Il teatro di Gabriele DAnnunzio attirò da
subito linteresse dellopera lirica. A breve distanza dalle prime
rappresentazioni, le richieste al poeta per trarre libretti dalle sue tragedie
o anche per scriverne ex novo furono frequenti,
toccando la punta massima negli anni Dieci del Novecento. Non tutti i tentativi
andarono in porto (famoso è il nulla di fatto con cui si concluse il progetto
di collaborazione con Giacomo Puccini). Eppure diverse furono le opere
che portarono sulla scena lirica i suoi drammi. I compositori coinvolti furono soprattutto
italiani, dalla Giovane scuola in avanti; non solo quelli, però, e non solo
compositori.
Aprì la strada Alberto Franchetti (La figlia di Iorio, 1906); lo seguirono Nadia
Boulanger e Raoul Pugno (La
ville morte, 1912), Pietro Mascagni (Parisina, 1913), Riccardo Zandonai (Francesca da Rimini, 1914), Gian Francesco Malipiero (Sogno di un tramonto dautunno, 1914), Ildebrando
Pizzetti (Fedra, 1915), Italo
Montemezzi (La nave, 1918). Di
queste opere alcune non riuscirono per varie vicende a essere rappresentate
allepoca della composizione (La ville
morte e il Sogno di un tramonto
dautunno). Le altre costituirono eventi importanti nella vita musicale del
tempo ma, tranne in un caso, non riuscirono mai a imporsi al pubblico, né, di
conseguenza, a guadagnarsi un posto nel repertorio. Con una sola eccezione: la Francesca da Rimini di Zandonai, lunica
cui arrise il successo fin dalla prima rappresentazione e che ha continuato a
essere riprogrammata dai teatri con una certa regolarità.
Un momento dello spettacolo ©Marco Brescia e Rudy Amisano A quanto pare, Zandonai non riscosse le simpatie
di DAnnunzio, né DAnnunzio quelle di Zandonai, e i contatti tra i due si
limitarono allo stretto indispensabile. Il poeta acconsentì a concedergli i diritti della sua tragedia (a lui, che non era
ancora un compositore famoso) solo grazie allabile diplomazia delleditore, Tito
Ricordi, che si accollò il compito della riduzione del testo e concesse un
compenso, altissimo per lepoca. DAnnunzio in seguito si mostrò
sorprendentemente disponibile a fornire versi nuovi quando si rese necessario
(lassolo di Paolo del terzo atto «Nemica ebbi la luce, / amica ebbi la notte»,
assente nella tragedia originaria), senza i ritardi e i silenzi che avrebbero
segnato invece progetti operistici più condivisi
sul piano estetico. Si pensi alle collaborazioni più strette, anche sotto il
profilo umano, come nel caso di Pizzetti che dovette attendere a lungo la
riduzione di parti della Fedra. Zandonai
per parte sua lavorò allopera con grande convinzione, consapevole che con Francesca si sarebbe giocata una carta
fondamentale per la sua carriera. E trovando, inoltre, nella sua composizione
un perfetto equilibrio tra modernità e tradizione, come a quel tempo riusciva
bene a pochissimi.
Francesca da Rimini, infatti, non è unopera che concede molto agli
ascoltatori: è avara di frasi cantabili affidate alle voci, e quelle che ci
sono hanno melodie complesse non facilmente memorabili. Non è però nemmeno
unopera che mortifichi lascolto, anzi; solo che la maggiore gratificazione
viene dalluso sapiente della musica “in scena”, dei cori e soprattutto
dellorchestra gestita
ai più alti standard dellepoca. Questo ha garantito alla Francesca da Rimini un posto nel canone operistico novecentesco,
specie in Italia. Un posto defilato, a dire il vero, che lha vista sempre più
assente dai cartelloni dei grandi teatri, fino a quando, ma è storia
recentissima, ha cominciato a calcare di nuovo i palcoscenici a livello non
solo nazionale: dallallestimento dello Sferisterio di Macerata nel 2004, agli
allestimenti di Salerno nel 2010, dellOpéra di Parigi nel 2011 (ripresa a
Trieste lo stesso anno), nonché dellOpéra du Rhin a Strasburgo, lo scorso
dicembre.
Londata di rinnovato interesse per Francesca Rimini arriva ora anche alla
Scala, che con la gestione Pereira-Chailly mostra di nuovo attenzione
a opere di repertorio poco frequentate nelle passate gestioni. Lultimo
allestimento del lavoro di Zandonai nel teatro milanese risaliva al 1959.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia e Rudy Amisano La regia di David
Pountney ambienta la vicenda allepoca di DAnnunzio, ma non rinuncia per
questo a importanti suggestioni medievali. Sul palco cè un unico impianto
scenico (scene di Leslie Travers):
un ambiente marmoreo concavo in cui campeggia su un lato un enorme busto
femminile di stile neoclassico. È lo spazio delle donne di casa da Polenta, uno
spazio riservato allarte, alla musica, alla poesia, ai sogni di fanciulle che
presto si scontreranno con la dura realtà, quella dominata dagli uomini. Nel
loro spazio di marmo Francesca e le sue donne,
vestite di bianchi costumi preraffaelliti (di Marie-Jeanne Lecca), dipingono, ascoltano
un giullare, fanno musica “antica”, fino a quando non arriva a mettere fine
alle loro illusioni il fratello Ostasio in divisa nera, chiaro richiamo
allorbace fascista. Ostasio non scaccia il
giullare, come da libretto: lo uccide con un
colpo di pistola. Il cadavere resta in scena, coperto pietosamente dalle donne
di casa, triste contrappunto allincontro tra Paolo e Francesca e richiamo
allodioso inganno che quellincontro nasconde. Paolo si presenta in
unarmatura scintillante, tutta doro, come il principe delle favole, ma,
passato il momento degli intensi sguardi amorosi, tutta la magia finisce.
Il passaggio tra primo e secondo atto è
rapidissimo e segna la fine della vita felice di Francesca: lance nere
trafiggono il busto marmoreo e lo spazio delle donne. La scena ruota e muta nel
suo opposto: la torre dei Malatesta è una gabbia di ferro convessa fatta di
praticabili sovrapposti, tutta armata di cannoni che cancella i luoghi dove si
coltivavano fragili ideali darte e di bellezza. La scena è dominata dagli
uomini, tutti in divisa e stivali neri. Francesca ne è travolta. Strappata dal
suo mondo, è brutalmente costretta dai soldati a vestire anchessa panni
militari. La scena del primo atto si ripresenta nel terzo e nel quarto. Le
lance restano al loro posto e insieme a quelle altri elementi rendono ancora
più esplicita limpossibilità di ricostruire lidillio del passato. Davanti al
busto trafitto cè sì un enorme libro aperto (il “galeotto” romanzo di Lancillotto e Ginevra) a testimoniare
lattaccamento di Francesca alla cultura, ma ci sono anche un biplano, un aereo
da guerra e le sue donne: queste hanno
dismesso gli abiti medievali, vestono ormai le uniformi da ausiliarie di guerra
e non cantano più né dipingono, ma lavorano in un ufficio di propaganda
bellica.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia e Rudy Amisano La lettura di Pountney è molto efficace. Tutto,
dallimpianto scenico ai costumi alle luci (di Fabrice Kebour), contribuisce a raccontare la vicenda interpretando
il Medioevo “allestito” da DAnnunzio come un travestimento di temi e tensioni
novecenteschi. Molti momenti sono di grande impatto: penso alla scena del
giullare nel primo atto oppure allarrivo di Ostasio e ser Toldo, oppure,
ancora, tra primo e secondo atto, al
citato passaggio della sopraffazione di Francesca da parte dei Malatesta. Ma si
veda anche la scena di guerra del secondo atto, con i praticabili che alla fine
si aprono per fare posto a un gigantesco cannone che “spara” in direzione della
sala. Meno felicemente risolte, invece, risultano alcune delle scene più
importanti: per esempio la chiusa del primo atto, dove la splendida musica
orchestrale che accompagna il silenzioso scambio di sguardi tra i due
protagonisti viene “usata” come colonna sonora dellarrivo di Paolo in
armatura, riducendone così la carica drammatica ed emotiva. Oppure il finale,
dove luccisione dei due amanti avviene in modo solo simbolico (dallalto
compare una lancia che si ferma a mezzaria sulla coppia distesa), in uno
spettacolo dove la violenza non è mai stata simbolica: si vedano le scene sopra
descritte del giullare nel primo atto o quella della sopraffazione di Francesca
tra il primo e il secondo.
Considerazioni positive, con qualche ombra, anche
per la parte musicale. Diciamo subito che la Scala ha messo in campo unottima
compagnia di canto, con voci di qualità anche per le parti più piccole, come
solo un grande teatro può e sa fare. Nella Francesca
da Rimini, a queste parti, numerose, sono affidati snodi drammatici
sostanziali: il dialogo tra Ostasio e ser Toldo che compaiono solo nel primo
atto; importanti scene datmosfera, quelle delle donne di Francesca nel primo,
terzo e quarto atto. La qualità della resa vocale e attoriale di questi
interpreti non si distingue da quella dei protagonisti. Si mettono in luce come
ottimi cantanti non meno che come bravi attori/attrici Sara Rossini (Biancofiore, la donna di Francesca che ha
maggior rilievo solistico), Valentina
Boi, Diana Haller e Alessia Nadin (rispettivamente
Garsenda, Altichiara e Adonella) insieme agli ottimo Matteo Desole (Ser Toldo) e Costantino Finucci (Ostasio). Bene Alisa Kolosova nella parte breve ma
dalla tessitura ingrata di Samaritana; molto bene Idunnu Münch come Smaragdi ed Elia
Fabbian nei panni dello sfortunato giullare.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia e Rudy Amisano Nei ruoli principali spiccano Gabriele Viviani (Giovanni lo
Sciancato) e Luciano Ganci
(Malatestino dallOcchio). Viviani si destreggia con grande padronanza di mezzi
nel dare voce alle due anime del suo personaggio. Nellingresso nel secondo
atto e ancor più nelle scene del quarto fa emergere le sue doti di vilain, sostenute da un bel timbro
scuro, a tratti anche volutamente ruvido, cui sa contrapporre la cantabilità e
il fraseggio suadente nella scena del brindisi con Francesca nel secondo atto.
Ganci a sua volta sorprende nel saper disegnare un personaggio feroce e
isterico insieme, ma sempre con unemissione controllata e senza mai scadere
nei facili effetti che la parte di Malatestino potrebbe incoraggiare. Marcelo Puente ha il fisico e le
capacità di attore necessari per Paolo il Bello; possiede anche lintelligenza
per tratteggiare musicalmente il personaggio. Esce con eleganza da tutte le
insidie del ruolo; molto bello il suo «Inghirlandata / di violette mappariste
ieri»: passo del terzo atto che in passato ha messo in difficoltà più di un
grande tenore. La voce e la tecnica però non sono pari al livello
dellinterprete, e il suono, a volte “ingolato”, non supera con facilità il
muro dellorchestra. Di tuttaltro segno la prova di Maria José Siri (Francesca). La voce è bella, la tecnica solida.
Canta bene e non lesina in finezze. Non cè però il personaggio: la sua
Francesca sembra non avere gli “artigli” che il testo di DAnnunzio e la musica
di Zandonai le attribuiscono, e alla fine la resa è poco incisiva, anche perché
non sostenuta da una recitazione spigliata.
La riuscita dello spettacolo deve moltissimo alla
direzione di Fabio Luisi, vero
protagonista della serata. La partitura è ricca di varietà e generosa di
ricercatezze, come il testo dannunziano che intona. Si va dallevocazione della
musica medievale, alla scrittura armonica e orchestrale più ardita, dalla
brutalità pre-espressionista alle più sottili rarefazioni timbriche. Luisi la “prende
sul serio” come avrebbe fatto con unopera di Richard Strauss, e ci fa
riscoprire uno Zandonai dalle possibilità espressive “enciclopediche”, che
direzioni tradizionalmente muscolari ci avevano fatto dimenticare. Lorchestra
lo asseconda a meraviglia.
Ottimo
il successo alla prima. Premiati dagli applausi soprattutto Luisi e Ganci. Al
secondo giro di uscite singole, qualche “bravo” di troppo da una claque forse eccessivamente zelante ha
scatenato i “buu” dei loggionisti allindirizzo di Puente, che invece ai primi
ringraziamenti aveva ricevuto solo manifestazioni di consenso.
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Francesca da Rimini
Tragedia in quattro atti
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Gabriele Viviani (Giovanni) e Luciano Ganci (Malatestino) in un momento della Francesca da Rimini©Marco Brescia & Rudy Amisano
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