Tra
i tantissimi esordi nel concorso principale della 74a Mostra di
Venezia quello di Xavier Legrand (fino
a oggi attore teatrale e cinematografico) era forse quello che suscitava minori
aspettative, anche perché Jusquà la
garde è la sua opera prima, preceduta solo da un corto, Avant de que tout perdre, di cui si può
dire essere la diretta emanazione: lo stesso cast, la stessa dinamica narrativa
e la stessa tematica di forte impatto, ovvero quella violenza domestica (che i
francesi, più precisamente, chiamano violence
conjugale) che rappresenta una vera e propria piaga sociale, anche e
soprattutto nella “civilizzata” Europa.
Myriam
e Antoine Besson stanno divorziando. Il film si apre con ludienza chiesta da
Myriam per ottenere laffido esclusivo di Julien, il loro figlio minorenne,
mentre laltra figlia, Josephine che ha appena compiuto diciotto anni, ha già
scelto di vivere con la madre. Assistiti da due giuriste i due presentano punti di vista opposti: da una parte viene denunciata
la necessità di sottrarre il bambino a una persona violenta e pericolosa,
dallaltra si cerca di evidenziare come il ruolo della madre, a causa di
rancori personali, sia ingiustificatamente manipolatorio verso i figli riguardo
alla figura del padre, adombrando anche lidea di un certo lassismo della donna
nella loro educazione. La giudice decide per un affido congiunto per cui il
padre potrà trascorrere con il figlio un fine settimana ogni due; questa
decisione, apparentemente equilibrata, innescherà una serie di conseguenze che
né i genitori, né tantomeno il piccolo Julien saranno in grado di gestire.
Una scena del film
“Necessario” è laggettivo riferito a film come questo: ci sono problemi di cui è doveroso occuparsi e ogni occasione per portarli allattenzione è da considerarsi giustificata. Ma il rischio è affrontare il tutto secondo una tesi precostruita e voler guidare lo sguardo dello spettatore allinterno della tesi. È il caso di tanta parte del cinema di Ken Loach, cui Legrand sembra guardare con un certo interesse anche formale. Lo stesso succede in Jusquà la garde dove, alla fine, si ha la netta impressione che la sceneggiatura, scritta dallo stesso regista, finisca per prevalere sulla messa in scena. La situazione infatti appare subito chiara fin dalle prime inquadrature, a partire dallimpatto che i due protagonisti hanno sullo spettatore. La minuta figura di Léa Drucker è irrigidita in unespressione a metà strada tra il rancore e la paura, mentre la fisicità debordante e lo sguardo tagliente di Denis Menochet lasciano fin da subito pochi dubbi sulla sua natura violenta. Un personaggio che anche i dialoghi ingabbiano nello stereotipo del maschio autoreferenziale e possessivo, sempre pronto a sottolineare con gli aggettivi “mio” e “mia” la sua potestà sui figli, fino allesplosivo “mia moglie” finale. E certo non basta a Legrand indugiare talvolta sul punto di vista di Julien (un efficacissimo Thomas Gioria) per fare “respirare” più liberamente il testo. Tuttavia il film riesce a mantenere il suo carattere “necessario”, creando empatia verso i personaggi.
Una scena del film
Tra
le opere in concorso, Jusquà la garde
era probabilmente quella in cui venivano riposte le minori attese, una sorta di
Cenerentola relegata allultimo posto del programma. Eppure,
forse proprio per lattualità dellargomento trattato, le scelte delle giurie lhanno
portata essere la più premiata: Leone del futuro per la miglior opera prima e
Leone dArgento per la miglior regia. Il primo Leone è ampiamente giustificato
dalla solidità, soprattutto tematica, del film, chiara dimostrazione delle
possibilità del suo autore. Più sorprendente è il riconoscimento a una regia tutto sommato ancora non
perfettamente strutturata, con pochi veri lampi di cinema. Si veda il piano
sequenza che ci accompagna nella festa di compleanno di Josephine. Senza
dimenticare la bella inquadratura finale: improvvisamente ci troviamo sbalzati
nella soggettiva della vicina di casa della protagonista che, chiudendo la
porta, manda “a nero” unimmagine che si fa filmicamente inquietante.
In un concorso in cui non mancavano grandi maestri
con grandi film, come Schrader e Wiseman, oppure autori che hanno
dimostrato di attraversare un periodo particolarmente felice, come Koreeda, Kechiche, Haig e McDonagh, premiare la convenzionalità
di Legrand può sembrare francamente eccessivo.
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