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Teatro Delusio

di Andrea Simone
  Teatro Delusio
Data di pubblicazione su web 29/01/2018  

Nel 1994 un gruppo di studenti del corso di mimo della Folkwang Universität di Essen (istituto tedesco di formazione statale per il teatro di espressione corporea, noto per avere avuto Pina Bausch fra i suoi docenti) si cimentò nella fabbricazione artigianale di maschere di cartapesta. L’intento era quello di sperimentare nuove forme espressive, in continuità con la migliore tradizione della clownerie e del mimo e ispirandosi, per lo studio sulla maschera, alla Commedia dell’Arte attraverso il filtro novecentesco delle rivisitazioni di Amleto Sartori e dello svizzero Erhard Stiefel, maestri nel settore (basti pensare alle maschere ideate dallo stesso Sartori e dal figlio Donato rispettivamente per gli Arlecchini di Marcello Moretti e Ferruccio Soleri). Promotori dell’iniziativa furono soprattutto tre intraprendenti giovani, Markus Michalowskie, Hajo Schüler e Michael Vogel, che di lì a poco avrebbero formato il nucleo della Familie Flöz.

 

La compagnia, ormai da tempo riconosciuta dalla critica internazionale come il miglior esempio di teatro di figura contemporaneo europeo, ha calcato le più prestigiose scene mondiali (Asia, Europa e Sud America). Piace qui segnalare il suo particolare rapporto con l’Italia. Dal 2006 si svolge ogni anno, presso l’Abbazia di San Giusto a Tuscania, la Flöz Sommer-Akademie: una summer school, fondata dal direttore artistico e di produzione Gianni Bettucci, che propone laboratori incentrati sull’improvvisazione e sulla recitazione con la maschera.


Il termine tedesco Flöz indica quello strato geologico contenente preziose materie prime che soltanto dopo un accurato processo possono essere lavorate in superficie. La metafora rappresenta perfettamente il percorso di creazione collettiva di storie e personaggi tipico della compagnia: si parte dall’individuazione di un tema e, dopo una fase laboratoriale di scrittura scenica e improvvisazioni, si giunge all’atto simbiotico fra l’attore e la maschera pensata e costruita su misura per ogni personaggio. Un linguaggio che viene “prima” del parlato e che ci riporta a quel «comportamento scenico pre-espressivo che sta alla base», secondo Eugenio Barba, «dei differenti generi, stili, ruoli e delle tradizioni personali o collettive» (La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, Bologna, il Mulino, 1993, p. 23). Il conflitto corporeo determina ogni situazione scenica e si esplicita anche grazie ad attori che coniugano formidabili doti acrobatiche a quelle mimiche. La convinzione alla base dell’idea drammaturgica dell’ensemble tedesco è che la maschera, come il testo, è sia forma che contenuto. Da questo punto di vista in Teatro Delusio (quarta produzione, rappresentata per la prima volta nel 2004 all’Arena di Berlino) c’è tutto il marchio di fabbrica dei Flöz, tanto che lo spettacolo riscuote ancora oggi grande successo. Un successo confermato dalla calorosa partecipazione del pubblico del Teatro Puccini di Firenze durante la replica dello scorso 19 gennaio. 



Un momento dello spettacolo
© Eckard Jonalik
                                    

Entrando in sala si trova il palcoscenico aperto, allestito con una scena spoglia: al centro, su una sedia, una radio accesa che trasmette musica di intrattenimento; sulla sinistra, un grande baule e una scaletta appoggiata alla parete; sul fondo una serie di quinte viste di “spalle”. Tra il brusio della folla che prende posto, tre tecnici di scena si impegnano concitatamente negli ultimi accorgimenti, sforando di alcuni minuti l’orario di inizio dello spettacolo. Ormai l’interrogativo che serpeggia in platea è uno solo: quando si comincia? In realtà siamo già nel vivo della performance. Ce ne accorgiamo non appena i macchinisti si trasformano in abili pupari e, nel buio improvviso, manovrano un’enigmatica diafana marionetta, il cui volto è animato da una delle inconfondibili maschere di cartapesta dei Flöz, che collegando due cavi elettrici danno luce e inizio allo spettacolo. Il magistrale prologo metateatrale ci ha introdotto nel backstage mostrandoci le vite di tre operatori di scena che, poco a poco, si intrecciano, tra gags clowneristiche e sorprendenti scambi di ruolo, con quelle di tutti gli altri professionisti dello spettacolo (musicisti, ballerini, attori, costumisti, impresari ecc…), in un continuo “dentro-fuori” tra scena del quotidiano e quotidianità del fare teatro. 

Dei tre Bernd (Thomas van Ouwerkerk) è quello più sensibile, e anche il più cagionevole. Amante della letteratura, ne approfitta appena può per salire sulla scaletta, sfruttare la poca luce che filtra da una finestrella e rifugiarsi avidamente nella lettura sottraendosi ai più faticosi lavori del suo mestiere, scatenando le ire e le comiche vendette dei colleghi. Non solo. Egli trova l’amore, corrisposto, imbattendosi in una delle ballerine, che agisce sul palco a noi non visibile ma di cui iniziamo a percepire i rumori fuori campo, e salvandola dalle grinfie di un effeminato quanto carontico maestro di ballo che la spinge maldestramente in scena senza troppo curarsi del suo stato fisico ed emotivo. 

Bob (Andrès Angulo) è il più ambizioso della squadra. Baldanzoso e aitante, non perde occasione per mettere in mostra le proprie abilità fisiche spesso a scapito del malcapitato Bernd (ma, nella maggior parte dei casi, è proprio lui a fare una brutta figura). In chiaroscuro, la sua maschera rivela anche un lato malinconico legato proprio a quell’esibizionismo. Sogni e desideri repressi pian piano tornano a galla nell’euforia scatenata dalla fortuita occasione di essere scritturato per un ruolo da spalla in una pièce da gangster movie, poi tramutatasi repentinamente in delusione e sconforto dopo il provino andato male per ansia da prestazione.

 

Ivan (Johannes Stubenvoll), l’aiutante capo, rappresenta la parte saggia e razionale del trio. Ce lo fa presumere sia la sua maschera, che rivela un’età più avanzata rispetto a quella dei suoi colleghi, sia, soprattutto, un ventre rigonfio, posticcio, alla Pantalone, indice di un vorace appetito e di una posatezza sconfinata. È lui a porre rimedio ai tanti guai causati dal maldestro e smemorato Bernd e dall’irruenza di Bob; ma nulla può quando una pistola, che avrebbe dovuto sparare a salve, uccide il malcapitato primo attore vittima di uno dei tentativi di Bob di mettersi in luce agognando il debutto sulla scena.
                                                 
  
Un momento dello spettacolo
                                       

La tipizzazione dei personaggi, attraverso il connubio attore-maschera, è sorprendente e, in alcuni casi, riserva esiti esilaranti.  Si pensi a quando l’anziano primo violinista smemorato e terribilmente miope, in un inaspettato rientro in scena dopo il finale, si trasforma in un surreale rockettaro con tanto di chitarra elettrica e spavaldo atteggiamento giovanile. Altro momento clou è l’appassionante scena d’amore tra Bernd e la ballerina, sulle incalzanti musiche ciaikovskijane de Il lago dei cigni, culminante nella trionfale uscita dei due dopo una elegante “presa” da balletto classico effettuata dall’improvvisato ballerino con annesso calcio volante che stende definitivamente il cigno nero in cui intanto si era tramutato il crudele maestro di ballo. Avvincente è poi il siparietto in stile “cappa e spada” durante il quale i tre macchinisti divengono abili spadaccini sostituendosi ai legittimi attori dando vita al di là delle quinte a duelli in costume che ricordano ironicamente quelli dei moschettieri di Dumas.

 

Sul palco si avvicenda una miriade di personaggi, una trentina circa, e altrettante maschere di cartapesta. Ma gli attori sono soltanto tre. Supportati da musiche, luci e da costumi raffinati concepiti ad hoc per risolvere intricati cambi d’abito e di scena, i Flöz dimostrano formidabili doti tecniche nel mettere in azione una drammaturgia fluida, incalzante e avvincente. Sebbene non lineare nell’intreccio di due diversi livelli: il teatro che invade il backstage e il backstage in scena. Teatro Delusio sviscera il topos del mondo come teatro e dell’apparenza ingannatrice; la “Delusio” del titolo, nella sua declinazione latina, indica il triste risvolto di entusiasmi e speranze disilluse che costellano la quotidianità in rapporto a un microcosmo, quello dello spettacolo, che è in grado di stuzzicare la fantasia e rinvigorire sogni infranti: maggiore è l’orizzonte d’attesa, maggiore sarà la corrispondente delusione. Mescolando vari generi (dal balletto classico al teatro d’opera; dal concerto sinfonico all’avanspettacolo fino al teatro di prosa), la pièce allude al fascino dell’entertainment e alla sottile linea di demarcazione che lo separa dalla vita reale.


Nel finale si ripresenta l’enigmatica marionetta eterea (la personificazione del teatro stesso?), manovrata dai tre tecnici di scena liberatisi delle rispettive maschere. Specularmente al prologo i due cavi elettrici vengono scollegati facendo calare nuovamente il buio sul palco e in platea.

 



Teatro Delusio
cast cast & credits
 



Un momento dello spettacolo visto il 19 gennaio scorso al Teatro Puccini di Firenze 
© Simona Boccedi
 
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