Alla Scala si celebrano molti ritorni
ultimamente. Tornano i Meistersinger,
torna Giordano, torna Zandonai, torna Puccini, persino allinaugurazione. E torna anche Bellini, il grande assente di sempre,
che ricompare oggi dopo la Beatrice di
Tenda del 2004. Avete letto bene: nel teatro milanese Vincenzo Bellini non
metteva piede nientemeno che da quattordici anni. Vi torna in grande stile
perché la scelta non è caduta su titoli più “tranquilli” o defilati come, che so,
una Sonnambula, un Capuleti e Montecchi o una Zaira o un Adelson e Salvini, ma proprio su una di quelle sue opere più
impervie e feticizzate: Il pirata. La
Scala laveva riproposta nel 1958, con Maria
Callas e poi lopera non vi era più tornata. Sarebbe stata replicata col
contagocce un po su tutti i palcoscenici del mondo spesso per intercessione di
grandi dive (Caballé, Fleming, Devia) o per la lungimiranza di qualche festival (a Martina Franca
nel 1987).
Col risultato che più di altre opere Il pirata è stato conosciuto e fruito
(quasi) esclusivamente attraverso i dischi, e così scolpito nella memoria
dellascolto e giudicato quindi irripetibile. Sì, perché oggi il confronto con
la registrazione vede per molti il live
perdente, vittima del disagio che le imprevedibilità delle esecuzioni dal vivo
causano nel moderno pubblico dei melomani sempre più assuefatto allopera
attraverso i media. Insomma, per tutta una serie di circostanze, mettere in
scena Il pirata oggi è un bel
rischio. Soprattutto alla Scala dove i loggionisti hanno lorgoglio di averlo “inventato”
loro, Bellini. Cosa che per certi versi è anche vera, visto che non solo
lopera vi debuttò trionfalmente nel 1827 e che
vi ritornò con altrettante acclamazioni nel 1958;
ma fu con quel debutto che Bellini divenne Bellini e fu con quelle riprese che
lo ridiventò per i pubblici odierni. Però poi succede che questi pur
comprensibili orgogli abbiano un rovescio della medaglia e che alla fine, per
evitare problemi con le sue autoproclamate vestali, negli ultimi decenni
Bellini sia stato allestito pochissimo in quel teatro che ne aveva per primo
creato il mito.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano
Non nego che nel Pirata le difficoltà ci siano, prime fra tutte quelle vocali. Il
ruolo del protagonista, Gualtiero, è stato scritto per Giovanni Battista
Rubini, tenore dalla vocalità unica di cui si fatica a trovare un
corrispettivo. La primadonna non è da meno poiché, per rendere giustizia a
Imogene (scritta per Henriette Méric-Lalande, altra star del tempo), bisogna saper coniugare canto di sbalzo, agilità,
ampiezza di registri e legato espressivo. Tuttavia nulla è impossibile se si
fanno le cose con intelligenza e con conoscenza della storia. Anche Bellini,
come testimoniano i suoi autografi, adattava le parti vocali se gli interpreti
cambiavano. Se Rubini o Méric-Lalande non erano disponibili, o chi per loro,
limportante era assicurare lesito positivo dello spettacolo, non il
“rispetto” di un testo, che per loro era comunque tuttaltro che immutabile.
Quindi, bene ha fatto la Scala a riprendere lopera e a farlo con alcuni tra i
migliori interpreti disponibili per questo repertorio.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano
Piero Pretti (Gualtiero) può non corrispondere allimmagine
corrente dellerede di Rubini che è legata per recente tradizione a tenori
leggeri con grandissima facilità negli acuti e sopracuti. Ma è per lappunto
unimmagine corrente: la costruzione moderna di un tenore esemplato sul grande Rubini
non è a questo riducibile come ci fanno capire i ruoli scritti per lui. Per
stare accanto a un soprano importante come lImogene di cui si dirà tra poco,
in una sala ampia come quella del Piermarini, è necessaria una voce di maggior
corpo rispetto a quella dei tenori leggeri. Pretti
ha questo tipo di voce, arricchita da un bel colore e da un fraseggio curato e
consapevole. Riesce a dominare anche la tessitura scomodissima della parte e lo
fa con eleganza. Sarebbe stato consigliabile evitare le sortite negli acuti
impossibili di Rubini, che non hanno giovato a una prova comunque positiva nel
suo complesso.
Sonya Yoncheva (Imogene) corrisponde
invece al tipo di soprano che la tradizione contemporanea ritiene adatto per
Imogene e per molto Bellini. La voce è potente e insieme duttile, a suo agio
nello sbalzo, nelle agilità e nel cantabile; la dizione è chiara. I registri
sono omogenei e dominati con sicurezza. Ogni tanto gli acuti non sono
fermissimi. Ma che importa? Quando si è capaci di entrare musicalmente nel
personaggio e di fare di ogni frase unemozione ogni altro commento è
superfluo. Il rondò finale è stato un capolavoro di tecnica, espressione e
scavo psicologico: così si canta e si sta in scena. Punto.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano
Bene Nicola
Alaimo (Ernesto). Non è stata una delle sue prove più memorabili. Stavolta
il baritono ha cantato senza la varietà di accenti e la dedizione scenica cui
ci aveva abituati (penso per esempio al suo splendido Guillaume Tell pesarese del 2015). Ciononostante è stato un
interprete corretto, e mi
sono sembrate pretestuose le contestazioni subite alla prima del 29 giugno.
Molto bene poi i comprimari. Un gran lusso avere Marina De Liso come Adele. Delle vere sorprese il tenore Francesco Pittari (Itulbo) e il basso Riccardo Fassi (Goffredo), di cui
immagino si sentirà parlare ancora in futuro.
Il direttore Riccardo
Frizza è stato uno degli altri bersagli del dissenso del pubblico alla
prima. Confesso che anche in questo caso non ne ho capito le ragioni. Certo,
nel primo atto la sua direzione è piuttosto prudente, preoccupata soprattutto
di tenere sotto controllo la coordinazione tra buca e palco (che funziona
sempre perfettamente), ma con il Finale
primo comincia a prendere quota e offre splendidi colpi dala nel secondo
atto che inizia e prosegue con colori orchestrali vellutati e fraseggi
dettagliati senza mai perdere di vista la linea complessiva. Molto del grande
successo della scena finale si deve alla sua capacità di raggiungerla come climax espressivo del dramma, sostenendo
la protagonista senza la minima sbavatura.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano
Ho lasciata per ultima la regia (Emilio Sagi). Lho fatto perché solo
alla fine dellopera ci si accorge che ce ne fosse una. La scena è ben
concepita e anche efficace al colpo docchio: un unico spazio delimitato da
pareti e soffitti a specchio; il fondale ogni tanto mostra desolati paesaggi
invernali (scene di Daniel Bianco).
Il tutto valorizzato dalle belle luci di Albert
Faura. Peccato che in questo spazio così ben illuminato ci sia solo il
confuso e drammaturgicamente inerte andirivieni dei personaggi e del coro in
costumi ottocenteschi (di Pepa Ojanguren).
Nientaltro. Passano così due atti in cui la scena non aggiunge niente allo
spettacolo. Sino al finale, quando Sagi si decide finalmente a fare qualcosa
ricordandosi che compito del regista è occuparsi della drammaturgia. La pazzia
di Imogene segna unimprovvisa svolta nel dramma con un gesto sorprendente: con
grande impatto visivo e drammatico la protagonista strappa limmenso drappo
nero del fondo e con «scenica scienza» ci si avvolge, dando corpo non meno
reale che simbolico alle «nubi che [le] aggravan la fronte». Peccato sia stato
lunico guizzo di una regia che ha rinunciato ad essere tale.
Alla successiva recita del 9 luglio non ci sono
state contestazioni per nessuno (mi chiedo se sarebbe successo lo stesso se
fosse stato ancora presente il regista), ma unautentica e protratta ovazione
come se ne vedono poche alla Scala (e per Bellini, per giunta) è stata
riservata, meritatissima, alla protagonista.
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