Sipario
chiuso, luci accese: gli sguardi curiosi dai palchi e le voci del pubblico
ancora riempiono la platea, quando Monica
Demuru irrompe con passo deciso sul palcoscenico mimando lantico gesto
dellapertura del sipario. Cala il silenzio. Schiocca le dita e si spengono le
luci in sala. Così lattrice mette in moto Belve,
una farsa in prima nazionale al Teatro Metastasio di Prato, creatura ultima
generata dalla mente di Massimiliano
Civica e dalla penna di Armando
Pirozzi. Belve: un titolo giallo
su fondo nero per raccontarci una “farsa” contemporanea. Dopo
aver affrontato con successo la tragedia classica con Alcesti di Euripide e Un quaderno per linverno di Armando
Pirozzi (rispettivamente Premio UBU miglior regia 2015 e 2017) che il critico Massimo Marino ha definito “ commedia
lirica”, Civica si cimenta
per la prima volta con il genere farsesco (tinto di noir). Così recita il libretto di sala: «credo negli attori e in un
teatro che metta al centro gli attori. Per questo sono sempre stato affascinato
dalla farsa, genere teatrale che storicamente ha costituito il “tempo dellapprendistato”
e il banco di prova dei grandi attori».
Sei
gli interpreti in scena. I protagonisti della storia sono Pippo (Aldo Ottobrino) ed Elisabetta (Monica
Demuru), una coppia piccolo borghese tra i trentacinque e i quarantanni, senza figli: il rientro a
casa del marito stressato dalla dura giornata di lavoro, la mogliettina
frustrata che aspetta (e spera) in un impeto di rinata passione, gli odiati
vicini che si autoinvitano a cena turbando lapparente normalità della casa.
Siamo in sala da pranzo, la tavola apparecchiata finemente nasconde sotto di sé
i “panni sporchi” della famiglia: la grande abbuffata di cozze è predisposta.
Un momento dello spettacolo © Duccio Burberi I
vicini, Giorgetta (Alessandra De Santis)
e Giocondo Di Vano (Salvatore Caruso),
sono due personaggi dallaspetto ridicolo quanto i loro nomi: alta e in carne
lei, basso e magro lui. Creano da subito con laltra coppia un contrasto molto
forte: tanto Pippo ed Elisabetta sono nervosi e irascibili, quanto Giocondo e
Giorgetta incarnano serenità e giovialità esasperanti; scuri negli abiti e
adombrati gli uni, candidi e solari gli altri.
Confinati
nello spazio ideale delineato dallo schermo cinematografico sullo sfondo, i
quattro si interfacciano di volta in volta (di gag in gag) con la galleria di
macchiette create dai depositari della leggerezza della pièce: i trasformisti Alberto
Astorri e Vincenzo Nemolato, gli
unici a non abbandonare mai la dimensione farsesca.
Il
testo di Pirozzi racconta la deriva di
una società ancora oggi eternamente divisa tra pochi ricchi e molti poveri, ma
con uninsidia in più: lillusione del povero di poter diventare ricco. È
questa la “teoria della cozza” che risucchia dal mare quanto può senza
restituire niente, così come il ricco spreme il povero senza pietà alcuna:
teoria espressa da Giocondo in un momento di “verismo” forzatamente
didascalico. Si racconta così il confronto spietato tra generazioni, nel quale
i figli cercano di annientare i padri per sopravvivere, per mantenere o
conquistarsi un posto di potere nella società, quella che conta. La donna, come
una moderna Lady Macbeth dedita allalcool, spinge il marito allomicidio per
interesse: un omicidio che sembra irrealizzabile e che porta la coppia alla disperazione
a tratti comica, a tratti drammatica.
Un momento dello spettacolo © Duccio Burberi Lo
spaesamento si consuma in una continua osmosi tra dramma e farsa nella prospettiva
attor-centrica dichiarata del regista. A dare una direzione al testo sono i
personaggi con le loro espressioni, intonazioni e gesti fatti di comicità
fisica, di macchiette e gag da vaudeville.
Una messinscena che tenta di essere intelligibile a più livelli perché, come recita Giocondo rappando in rima baciata, «non si rima
solo per il pubblico amico, a volte bisogna fare qualcosa anche per il
critico»; ma ci si riesce solo in parte. Non mancano gli omaggi alla tradizione
farsesca, da Plauto a Scarpetta, con tanto di agnizione e
momento di festa finali, associati a colpi di scena alla Ionesco, elementi di “surrealtà”
alla Franca Valeri inseriti in una
dimensione onirica degna di Stefano
Benni.
La mano del regista è
onnipresente nella macchina della finzione che sul finale ne risulta
appesantita. Complice il teatro Metastasio, i cui spazi non hanno giovato alla
godibilità dellazione: lavremmo vista più adatta per un ridotto, luogo meglio
predisposto al contatto del pubblico con il motore della scena, lattore.
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