Paradigmatico esempio di opéra-comique nel passato, ma da molto tempo
più flatus vocis che lessico
familiare del pubblico, Fra Diavolo
di Auber oggi è sì e no conosciuto
per un paio di brani sopravvissuti a due ore e mezzo di musica e, soprattutto,
per lesilarante adattamento cinematografico realizzato da Stanlio e Ollio a un secolo dalla première (1830 lopera, 1933 il film). Le sporadiche riprese in
epoca moderna hanno evidenziato più la vacuità drammaturgica dellintreccio di Scribe che i pregi formali di una
partitura centrifuga, dove ciò che conta non è lunitarietà stilistica, ma laplomb nel fronteggiare di volta in
volta stili diversi. Anche se nei finali datto colpisce come Auber abbia
saputo coagulare in plasticità di resa tante diverse sollecitazioni.
Fra Diavolo, dunque, è oggi riservato più a un tenore mattatore che
a direttori e registi capaci di scavare tra le pieghe di questa commedia
avventuroso-sentimental-farsesca: insomma una sorta di Grand-opéra comique (Auber, con la sua Muette de Portici, vanta una primogenitura nel genere
grandopéristico), soprattutto quando, in occasione delle riprese londinesi, fu
ampliato, musicato nei recitativi parlati e tradotto in italiano, che
oltremanica era la lingua franca del melodramma. In questa riproposta allOpera
di Roma il tenore mattatore cera: e nessuno ne avrebbe dubitato dato il carisma,
la personalità artistica, la tecnica vocale strabiliante di John Osborn. Meno prevedibile, invece, che
si potesse avere una lettura musicale e registica in grado di superare le
intrinseche debolezze della ditta Auber&Scribe e di restituire con
rinnovato profumo le sue datate, un po appassite fragranze. Rory Macdonald e Giorgio Barberio Corsetti ci sono riusciti.
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama
Il primo, con sano pragmatismo e la consapevolezza
che in Auber, capace di rimodulare di volta in volta il proprio linguaggio, la
filologia è unopinione, opta per un ibrido: lingua francese e versione
“italiana”, mantenendo però, anche in base alle caratteristiche degli
interpreti dello spettacolo, alcuni momenti delloriginaria edizione parigina.
E i risultati danno ragione al direttore: lorchestra romana suona molto bene (intonatissimi
gli ottoni, spesso in primo piano) e la concertazione si affranca da quei rossinismi
di maniera che sono laspetto più vistoso, ma pure più caduco della partitura,
per concentrarsi sulla ricchezza ritmica e su uninesausta dialettica dinamica. Barberio Corsetti e la sua fitta
rete di collaboratori (Massimo
Troncanetti firma le scene insieme al regista, Francesco Esposito e Marco
Giusti realizzano costumi e luci, responsabili dei video sono Igor Renzetti, Alessandra Solimene e Lorenzo
Bruno) danno vita a uno spettacolo dove la multimedialità esalta la carica
teatrale anziché prosciugarla. Luso antirealistico dello spazio e lintreccio
di linguaggi visivi – congruo per una struttura musicale così variegata e un
libretto dal plot così stratificato –
sfociano in una vera e propria “scrittura scenica”, dove teatro e cinema,
fumetto e cartone animato coabitano senza forzature e con costante
divertimento. Non manca neppure una spruzzata ecologica: le scene sono di un
materiale biodegradabile e realizzate (è la prima volta che accade in uno
spettacolo operistico) con una stampante in 3D. Il che un po suona come un de profundis per lantica scuola
artigianale della scenografia italiana, un po è una finestra sul futuro. Ma
comunque si voglia vedere la cosa, sta di fatto che tale impianto scenografico
consente un effetto di deformazione che giova allironia surreale della
messinscena.
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama
Il mito dei briganti, caro allOttocento francese, e quello di un meridione italiano suggestivo ma minaccioso (ben radicato in Auber, si tratti di Portici nella Muette o di Terracina nel Fra Diavolo) si stemperano in unItalietta naïf e provinciale a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, con uno sguardo verso il neorealismo rosa e un altro rivolto alla commedia allitaliana: se nel primo atto lambiente paesano e il microcosmo dei carabinieri citano Pane, amore e fantasia, la decappottabile che, durante lOuverture, sfreccia lungo un rettifilo alberato discende senza fallo dal Dino Risi del Sorpasso. Locchio spiante del cinema, insomma, fa spesso capolino in questo spettacolo: e non a caso, se pensiamo a quanto cè di voyeuristico nel secondo atto dellopera (Zerlina guarda compiaciuta le proprie forme allo specchio, gli altri la sbirciano dallaltra stanza). Ma tra affondi grotteschi e gag giocosamente assurde resta spazio pure per un finale “nero”: rifacendosi a un finale alternativo concepito da Scribe, Barberio Corsetti fa uccidere Fra Diavolo dai carabinieri, anziché farlo arrestare. Sicché la ripresa sgomenta e spettrale, al calar del sipario, della canzone del bandito qui sembra acquistare un più profondo significato.
Dellenorme talento di Osborn si
è detto. Il personaggio acquista uno spessore ignoto alla stilizzazione
impressagli da Auber, il monologo che apre il terzo atto si trasforma da
passerella di simpatico ma frivolo tenorismo a momento di gran teatro musicale.
Le mezzevoci che pure nei momenti più suadenti non perdono nulla in timbratura,
il calibratissimo uso del suono “misto” attraverso risonanze congiunte di petto
e testa, larte ottocentesca (in Osborn rinfrescata da un gusto interpretativo
squisitamente moderno) del falsettone rinforzato sono poi altrettanti tasselli
di un edificio tecnico solidissimo.
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama Gli altri interpreti restano indietro di varie spanne. Lunico che, senza poter tenergli testa, comunque non sfigura è proprio laltro tenore, Giorgio Misseri: validissimo cantante “di grazia” ma niente affatto “tenorino”, dunque di timbro più chiaroscurato che diafano e con un registro acuto rispettabilissimo per forza di penetrazione. Fra Diavolo, però, richiederebbe soprattutto una primadonna in grado di gareggiare con il protagonista: mentre Anna Maria Sarra è corretta, volenterosa e scenicamente piccante quanto basta, ma circoscrive Zerlina a una dimensione soubrettistica, ancora molto settecentesca, che non esaurisce le potenzialità del personaggio. La coppia comica
baritono-mezzosoprano (i coniugi inglesi derubati dai briganti: lui con lo
snobismo dei figli di Albione verso gli italiani, lei con la sindrome del
“pittoresco” e affascinata dai loschi figuri) era incarnata da Roberto De Candia e Sonia Ganassi. Del primo dispiace dover
registrare la sopravvenuta opacità vocale, unita a una pronuncia francese
discutibile e alla mancanza di physique
du rôle per un Milord inglese. La seconda, avvezza a parti protagonistiche,
affronta il personaggio di Lady Pamela nel modo giusto: la voce appare un po
in disordine, ma ancora importante; la presenza scenica è oggi più matronale, ma
sempre sensuosa. Potrebbe essere linizio di una brillante seconda carriera:
non più mattatrice, bensì caratterista di alto rango.
Pure i comprimari si fanno
apprezzare. Jean Luc Ballestra e Nicola Pamio convincono nei panni di
banditi pasticcioni (i due personaggi che, nel citato film,
erano appunto interpretati da Stanlio e Ollio), mentre Alessio Verna è un basso di notevole autorità vocale, che riesce a
imparentare il personaggino delloste Matteo ad altri più importanti ruoli di
padri desiderosi che la figlia faccia un buon matrimonio sul piano finanziario:
Rocco del Fidelio sembra quasi dietro
langolo. Insomma, si torna a casa soddisfatti. E pronti a mettere nel lettore
dvd il Fra Diavolo dei mitici Stan
Laurel e Oliver Hardy.
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