo dal disegno della balaustra d’una terrazza, poi appena arredata, sulla sinistra, da un tavolino con sedie. Questo spazio stilizzato e all’aperto incornicia la rappresentazione del mondo d’una compagnia di guitti girovaghi: il loro quotidiano in un albergo di paese dove fanno di tutto, lavano (in prima scena, due attrici appendono le corde per stendere i panni), cucinano (di nascosto, vedi la gag del fumo che fuoriesce dalla loro camera), provano il loro teatro. Vi acquistano perciò rilievo gli incerti di un mestiere o di un’arte povera che continua come vita: dove il motivo della distrazione d’un pubblico balneare (o provinciale) diventa uno di molti ostacoli incontrati dalla compagnia sul cammino accidentato della propria sopravvivenza.  


Pericolosamente. Gianfelice Imparato e attori in prova
© Filippo Manzini 
 
La struttura complessiva della commedia presenta una successione secca di scene che rimanda al modello scarpettiano, ovvero del migliore Scarpetta assimilato da un emergente Eduardo che ha visto Pirandello. Nella messinscena dell’atto unico (per la sinergia di Imparato con iNuovi) emergono i bisticci con la cameriera (Ninetta: Laura Pinato) che non sopporta l’invadenza dei comici, la giacchetta rovinata dalla “sugna” (che il capocomico Gennaro, tornando dalla sua misera spesa, si è messo incautamente in tasca), l’unica appunto dell’attore e dell’uomo. D’altra parte, se pazzi, fanciulli che non crescono mai o visionari non sono che varianti, nell’antropologia drammatica eduardiana, del primo termine del conflitto fra “individuo” e “società”, a questa genìa di spostati appartiene naturalmente l’attore, uno che affronta e sperimenta sulla propria pelle il dramma del passaggio dalla vita al teatro e viceversa. Specialmente, appunto, l’attore di infima categoria, che incontriamo la prima volta in Uomo e galantuomo, ma che ritroveremo in Sik-Sik, l’artefice magico (1929-30), in La parte di Amleto (1940), in La grande magia (1948) e in L’arte della commedia (1964).   
 
Con un procedimento a incastro (che ricorda appunto Miseria e nobiltà del padre naturale e d’arte Eduardo Scarpetta) è inserita in tale cornice meta-teatrale un’avventura “borghese”: l’impresario della compagnia Alberto (Athos Leonardi, a suo tempo un memorabile Luca De Filippo) apprende dalla sua misteriosa amante (Bice: Nadia Saragoni) che attende un figlio, e vorrebbe sposarla per riparare il guaio (è un galantuomo!). Tuttavia la donna si ostina a non rivelargli la propria identità, e cerca di impedirgli di rimediare. Intanto sopraggiunge Salvatore (Luca Pedron), guappesco fratello della primadonna Viola (Erica Trinchera), incinta di Gennaro (Filippo Lai). Ne scaturisce il qui pro quo che consente autonomia all’atto: Alberto scambia Salvatore per il fratello di Bice e lo rassicura delle sue oneste intenzioni; Salvatore dà la buona notizia alla sorella e minaccia Gennaro se impedirà il matrimonio di Viola con quel ricco signore.   
 
Eccoci quindi all’emblematica “scena delle prove” che si potenzia della lezione serio-comica sull’arte del suggeritore nell’edizione 1979 della Cantata dei giorni pari, dopo l’edizione TV di Eduardo (26 dicembre 1975, Raidue) che offre l’episodio per esteso, e dopo altre rappresentazioni in teatro. La scena vi appare più lunga e dettagliata e comprende, appunto, la lezione impartita da Gennaro al povero Attilio (Francesco Grossi).


I morti non fanno paura. A sinistra: Alfredo (Filippo Lai), Giovannino (Francesco Grossi), Pietro (Lorenzo Volpe), portiere (Luca Pedron). Al centro: Enrico (Athos Leonardi). A destra: Amalia (Laura Pinato) e Claudia (Ludovica Marino)
© Filippo Manzini
 
D’altronde le didascalie eduardiane (di cui l’ultima edizione riveduta è ricca) non si rivolgono solo come istruzioni per l’uso agli interpreti e ai registi del futuro, ma recano le tracce di movimenti, espressioni e ammiccamenti, gesti, suoni, alterazioni o vuoti della voce che hanno formato nel “tempo grande” (Bachtin) la mobile realizzazione performativa delle Cantate. Anche per ciò la drammaturgia del “Grande giucoliero” è quanto di più vicino si possa immaginare a una drammaturgia della prova. E iNuovi ne approfittano creando la scena più esilarante del loro spettacolo, radunandosi via via sul palco come attori di attori che provano (si è detto) La morsa (Gennaro: Filippo Lai; Attilio: Francesco Grossi; Viola: Erica Trinchera; Florence: Claudia Ludovica Marino), nonché come attori di acchittati personaggi borghesi (Attilio: Francesco Grossi) o bassamente prepotenti (Salvatore: Luca Pedron). Proprio l’ultimo irromperà a rovinare quella prova che Lai, privo delle caratterizzazioni eduardiane ma provvisto di una sua mite, demoralizzata presenza scenica, tenta vanamente di condurre con la distratta coprotagonista vistosamente incinta, Erica Trinchera. Una prova già interrotta ripetutamente dalle entrate di Claudia Ludovica Marino in cerca di suggerimenti gastronomici; nonché dagli stessi bisticci – proprio a proposito delle didascalie del testo – fra il preteso capocomico e l’inefficiente “suggeritore d’arte”. Anche il meccanismo dell’irruzione si fonda su quello del qui pro quo, scambiando un abbraccio di scena per uno reale e innescando una bomba comica che costringe tutti, ma proprio tutti (anche Laura Pinato, qui cameriera ma nel complesso dotata di versatilità), a una fuga o a una reciproca rincorsa circolare (cui si riaggregherà anche Nadia Saragoni) come in un congedo vorticoso dal pubblico plaudente.
 
D’altra parte la cura degli effetti comici – lazzi pulcinelleschi, trovate gestuali e verbali, espedienti farseschi d’intrigo e d’equivoco, fallimenti di propositi – non impedisce di cogliere il risvolto serio degli atti unici eduardiani neppure in questa messinscena: si gioca con la morte, si è detto, ma anche con la povertà e con la fame, in contesti meta-teatrali che arrivano, con l’ultimo atto, a raffigurare la routine eccentrica di guitti imparentati con gli antichi, ma sempre presenti nel nostro ed europeo teatro, Comici dell’Arte.



Eduardo per iNuovi
cast cast & credits
 


Amicizia. Carolina: Nadia Saragoni; Alberto: Luca Pedron; Bartolomeo: Filippo Lai
© Filippo Manzini









































































Amicizia. Alberto: Luca Pedron; Bartolomeo: Filippo Lai; Carolina: Nadia Saragoni
© Filippo Manzini














































































Uomo e galantuomo. Attilio: Francesco Grossi; Gennaro: Filippo Lai; Alberto: Athos Leonardi
© Filippo Manzini


















































































Uomo e galantuomo. Gennaro: Filippo Lai; Salvatore: Luca Pedron; Florence: Claudia Ludovica Marino; Attilio: Francesco Grossi; Viola: Erica Trinchera; Alberto: Athos Leonardi; Ninetta: Laura Pinato; Bice: Nadia Saragoni
© Filippo Manzini

 
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