«Only Caballé»: rispose così Maria Callas sul finire degli anni
Sessanta, quando la propria parabola artistica era da poco conclusa, in
unintervista dove le si domandava se vedeva qualche soprano in grado raccogliere
la sua eredità. Solo Caballé, dunque: e Only
Caballé divenne poi il titolo di un
fortunato recital discografico della
cantante catalana. Perché proprio lei – e non, poniamo, la Gencer, o la Sutherland,
o la Price – non intese spiegare: le
primedonne sono spesso apodittiche e, nel fare il nome della Caballé, poteva anche
esserci, da parte della Callas, non un giudizio di valore, ma un riverbero
della sua rivalità con Renata Tebaldi. Volle cioè indicare una
cantante che la critica aveva, un po sommariamente, incanalato nellalveo
tebaldiano piuttosto che in quello callasiano.
E che forse per questo la Tebaldi
– in più occasioni – dichiarò invece di non amare, o di amare poco.
Al di là dei retropensieri e delle definizioni di comodo, un
elemento resta inoppugnabile: Montserrat
Caballé, che ci ha lasciato pochi giorni fa a ottantacinque anni, è stata
con la Callas lunico soprano del ventesimo secolo circonfuso da un alone autenticamente
mitologico quando era ancora in carriera. Traguardo, questo, raggiunto nel
corso del Novecento anche da tre tenori (Caruso,
Gigli, Pavarotti), ma cui nessun altro artista lirico, per grandissimo ed
epocale che fosse, ha potuto aspirare. Sicché, allindomani di una morte
sopraggiunta quando lartista poteva dirsi da tempo storicizzata, piuttosto che
ricostruirne il cammino è forse più utile indagare le ragioni del mito, le sue
modalità di estrinsecazione. Esplorando – al contempo – le motivazioni che,
intorno agli anni Ottanta, portarono una parte della critica e degli spettatori
italiani a voltare le spalle alla Caballé, a sottolinearne il declino (peraltro
solo incipiente) con unacribia non riservata ad altre star prossime, a loro volta, a imboccare il viale del tramonto.
Intanto, un dato anagrafico. Benché cantante postcallasiana,
la Caballé non fu un soprano della generazione seguente alla Callas: si potrà
parlare di segmento generazionale successivo, ma non più di questo, visto che greca
e spagnola sono separate anagraficamente da soli dieci anni (1923 luna, 1933 laltra).
Se la Caballé appare come una figlia del “dopo Callas”, ciò è dovuto allinterminabile
gavetta che impedì a Montserrat dincrociare la propria parabola con quella di
Maria. Il primo lustro di carriera (ma anche oltre) della Caballé si svolge tra
teatri della buona provincia svizzera e tedesca, dove esordisce nel 56 e ha
modo di sviluppare un ampio repertorio, e teatri più prestigiosi, ma lì
circoscritta in piccoli ruoli: il suo esordio alla Scala, fuggevole e
inosservato prima delle grandi apparizioni mattatoriali negli anni Settanta, è
nel 1960 nei panni di una delle Fanciulle-fiore del Parsifal. Il primo enorme successo arriverà, sotto il segno di Donizetti (una Lucrezia Borgia a New York), solo nel 1965: lanno, vedi caso, del
congedo della Callas.
Donizetti è appunto, insieme a Bellini (nel 67 simporrà al Maggio Fiorentino con Il pirata), lautore che fa scoprire la
Caballé agli spettatori italiani: e tanto squisito lirismo, tali smaltature
sopraffine, questa narcotizzante fluidità che rendeva cantabili pure i
recitativi rischiarono, alle orecchie del pubblico più tradizionalista, di circoscriverla
nella turris eburnea del mero
belcanto. I suoi Verdi, da noi,
allinizio furono accolti con relativa diffidenza: erano anni in cui la
“liricizzazione” di ruoli usualmente considerati “drammatici” non era stata
ancora avviata (tale processo esploderà negli anni Settanta) e si pensava che a
tanta purezza – quei pianissimi celestiali, quel mezzoforte dolce come un
pianissimo – non potesse corrispondere, per colore e volume, la perentorietà
vocale che si suol definire verdiana. I pregiudizi, poi, vennero polverizzati
dai fatti. Non solo perché la Caballé mostrò inequivocabilmente che la
dimensione più autentica di Leonora del Trovatore
era quella del soprano lirico; che la perfezione strumentale del suo canto si
attagliava alla perfezione anche allaltra Leonora (quella della Forza del destino) e ad Aida; che una
parte come Elvira dellErnani, di
solito ricondotta al cliché temperamentoso, assumeva ben altro profilo con le connotazioni deleganza e
articolazione dialettica proprie della Caballé, compreso quel suo gusto per i
tempi oltremodo indugianti; che pure ruoli di più bassa tessitura come
Elisabetta del Don Carlo e Amelia del
Ballo in maschera – dove la voce
della cantante catalana era costretta a difendersi con un certo alleggerimento
dellemissione – si giovavano del suo timbro radioso appaiato alle suggestioni
di un fraseggio nobile e malinconico. No, non fu soltanto questo: se la natura
le donò uno strumento da soprano, diciamo così, lirico-opulento, la Caballé
sulla distanza seppe davvero essere, per completezza tecnica e duttilità
psicologica, quel “soprano assoluto” al di là dogni categoria (leggero,
lirico, drammatico) che già la Callas, ma nessunaltra, aveva saputo essere. E
in ciò, forse, è possibile spiegare quellonly
Caballé di cui si diceva.
Più che Verdi o il Bellini di Norma (dove la statura tragica dellinterpretazione callasiana
rischiava di raffreddare ogni incarnazione successiva: ma la Caballé costruì la
sua alternativa plasmando una figura femminile di soavità dolorosa con una
forza drammatica diversa, non inferiore, a quella della Callas), fu invece Donizetti
lautore che Montserrat “angelizzò” oltremisura. La Donizetti renaissance degli anni Sessanta e
Settanta, si sa, passa attraverso due primedonne: la Gencer e, appunto, la
Caballé. La prima, con uno strumento più tagliente, seppe far luce sul nucleo
tetro di certi personaggi femminili (Lucrezia Borgia e Maria Stuarda nelle opere
omonime, Elisabetta I nel Roberto
Devereux), sui loro devastanti sensi di colpa: sul cuore oscuro del
belcanto, insomma. Trasparente e levigata, la Caballé preferì ripiegare quegli
slanci e smussare quelle tensioni in una dolcezza trasfigurata che, almeno in
un ruolo come la Borgia, poteva apparire edulcorante. Ebbero minor popolarità le incursioni pucciniane, ma almeno la
sua Manon e la sua Butterfly restano interpretazioni da meditare: ricondotte
allidea (e forse in questo è possibile vedere la Caballé come soprano “tebaldiano”)
dun Puccini nobilitato in virtù non
di sotterranee esplorazioni stilistiche, ma della pura tornitura e morbidezza
canora. Daltronde, in Italia, la triangolazione Bellini-Donizetti-Verdi inibì
unesplorazione dogni anfratto dellarte della Caballé. Ad altre latitudini,
invece (soprattutto nei teatri tedeschi, dove la rinascita del belcanto
romantico attecchì poco), veniva acclamata come interprete eminentemente
mozartiana e straussiana. E in effetti il suo Mozart “latino” – cesellato, ma senza tentazioni cameristiche, e
lontanissimo dalle odierne anemie barocchiste – sarebbe oggi tutto da
riscoprire. Quanto a Strauss, la
Caballé riteneva che il suo disco migliore fosse, in assoluto, quello della Salome (RCA 1968, direttore Erich Leinsdorf): ma si sa che i
cantanti non sono i migliori giudici di sé
stessi.
Gli anni Ottanta rappresentarono il decennio del declino:
che, come avverrà con Pavarotti, fu decadenza più deontologica che vocale.
Meticolosa come solo i cantanti dalla lunga gavetta sanno essere, la Caballé
iniziò a impigrirsi o forse, più prosaicamente, a “commercializzarsi”: non per il suo flirtare con la musica cosiddetta
leggera (il sodalizio con Freddie
Mercury ebbe una dignità musicale ignota alle divagazioni pop pavarottiane), ma per il suo
arrivare spesso impreparata a un nuovo debutto. Fu ciò che accadde nel 1982 a
Milano, quando quello che doveva essere lennesimo eccelso tassello della sua
galleria donizettiana (Anna Bolena)
sfociò in una delle serate più burrascose di tutta la storia della Scala. In
realtà, che pure in questopera la Caballé avesse molte cose da dire è
testimoniato da una registrazione barcellonese di quello stesso anno: ma se è
vero che i fischi passano e la Caballé resta, è vero pure che la serata
milanese rappresentò linizio di uninarrestabile parabola discendente.
Altre recite importanti o importantissime, dopo di allora,
non sarebbero mancate (in Italia soprattutto allOpera di Roma), ma qualcosa
ormai si era infranto: e con la fine di quel decennio, di fatto, lepopea della
Caballé si conclude. Che poi, episodicamente, abbia continuato a esibirsi fino
alla soglia dellottantesimo compleanno rientra non nellarte del canto, ma nel
fenomeno di costume. E, anche, in quel “culto dei mostri” che ha fatto più male
che bene al teatro dopera, che nulla aggiunge alla Caballé e che qualcosa,
forse, le sottrae.
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