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Senza complesso

di Paolo Patrizi
  George Enescu Festival
Data di pubblicazione su web 14/09/2017  

Approdato sulle scene una decina d’anni dopo Oedipus rex di Stravinskij, e precedente d’oltre un ventennio Oedypus der Tyrann di Orff, Oedipe di George Enescu è un’opera più antica di quel 1936 in cui vide la luce all’Opéra di Parigi. La gestazione durò circa un quarto di secolo (già all’inizio degli anni Dieci il compositore rumeno iniziava a lavorare attorno alla tragedia di Sofocle): e sarà uno di quei casi, al pari del tardo Wagner (stella polare di Enescu, assieme all’impressionismo musicale francese), in cui la lunga incubazione non recherà né contraddizioni né farragini, ma solo quella perfezione del capolavoro arrivato alla sua giusta stagionatura.

Poi, certo, venticinque anni di lavorazione qualche divergenza la creano. Giacché se il bel libretto francese di Edmond Fleg – che accorpa in un’unica campata narrativa Edipo re ed Edipo a Colono, consentendo così un finale catartico tradotto da Enescu con un diafano, lentissimo e davvero parsifaliano Sol maggiore – è figlio di quel neoclassicismo che rappresenta una precisa stagione d’inizio Novecento, l’esito musicale appare meno circoscrivibile in una temperie specifica. La partitura è “solo” quella di un grande classico del ventesimo secolo: post ma non antiromantico, pluristilistico non per virtuosismo estetico ma intrinseca necessità, moderno non perché “attuale” ma per l’eternità delle sue sollecitazioni drammatiche.


Nikolai Lugansky
© Alex Damian

Ne è consapevole Vladimir Jurowski, direttore artistico e musicale del Festival Enescu, la rassegna con cui dal 1958 Bucarest celebra il più illustre figlio della musica colta rumena: una kermesse dedicata essenzialmente al grande repertorio sinfonico (la sezione principale è intitolata Great Orchestras in the World e quest’anno vi si avvicendano, tra le altre, la London Philharmonic, la Israel Philharmonic e il Concertgebouw di Amsterdam), ma dove non manca spazio per la cameristica e l’opera in forma di concerto. Quello con Oedipe, anzi, è per ovvie ragioni un appuntamento ricorrente del festival, e Jurowski l’affronta restituendone tutto il substrato sinfonico-vocale: esaltando, cioè, la ricchezza dell’orchestrazione, ma pure senza prosciugare quella cantabilità che – ora per frammenti, ora a lunga gittata – è componente ineludibile della tragédie lyrique di Enescu. 

Gesto ampio eppure precisissimo, istrionico quanto basta ma sempre all’interno d’una mimica di plastica eleganza (è un piacere osservarlo mentre dirige), Jurowski – ormai ultraquarantenne – ha definitivamente compiuto il salto da giovane promessa a grande del podio. L’intesa con la London Philharmonic è perfetta e forse, con un’altra compagine, respiro lirico e respiro drammatico non sarebbero arrivati a una così perfetta confluenza: sta di fatto, comunque, che la partitura ne è uscita esaltata in ogni più prezioso dettaglio; che il tessuto contrappuntistico viene sviscerato con logica stringente e senza compiacimenti analitici; e che i cantanti sono stati perfettamente valorizzati e sostenuti, mostrando nel Jurowski concertatore anche la stoffa del “regista vocale” di razza. 


Vladimir Jurowski e Paul Gay
© Alex Damian

Il cast – con i suoi tredici ruoli, di cui nessuno può dirsi secondario – mostrava d’altronde un ottimo livello complessivo. Anche se forse, come in ogni tragedia greca che si rispetti, il personaggio più a fuoco era quello collettivo: fossero anziani ateniesi o sacerdotesse tebane, intonassero canti guerrieri o pastorali, i coristi del Coro Filarmonico Enescu s’impongono per amalgama canoro, scolpitura della frase, appiombo ritmico. Tra i solisti domina invece, inevitabilmente, l’Edipo di Paul Gay: baritono capace all’occorrenza tanto d’impennate tenorili quanto di affondi nel registro di basso (come si conviene a un personaggio-simbolo che deve arpeggiare su tutte le corde dell’essere umano), trascolorante con uguale proprietà dallo Sprechgesang al cantabile e capace di restituire in termine di puro suono perfino l’urlo disperato, che prelude all’autoaccecamento, con cui il protagonista scopre la propria incolpevole colpevolezza. Ne scaturisce un personaggio – così come lo concepirono Enescu e il suo librettista – meno archetipico e più intellettuale di quello sofocleo: si era in anni freudiani, quando Fleg scrisse il testo, ma questo Edipo più grande (nonostante tutto) del destino, e mai connivente con l’incubo che gli è toccato in sorte, è un Edipo “senza complesso”. 

Tra gli altri interpreti spiccano le rifrazioni sinistre e i riverberi ironici impressi da Ildikó Komlósi agli enigmi della Sfinge, la rocciosità prosciugata cui il Tiresia di Willard White affida il suo canto di veggente inascoltato, la tonda e pastosa baritonalità impressa da In Sung Sim all’araldo Phorbas; e fa piacere ritrovare in buona salute vocale una veterana come Felicity Palmer nei panni della madre adottiva Merope. Detto che l’amor filiale di Antigone è reso con lirica gentilezza dal soprano Gabriela Iştoc, e che pure i tenori si difendono bene (Marius Vlad Budoiu plasma un Laio giustamente più tracotante che paterno, Graham Clark è abile nel flettere la propria voce usurata ai timori e ai risentimenti del Pastore), si poteva forse chiedere qualcosa di più alla Giocasta – comunque corretta – di Ruxandra Donose. Sicché, alla fine, a lasciar perplessi è solo il Creonte di Christopher Purves: più bisbigliato che fraseggiato, troppo incline a risolvere nel sussurro la malvagità dello zio-cognato di Edipo.

Vladimir Jurowski e Paul Gay © Alex Damian
Un momento dello spettacolo
© Alex Damian

Il giorno seguente ha rivisto Jurowski alla guida della London Philharmonic in un programma anch’esso parzialmente operistico. Il concerto, infatti, si apriva con il Preludio del Tristano, creando così un ponte tra l’Enescu “wagnerista” della sera prima e il Wagner tout court: e se Jurowski, forse, non ha ancora conquistato una piena idiomaticità wagneriana, piace la logica serena con cui dipana – senza pretendere di svelarne il mistero – l’ineffabilità del Tristan Akkord, il suo affidarsi non tanto al “tempo sospeso” di quella suprema ambiguità tonale quanto, piuttosto, a una narrazione musicale cullante e sciabordante, anticipazione dell’ambiente marino che intriderà l’opera. Quanto al Concerto per violino di Berg (il secondo brano in programma), Jurowski preferisce evidenziarne il pathos più che la sapienza destrutturante: se solo nel Wozzeck il compositore austriaco riuscì a parlare simultaneamente alla testa, al cuore e alla pancia dell’ascoltatore (in tutti gli altri casi preferì parlare alla sola testa), Jurowski proprio a quell’irripetuto capolavoro berghiano sembra, anche qui, voler guardare. E vi è riuscito grazie alla perfetta unità d’intenti con il solista Christian Tetzlaff, alla «serena disperazione» – come direbbe Umberto Saba – che scaturisce dal suo violino. 

La totale empatia tra bacchetta e partitura, però, scatta nella seconda parte del concerto, quando il direttore affronta la Sinfonia n. 11 di Sostakovic. Di questo classico della musica a programma del Novecento (l’argomento è la repressione zarista a Pietroburgo nel 1905, che il cinema immortalò nella Corazzata Potëmkin) Jurowski rende alla perfezione l’agghiacciante calma iniziale, il crescere progressivo della tensione, l’esplosione del bagno di sangue. La sua lettura evita qualsiasi cesura tra i quattro movimenti: innervando in un unico continuum narrativo l’Adagio e l’Allegro che rievocano i fatti e i successivi Adagio e Allegro non troppo che rappresentano il momento della riflessione, mettendo così su uno stesso piano cronaca ed ermeneutica. Ed è un modo impeccabile di rendere quello straziante senso della Storia che permea la musica di Sostakovic.


Ildiko Komlosi (la Sfinge)
© Alex Damian

La terza serata (ma il festival si protrae per tre settimane) portava alla ribalta la Russian National Orchestra. Nuovamente sotto il segno di Enescu, per cominciare: Isis è un poema sinfonico incompiuto che si riallaccia a un filone misterico – il culto di Iside, nella fattispecie – assai in voga in certa musica colta novecentesca. Vi si gioca la carta di un’orchestrazione trasparente e riverberata (con l’apporto suggestivo di un coro nella sua sola compagine femminile), forse anticipatrice del Ligeti di Lux aeterna: direttore di gesto più scabro ma non meno incisivo di Jurowski, Mikhal Pletnev ne restituisce tutte le magie e gli eventuali manierismi. Mentre il Prokofev che segue (tanto quello giovanile del Concerto per pianoforte n. 3 quanto quello maturo della Sesta Sinfonia) appare scattante nella ritmica, tecnicistico ma con ironia, senza incoerenze nell’andamento deliberatamente rapsodico. E con un solista – Nicolai Lugansky – così abile da occultare l’artificiosità con cui, in quel brano, Prokofev fa dialogare orchestra e pianoforte.



George Enescu Festival. Oedipe



cast cast & credits
 
trama trama

George Enescu Festival
George Enescu Festival
di Bucarest
2-24 settembre 2017


 
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