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Un tempo era un classico

di Paolo Patrizi
  Fra Diavolo
Data di pubblicazione su web 24/10/2017  

Paradigmatico esempio di opéra-comique nel passato, ma da molto tempo più flatus vocis che lessico familiare del pubblico, Fra Diavolo di Auber oggi è sì e no conosciuto per un paio di brani sopravvissuti a due ore e mezzo di musica e, soprattutto, per l’esilarante adattamento cinematografico realizzato da Stanlio e Ollio a un secolo dalla première (1830 l’opera, 1933 il film). Le sporadiche riprese in epoca moderna hanno evidenziato più la vacuità drammaturgica dell’intreccio di Scribe che i pregi formali di una partitura centrifuga, dove ciò che conta non è l’unitarietà stilistica, ma l’aplomb nel fronteggiare di volta in volta stili diversi. Anche se nei finali d’atto colpisce come Auber abbia saputo coagulare in plasticità di resa tante diverse sollecitazioni.

Fra Diavolo, dunque, è oggi riservato più a un tenore mattatore che a direttori e registi capaci di scavare tra le pieghe di questa commedia avventuroso-sentimental-farsesca: insomma una sorta di Grand-opéra comique (Auber, con la sua Muette de Portici, vanta una primogenitura nel genere grandopéristico), soprattutto quando, in occasione delle riprese londinesi, fu ampliato, musicato nei recitativi parlati e tradotto in italiano, che oltremanica era la lingua franca del melodramma. In questa riproposta all’Opera di Roma il tenore mattatore c’era: e nessuno ne avrebbe dubitato dato il carisma, la personalità artistica, la tecnica vocale strabiliante di John Osborn. Meno prevedibile, invece, che si potesse avere una lettura musicale e registica in grado di superare le intrinseche debolezze della ditta Auber&Scribe e di restituire con rinnovato profumo le sue datate, un po’ appassite fragranze. Rory Macdonald e Giorgio Barberio Corsetti ci sono riusciti.

Un momento dello spettacolo ©
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama

Il primo, con sano pragmatismo e la consapevolezza che in Auber, capace di rimodulare di volta in volta il proprio linguaggio, la filologia è un’opinione, opta per un ibrido: lingua francese e versione “italiana”, mantenendo però, anche in base alle caratteristiche degli interpreti dello spettacolo, alcuni momenti dell’originaria edizione parigina. E i risultati danno ragione al direttore: l’orchestra romana suona molto bene (intonatissimi gli ottoni, spesso in primo piano) e la concertazione si affranca da quei rossinismi di maniera che sono l’aspetto più vistoso, ma pure più caduco della partitura, per concentrarsi sulla ricchezza ritmica e su un’inesausta dialettica dinamica.

Barberio Corsetti e la sua fitta rete di collaboratori (Massimo Troncanetti firma le scene insieme al regista, Francesco Esposito e Marco Giusti realizzano costumi e luci, responsabili dei video sono Igor Renzetti, Alessandra Solimene e Lorenzo Bruno) danno vita a uno spettacolo dove la multimedialità esalta la carica teatrale anziché prosciugarla. L’uso antirealistico dello spazio e l’intreccio di linguaggi visivi – congruo per una struttura musicale così variegata e un libretto dal plot così stratificato – sfociano in una vera e propria “scrittura scenica”, dove teatro e cinema, fumetto e cartone animato coabitano senza forzature e con costante divertimento. Non manca neppure una spruzzata ecologica: le scene sono di un materiale biodegradabile e realizzate (è la prima volta che accade in uno spettacolo operistico) con una stampante in 3D. Il che un po’ suona come un de profundis per l’antica scuola artigianale della scenografia italiana, un po’ è una finestra sul futuro. Ma comunque si voglia vedere la cosa, sta di fatto che tale impianto scenografico consente un effetto di deformazione che giova all’ironia surreale della messinscena.

Un momento dello spettacolo ©
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama

Il mito dei briganti, caro all’Ottocento francese, e quello di un meridione italiano suggestivo ma minaccioso (ben radicato in Auber, si tratti di Portici nella Muette o di Terracina nel Fra Diavolo) si stemperano in un’Italietta naïf e provinciale a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, con uno sguardo verso il neorealismo rosa e un altro rivolto alla commedia all’italiana: se nel primo atto l’ambiente paesano e il microcosmo dei carabinieri citano Pane, amore e fantasia, la decappottabile che, durante l’Ouverture, sfreccia lungo un rettifilo alberato discende senza fallo dal Dino Risi del Sorpasso. L’occhio spiante del cinema, insomma, fa spesso capolino in questo spettacolo: e non a caso, se pensiamo a quanto c’è di voyeuristico nel secondo atto dell’opera (Zerlina guarda compiaciuta le proprie forme allo specchio, gli altri la sbirciano dall’altra stanza). Ma tra affondi grotteschi e gag giocosamente assurde resta spazio pure per un finale “nero”: rifacendosi a un finale alternativo concepito da Scribe, Barberio Corsetti fa uccidere Fra Diavolo dai carabinieri, anziché farlo arrestare. Sicché la ripresa sgomenta e spettrale, al calar del sipario, della canzone del bandito qui sembra acquistare un più profondo significato.

Dell’enorme talento di Osborn si è detto. Il personaggio acquista uno spessore ignoto alla stilizzazione impressagli da Auber, il monologo che apre il terzo atto si trasforma da passerella di simpatico ma frivolo tenorismo a momento di gran teatro musicale. Le mezzevoci che pure nei momenti più suadenti non perdono nulla in timbratura, il calibratissimo uso del suono “misto” attraverso risonanze congiunte di petto e testa, l’arte ottocentesca (in Osborn rinfrescata da un gusto interpretativo squisitamente moderno) del falsettone rinforzato sono poi altrettanti tasselli di un edificio tecnico solidissimo.

Un momento dello spettacolo ©
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama

Gli altri interpreti restano indietro di varie spanne. L’unico che, senza poter tenergli testa, comunque non sfigura è proprio l’altro tenore, Giorgio Misseri: validissimo cantante “di grazia” ma niente affatto “tenorino”, dunque di timbro più chiaroscurato che diafano e con un registro acuto rispettabilissimo per forza di penetrazione. Fra Diavolo, però, richiederebbe soprattutto una primadonna in grado di gareggiare con il protagonista: mentre Anna Maria Sarra è corretta, volenterosa e scenicamente piccante quanto basta, ma circoscrive Zerlina a una dimensione soubrettistica, ancora molto settecentesca, che non esaurisce le potenzialità del personaggio.

La coppia comica baritono-mezzosoprano (i coniugi inglesi derubati dai briganti: lui con lo snobismo dei figli di Albione verso gli italiani, lei con la sindrome del “pittoresco” e affascinata dai loschi figuri) era incarnata da Roberto De Candia e Sonia Ganassi. Del primo dispiace dover registrare la sopravvenuta opacità vocale, unita a una pronuncia francese discutibile e alla mancanza di physique du rôle per un Milord inglese. La seconda, avvezza a parti protagonistiche, affronta il personaggio di Lady Pamela nel modo giusto: la voce appare un po’ in disordine, ma ancora importante; la presenza scenica è oggi più matronale, ma sempre sensuosa. Potrebbe essere l’inizio di una brillante seconda carriera: non più mattatrice, bensì caratterista di alto rango.

Pure i comprimari si fanno apprezzare. Jean Luc Ballestra e Nicola Pamio convincono nei panni di banditi pasticcioni (i due personaggi che, nel citato film, erano appunto interpretati da Stanlio e Ollio), mentre Alessio Verna è un basso di notevole autorità vocale, che riesce a imparentare il personaggino dell’oste Matteo ad altri più importanti ruoli di padri desiderosi che la figlia faccia un buon matrimonio sul piano finanziario: Rocco del Fidelio sembra quasi dietro l’angolo. Insomma, si torna a casa soddisfatti. E pronti a mettere nel lettore dvd il Fra Diavolo dei mitici Stan Laurel e Oliver Hardy.



Fra Diavolo
Opéra-comique in tre atti


cast cast & credits
 
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