La scena del potere, il titolo identificativo del 54° Festival
del Teatro Antico al Teatro Greco di Siracusa, appare davvero il più adatto a
questi nostri tempi politicamente travagliati dove spettacolo, populismo e
ansia di dominio sembrano intrecciarsi in un nodo perverso e inestricabile. I
testi scelti – due tragedie, Eracle
di Euripide ed Edipo a Colono di Sofocle (in cartellone fino al 24 giugno),
e una commedia, Cavalieri di Aristofane
(che andrà in scena separatamente a chiusura del festival dal 29 giugno
all8 luglio) – propongono una riflessione sul tema del kratos, il “potere”, e sulla figura del tiranno, un termine
etimologicamente legato alla parola greca tyrannos,
“re”, che già nellAtene del V secolo a.C. era andato caricandosi dellaccezione
deteriore.
Sebbene segnate da profonde diversità poetiche e stilistiche, le due
tragedie, in cui la sfera personale si coniuga con la dimensione politica,
presentano una significativa consonanza contenutistica nel disegnare la
parabola di due eroi benefattori dellumanità: Eracle che combatte contro
mostri terribili ed Edipo che libera i cittadini di Tebe dal dominio sanguinoso
della Sfinge. Entrambi per disegno divino
commettono atroci crimini contro i loro stessi congiunti e vanno così incontro
a un destino di dolore e di sofferenza divenendo icona della precarietà della
gloria e della potenza umana. Entrambi, inoltre, sono oggetto della prepotenza
e della persecuzione di due tiranni, rispettivamente Lico e Creonte,
incarnazione della spietatezza di sovrani guidati nelle loro azioni da
interessi egoistici e crudeltà.
Un momento dello spettacolo © Gianni Luigi Carnera La rappresentazione a sere alterne delle tragedie ha posto in dialettica antitesi due cifre stilistiche divergenti: luna anticonvenzionale e di “rottura”, quella di Emma Dante cui è stata affidata la direzione dellEracle; laltra maturata nel solco della tradizione ad opera del regista greco Yannis Kokkos che ha riversato nellEdipo a Colono una sapienza antica. La scelta artistica operata dalla regista palermitana è evidente già nella scenografia (creazione di Carmine Maringola) che chiude lo spazio dellorchestra con un muro bianco, largo venti metri e alto sette, sul quale spiccano alcuni teschi e più di duecento ritratti fotografici di defunti, dal sapore retrò, come se fossero gli antenati di tutti noi. Davanti a esso sono dislocate una serie di tombe aperte dalle quali spuntano sette croci lignee che girano come pale eoliche e affiancano una grande vasca colma dacqua lustrale. Unambientazione che richiama unatmosfera di dolore e di ritualità. Ma non è questa la
direzione che prende lo spettacolo: irrompono infatti sulla scena tre donne
vestite di abiti sgargianti, fuxia e neri che si muovono vorticosamente e fanno
da apripista a una sorta di processione con la quale avanzano, accompagnati dal
suono tumultuoso di tamburi, tutti i personaggi della tragedia. Ciascuno di
loro presenta il proprio ruolo. Vediamo subito che la “coloritura” è grottesca:
i movimenti, le voci e i costumi stessi (esuberanti nelle forme impresse da Vanessa Sannino) indicano un
percorso sui generis che la
presenza di un cast tutto di
donne contribuisce a connotare in maniera anticonformista. Oltre ai personaggi
femminili – Megara (Naike Anna Silipo), Iris e Lyssa (Francesca Laviosa e Arianna Pozzoli) – anche quelli
maschili sono interpretati da attrici: Anfitrione, padre di Eracle (Serena Barone); Lico, il tiranno
che ne perseguita la moglie Megara e figli (Patricia Zanco); Teseo, lamico
fedele (Carlotta Viscovo); il Messaggero (Katia Mirabella) e lo stesso
Eracle (Mariagiulia Colace).
Un momento dello spettacolo © Maria Pia Ballarino Le chiavi di lettura sono molteplici e compatibili tra di loro: questa scelta può essere vista come una voluta contrapposizione alla convenzione del teatro greco che prevedeva la presenza in scena di soli uomini, e dunque costituire unelementare e poco significativa rottura di uno schema formale codificato; al tempo stesso può caricarsi di senso allargando il dramma di Eracle – che reso folle dalla dea Era a lui ostile stermina la propria famiglia – dalla dimensione prettamente maschile delleroismo e della forza fisica a una prospettiva ecumenicamente umana. Il semidio figlio di Zeus che affronta le dodici proverbiali fatiche appare, grazie allinterpretazione femminile, in una dimensione più complessa e sfaccettata. Un essere ermafrodito – lo definisce Emma Dante – che ha dentro di sé maschio e femmina intimamente uniti. La sua impotenza di fronte al destino che lo travolge diventa icona di unumanità straziata, con le sue fragilità ma anche con la sua capacità di riscatto e di superamento del dolore. Qui la regista si muove sulla via indicata da Euripide che, invertendo cronologicamente la successione degli eventi mitici col posticipare, contrariamente alla vulgata, la strage dei familiari al compimento delle fatiche, vuole sottolineare la precarietà della condizione umana. Leroe invincibile e civilizzatore, che ha liberato il mondo da mostri terribili, soccombe senza colpa travolto dalla follia.
Ma comè nel suo stile, la regista non indulge affatto a pietismo e
patetismo. Il corpo massiccio e possente di Mariagiulia Colace è già di per sé
un deterrente a qualunque interpretazione lacrimosa. Lingresso in scena di
Eracle, che avviene nel momento di massima tensione drammatica, quando ormai la
morte incombe su Megara e i figli, muove il pubblico al riso. Leroe arriva
baldanzoso e firma autografi seguito da un servo carico di bagagli simile a
Dioniso accompagnato da Xantia nelle Rane
di Aristofane. In mano tiene un mazzo di rose rosse che porge alla sposa,
ignaro degli eventi, con un piglio farsesco, come fosse la caricatura di un
pupo siciliano. Il pensiero va allEracle dellAlcesti euripidea con la sua caratterizzazione comica in un
contesto luttuoso che non esclude tuttavia una pregnanza di senso.
Peraltro già la recitazione di Anfitrione, il primo a parlare nel
prologo, rifugge da intonazioni drammatiche o altisonanti (come peraltro la
traduzione di Giorgio Ieranò), giocata comè su un forte accento
siciliano e su toni striduli e graffianti che nel ricordo degli spettatori meno
giovani riportano alla memoria la voce ruvida di Tina Pica. Il padre
putativo delleroe è una persona fragile, costretta a muoversi su una sedia a
rotelle mentre per alzarsi si appoggia a due
stampelle che poi brandisce invano contro il feroce Lico, con un prevalere
dellaspetto grottesco su quello tragico.
Un momento dello spettacolo © Franca Centaro
Né Lico, tronfio e ottusamente feroce, è un tiranno credibile. Avido di potere, fonda la sua forza sulla debolezza delle proprie vittime e, maramaldeggiando scortato dai suoi scherani (sono donne anche loro), si compiace di usare violenza su chi non può ribellarsi. Quando verrà colpito a morte da Eracle, la sua anima lascerà vorticosamente la vita sotto forma di una nera figura danzante. A incarnare la drammaticità della situazione è invece il personaggio di Megara interpretato da Naike Anna Silipo, assai credibile nella parte della mater dolorosa affranta per il destino di morte dei figli e suo ma capace di mantenere intatta pur nellangoscia la propria dignità e di circondare i figli di amore autentico. Si deve a lei lunica scena schiettamente tragica dello spettacolo e carica di una potente forza rituale, quella della vestizione funebre dei figli, preceduta da un lavacro purificatore allinterno della grande vasca e accompagnata da un coinvolgente tappeto sonoro. Dopo il racconto della strage fatto dal messaggero, la scena tra Eracle e Teseo riprende ancora una volta il motivo dei pupi che si fronteggiano. Pur nellatteggiamento parodico emerge la forza della philia, il rapporto di autentica amicizia che lega tra loro i due eroi e che offre al figlio di Zeus un sostegno capace di dissuaderlo dal suicidio: se gli dei sono ostili e spietati, gli esseri umani possono stringersi lun laltro e condividere il dolore. Nella scena finale si compie il rito funebre in onore delle vittime in unatmosfera di intensa emotività di impronta mediterranea, dove le musiche e i movimenti scenici celebrano la sacralità della morte e sciolgono il dolore in uninattesa immagine di grande bellezza: le nere gonne del Coro – i soli uomini in scena, che antifrasticamente incarnano un gruppo di anziane donne – si trasformano, mostrando il loro rovescio, in colorati cuscini di rose che affiancano i quattro cadaveri circondati da teschi. Una sorta di quieta pacificazione sembra scendere come un balsamo sullamara conclusione della vicenda tragica. Infrangendo iconoclasticamente i canoni della tragedia Emma Dante non lha tuttavia privata di senso e ne ha saputo comunicare al pubblico la densità concettuale facendo uso del linguaggio che le è proprio: lespressività del corpo in sostituzione della sottigliezza del logos. Il testo euripideo ha parlato anche e soprattutto attraverso il ritmo travolgente delle danze frenetiche e trascinanti di Manuela Lo Sicco (di intenso impatto quelle vorticose alla maniera dei dervisci rotanti) sul melting pot musicale di Serena Ganci imprimendo allo spettacolo potenza emotiva e forza.
Un momento dello spettacolo © Le Pera Di segno diametralmente opposto lispirata messa in scena di Edipo a Colono a opera del regista greco naturalizzato francese Yannis Kokkos dove la meditazione sul senso ultimo della vita delluomo ha toccato vertici di poetica teatralità. Un testo di abissale profondità, ultima fatica di Sofocle ormai novantenne. La perizia lirico-drammaturgica dellautore e la densità filosofica del suo pensiero si fondono con lautenticità della sua esperienza umana, giunta ormai sulla soglia del trapasso. E spesso lallestimento di questo dramma ha goduto del valore aggiunto dato dallinterpretazione dellattore protagonista. Come fu per ledizione siracusana del 2009 con un intenso Giorgio Albertazzi diretto da Daniele Salvo, così è per questo allestimento affidato alla sensibilità di Massimo De Francovich: non ci sono tirate stentoree né retorica nel restituire il logos; la parola sofoclea viene veicolata nella sua essenzialità attraverso la traduzione alta e poetica di Federico Condello. Misura e intensità costituiscono la cifra stilistica connotativa di uno spettacolo ieratico e minimalista che non rifugge da pause di silenzio e non ricerca il favore del pubblico con soluzioni spettacolari a effetto, ma segue un percorso rigoroso nel quale si avverte forte il senso di un mistero trascendente e della sacralità che lo accompagna.
Un momento dello spettacolo © Franca Centaro Pochi e potenti i segni
scenici. Limmagine esteriore di Edipo ne comunica con immediatezza la
condizione di esule, emarginato e mendico. Visivamente, con la sua veste
sdrucita, di colore chiaro e di foggia atemporale, il protagonista spicca in
dialettico contrasto con gli altri personaggi che indossano moderni abiti neri
o dalle tinte scure (sobria creazione di Paola Mariani), con leccezione
della giovane Ismene. Grigia è la scena ideata dallo stesso Kokkos, scarna, scandita da una metallica torre di vedetta, un paio di massi e una macchia di alberi: una sorta di astrazione paesaggistica che colloca in una dimensione sacrale più che reale lintera vicenda. Sul fondo si staglia unimponente statua a mezzobusto; inclinata in avanti volge le spalle al pubblico ed è attraversata da un varco per il quale passerà Edipo alla fine della tragedia avviandosi verso il boschetto sacro retrostante dove lattende la morte. Nelloscurità che avvolge il teatro, Edipo avanza dal buio, quello della sua tormentata esistenza, alla luce della redenzione e della pacificazione, come indica il chiarore abbagliante che erompe dalle fronde degli alberi. È la metafora del percorso esistenziale che luomo deve compiere per liberarsi di ogni scoria morale e attingere a una dimensione divina. Macchiatosi inconsapevolmente di parricidio e incesto, Edipo con la sua cecità e lesilio riscatta le proprie colpe e diventa totem benefico per Atene, la città che generosamente lo accoglie per decisione del re Teseo in nome del dovere di accoglienza e di ospitalità.
Un momento dello spettacolo © Gianni Luigi Carnera
Il dialogo tra il giovane sovrano, nel pieno del proprio potere
(interpretato con composta autorevolezza da Sebastiano Lo Monaco), e
lanziano esule, un tempo re temuto e carismatico, è improntato al reciproco
rispetto e costituisce uno dei nodi semantici della tragedia: limperativo
morale di accogliere chi bussa supplice alla porta, sapendo andare al di là
della mera apparenza e facendosi guidare da sentimenti di pietas e di fratellanza.
Di segno opposto le due scene di aspro confronto tra Edipo e Creonte, prima, e con il figlio
Polinice, poi. Abiti militareschi, intonazione decisa e ferma, gestualità
autoritaria e aggressiva caratterizzano il sovrano di Tebe (reso senza eccessi
attoriali da Stefano Santospago) venuto a ricondurre lesule in patria non
spinto da sentimenti filantropici, ma per godere dellazione benefica che il
corpo delleroe, una volta morto e sepolto, può esercitare sulla città. La
superba arroganza e la crudeltà che lo portano a rapire Antigone (Roberta
Caronia) e Ismene (Eleonora De Luca) per lasciare Edipo senza
sostegno, si scontrano con il fermo proposito umanitario di Teseo incurante
delle sue minacce. Né Edipo si piega alla sua prepotenza che anzi fronteggia con parole severe e sprezzanti, con lo
stesso piglio sicuro con cui da lì a poco caccerà Polinice (Fabrizio Falco)
venuto a chiedere il suo aiuto nella guerra che lo contrappone al fratello
Eteocle per il dominio su Tebe. Le lunghe sofferenze hanno inasprito lanimo
dellesule che non perdona al figlio di averlo cacciato dalla città e di averlo
costretto a una vita miserabile e raminga. Polinice gli è odioso, non ne ha
compassione nonostante sia ora a sua volta un esule, e su di lui rovescia la
sua collera rabbiosa, maledicendolo e predicendone la morte imminente,
destinato a uccidere e ad essere ucciso con un delitto fratricida. Autentico
amore Edipo lo prova solo per le figlie Ismene e soprattutto Antigone che lo ha
seguito nellesilio e gli ha consentito di sopravvivere a una prova tanto
dolorosa.
Nelleconomia dello spettacolo un ruolo importante giocano i Cori, uno
maschile (guidato da Davide Sbrogiò) e uno femminile, dai movimenti
misurati e intensi, che talvolta recitano allunisono e cantano sulle musiche
di Alexandros Markeas: un impasto di melodie tradizionali bizantine,
medievali, sefardite e ottomane, dove il canto a cappella si sposa a parti
elettroniche con elementi vocali e strumentali registrati ed elaborati, creando
unatmosfera di dolore sonoro, sospeso tra ritualità e meditazione.
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