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Ricordo di Montserrat Caballé

di Paolo Patrizi
  Montserrat Caballé
Data di pubblicazione su web 10/10/2018  

«Only Caballé»: rispose così Maria Callas sul finire degli anni Sessanta, quando la propria parabola artistica era da poco conclusa, in un’intervista dove le si domandava se vedeva qualche soprano in grado raccogliere la sua eredità. Solo Caballé, dunque: e Only Caballé divenne poi il titolo di un fortunato recital discografico della cantante catalana. Perché proprio lei – e non, poniamo, la Gencer, o la Sutherland, o la Price – non intese spiegare: le primedonne sono spesso apodittiche e, nel fare il nome della Caballé, poteva anche esserci, da parte della Callas, non un giudizio di valore, ma un riverbero della sua rivalità con Renata Tebaldi. Volle cioè indicare una cantante che la critica aveva, un po’ sommariamente, incanalato nell’alveo tebaldiano piuttosto che in quello callasiano. 

E che forse per questo la Tebaldi – in più occasioni – dichiarò invece di non amare, o di amare poco.   Al di là dei retropensieri e delle definizioni di comodo, un elemento resta inoppugnabile: Montserrat Caballé, che ci ha lasciato pochi giorni fa a ottantacinque anni, è stata con la Callas l’unico soprano del ventesimo secolo circonfuso da un alone autenticamente mitologico quando era ancora in carriera. Traguardo, questo, raggiunto nel corso del Novecento anche da tre tenori (Caruso, Gigli, Pavarotti), ma cui nessun altro artista lirico, per grandissimo ed epocale che fosse, ha potuto aspirare. Sicché, all’indomani di una morte sopraggiunta quando l’artista poteva dirsi da tempo storicizzata, piuttosto che ricostruirne il cammino è forse più utile indagare le ragioni del mito, le sue modalità di estrinsecazione. Esplorando – al contempo – le motivazioni che, intorno agli anni Ottanta, portarono una parte della critica e degli spettatori italiani a voltare le spalle alla Caballé, a sottolinearne il declino (peraltro solo incipiente) con un’acribia non riservata ad altre star prossime, a loro volta, a imboccare il viale del tramonto.  
 
Intanto, un dato anagrafico. Benché cantante postcallasiana, la Caballé non fu un soprano della generazione seguente alla Callas: si potrà parlare di segmento generazionale successivo, ma non più di questo, visto che greca e spagnola sono separate anagraficamente da soli dieci anni (1923 l’una, 1933 l’altra). Se la Caballé appare come una figlia del “dopo Callas”, ciò è dovuto all’interminabile gavetta che impedì a Montserrat d’incrociare la propria parabola con quella di Maria. Il primo lustro di carriera (ma anche oltre) della Caballé si svolge tra teatri della buona provincia svizzera e tedesca, dove esordisce nel ’56 e ha modo di sviluppare un ampio repertorio, e teatri più prestigiosi, ma lì circoscritta in piccoli ruoli: il suo esordio alla Scala, fuggevole e inosservato prima delle grandi apparizioni mattatoriali negli anni Settanta, è nel 1960 nei panni di una delle Fanciulle-fiore del Parsifal. Il primo enorme successo arriverà, sotto il segno di Donizetti (una Lucrezia Borgia a New York), solo nel 1965: l’anno, vedi caso, del congedo della Callas.   
 
Donizetti è appunto, insieme a Bellini (nel ’67 s’imporrà al Maggio Fiorentino con Il pirata), l’autore che fa scoprire la Caballé agli spettatori italiani: e tanto squisito lirismo, tali smaltature sopraffine, questa narcotizzante fluidità che rendeva cantabili pure i recitativi rischiarono, alle orecchie del pubblico più tradizionalista, di circoscriverla nella turris eburnea del mero belcanto. I suoi Verdi, da noi, all’inizio furono accolti con relativa diffidenza: erano anni in cui la “liricizzazione” di ruoli usualmente considerati “drammatici” non era stata ancora avviata (tale processo esploderà negli anni Settanta) e si pensava che a tanta purezza – quei pianissimi celestiali, quel mezzoforte dolce come un pianissimo – non potesse corrispondere, per colore e volume, la perentorietà vocale che si suol definire verdiana. I pregiudizi, poi, vennero polverizzati dai fatti. Non solo perché la Caballé mostrò inequivocabilmente che la dimensione più autentica di Leonora del Trovatore era quella del soprano lirico; che la perfezione strumentale del suo canto si attagliava alla perfezione anche all’altra Leonora (quella della Forza del destino) e ad Aida; che una parte come Elvira dell’Ernani, di solito ricondotta al cliché temperamentoso, assumeva ben altro profilo con le connotazioni d’eleganza e articolazione dialettica proprie della Caballé, compreso quel suo gusto per i tempi oltremodo indugianti; che pure ruoli di più bassa tessitura come Elisabetta del Don Carlo e Amelia del Ballo in maschera – dove la voce della cantante catalana era costretta a difendersi con un certo alleggerimento dell’emissione – si giovavano del suo timbro radioso appaiato alle suggestioni di un fraseggio nobile e malinconico. No, non fu soltanto questo: se la natura le donò uno strumento da soprano, diciamo così, lirico-opulento, la Caballé sulla distanza seppe davvero essere, per completezza tecnica e duttilità psicologica, quel “soprano assoluto” al di là d’ogni categoria (leggero, lirico, drammatico) che già la Callas, ma nessun’altra, aveva saputo essere. E in ciò, forse, è possibile spiegare quell’only Caballé di cui si diceva.   
 
Più che Verdi o il Bellini di Norma (dove la statura tragica dell’interpretazione callasiana rischiava di raffreddare ogni incarnazione successiva: ma la Caballé costruì la sua alternativa plasmando una figura femminile di soavità dolorosa con una forza drammatica diversa, non inferiore, a quella della Callas), fu invece Donizetti l’autore che Montserrat “angelizzò” oltremisura. La Donizetti renaissance degli anni Sessanta e Settanta, si sa, passa attraverso due primedonne: la Gencer e, appunto, la Caballé. La prima, con uno strumento più tagliente, seppe far luce sul nucleo tetro di certi personaggi femminili (Lucrezia Borgia e Maria Stuarda nelle opere omonime, Elisabetta I nel Roberto Devereux), sui loro devastanti sensi di colpa: sul cuore oscuro del belcanto, insomma. Trasparente e levigata, la Caballé preferì ripiegare quegli slanci e smussare quelle tensioni in una dolcezza trasfigurata che, almeno in un ruolo come la Borgia, poteva apparire edulcorante. 
   
Ebbero minor popolarità le incursioni pucciniane, ma almeno la sua Manon e la sua Butterfly restano interpretazioni da meditare: ricondotte all’idea (e forse in questo è possibile vedere la Caballé come soprano “tebaldiano”) d’un Puccini nobilitato in virtù non di sotterranee esplorazioni stilistiche, ma della pura tornitura e morbidezza canora. D’altronde, in Italia, la triangolazione Bellini-Donizetti-Verdi inibì un’esplorazione d’ogni anfratto dell’arte della Caballé. Ad altre latitudini, invece (soprattutto nei teatri tedeschi, dove la rinascita del belcanto romantico attecchì poco), veniva acclamata come interprete eminentemente mozartiana e straussiana. E in effetti il suo Mozart “latino” – cesellato, ma senza tentazioni cameristiche, e lontanissimo dalle odierne anemie barocchiste – sarebbe oggi tutto da riscoprire. Quanto a Strauss, la Caballé riteneva che il suo disco migliore fosse, in assoluto, quello della Salome (RCA 1968, direttore Erich Leinsdorf): ma si sa che i cantanti non sono i migliori giudici di sé stessi.   
 
Gli anni Ottanta rappresentarono il decennio del declino: che, come avverrà con Pavarotti, fu decadenza più deontologica che vocale. Meticolosa come solo i cantanti dalla lunga gavetta sanno essere, la Caballé iniziò a impigrirsi o forse, più prosaicamente, a “commercializzarsi”: non per il suo flirtare con la musica cosiddetta leggera (il sodalizio con Freddie Mercury ebbe una dignità musicale ignota alle divagazioni pop pavarottiane), ma per il suo arrivare spesso impreparata a un nuovo debutto. Fu ciò che accadde nel 1982 a Milano, quando quello che doveva essere l’ennesimo eccelso tassello della sua galleria donizettiana (Anna Bolena) sfociò in una delle serate più burrascose di tutta la storia della Scala. In realtà, che pure in quest’opera la Caballé avesse molte cose da dire è testimoniato da una registrazione barcellonese di quello stesso anno: ma se è vero che i fischi passano e la Caballé resta, è vero pure che la serata milanese rappresentò l’inizio di un’inarrestabile parabola discendente.   
 
Altre recite importanti o importantissime, dopo di allora, non sarebbero mancate (in Italia soprattutto all’Opera di Roma), ma qualcosa ormai si era infranto: e con la fine di quel decennio, di fatto, l’epopea della Caballé si conclude. Che poi, episodicamente, abbia continuato a esibirsi fino alla soglia dell’ottantesimo compleanno rientra non nell’arte del canto, ma nel fenomeno di costume. E, anche, in quel “culto dei mostri” che ha fatto più male che bene al teatro d’opera, che nulla aggiunge alla Caballé e che qualcosa, forse, le sottrae.


 



 
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