Nel
1924 Arthur Schnitzler scrive il
romanzo breve La signorina Else, una
forte critica allipocrisia della decadente società viennese a lui
contemporanea. Il testo, non pensato per il teatro, viene messo in scena per la
prima volta nel 1987 dal regista belga Thierry
Salmon in un discusso allestimento.
Oggi
è Federico Tiezzi a proporre una sua
lettura dellopera, in anteprima nazionale dal 13 giugno al 2 luglio 2017 nellambito
del Pistoia Teatro Festival (alla sua prima edizione). Il regista aretino, che
collabora da anni con lAssociazione Teatrale Pistoiese, si era già confrontato
con lo scrittore austriaco nel 2014 lavorando su Il ritorno di Casanova (1918) – spettacolo ancora in tournée.
La traduzione dal tedesco è di Sandro Lombardi e la
drammaturgia è stata composta a più mani dallattore con Tiezzi e Fabrizio Sinisi. In scena la
giovane attrice Lucrezia Guidone – scoperta da Ronconi – protagonista assoluta
affiancata da Martino dAmico che
interagisce con lei ora nei panni di spettatore attento, ora in quelli del
viscido Von Dorsday.
Un momento dello spettacolo
© Luca Manfrini
Il
luogo deputato allazione scenica è il Teatrino anatomico dello Spedale del
Ceppo, un piccolo gioiello storico databile intorno al 1770-1780, composto da due
locali: unanticamera e un anfiteatro, progettato originariamente per la “ostensione”
anatomica. Le pareti laterali ospitano dei banchi sopraelevati in marmo dove sedevano
allora otto studenti di chirurgia e dove oggi un numero limitato di spettatori può
assistere alla mise en éspace firmata
da Gregorio Zurla.
Quello
spazio si fa, nellhic et nunc teatrale,
luogo della mente di Else coabitato da sogni, paure e desideri nascosti,
consapevolezze, luci e ombre di unanima scissa del contesto della società
viennese degli anni Dieci-Venti del Novecento. Chi è Else? Una giovane ragazza
appena diciannovenne, ancora divisa tra giochi dinfanzia e pulsioni sessuali,
costretta a barattare la propria spensieratezza con una maturità forzata e
brutale. Durante una vacanza da parenti al Grand Hotel di San Martino di
Castrozza, riceve una lettera dalla madre in cui le viene chiesto di vendersi
al Barone Von Dorsday per salvare il padre giocatore dazzardo. Comincia così
la lotta tra la mente e il corpo di Else che rivive, soltanto per noi, pochi
spettatori scomodi, il rigurgito della propria anima che si ribella a una tale
violenza.
Il coinvolgimento dello spettatore è immediato.
Si procede nellanticamera del teatrino su un manto erboso, accompagnati dalla
musica live di un piccolo ensemble da camera:
pianoforte (Omar Cecchi), violoncello (Dagmar Bathmann) e clarinetto (Dusan Mamula). Ci si accomoda
nellanfiteatro dove Else giace inerte sul tavolo di marmo al centro della
stanza, nascosta da un lenzuolo bianco macchiato del sangue blu della sua
nobiltà danimo; lerba sotto i piedi diventa specchio. Una figura vestita di
nero con la testa di coccodrillo svela quello che resta di Else, il suo
cadavere. Abituati alle immagini di morte continuamente imposte dai media, la guardiamo
con rassegnazione fino a che la giovane donna comincia a emettere
faticosamente, quasi in preda a spasmi, parole che sembrano lottare per
arrivare sino a noi.
Un momento dello spettacolo
© Luca Manfrini
Il
flashback inizia non appena quel
corpo redivivo spalanca gli occhi sedendosi. Alla parola “papà” siamo
catapultati nel passato, quando tutto ebbe inizio. Il racconto di Else ci
immerge totalmente nella sua dimensione onirica quasi allucinogena, col transfert del monologo interiore.
Il
dottore, seduto, scrive appunti sul suo libriccino nero. Ha tutti i vezzi del personaggio:
è vestito di tutto punto, con degli occhialini che pulisce continuamente; è
posato come un gentleman tedesco.
Solo quando le pulsioni si fanno incontenibili, egli rivela il proprio lato
mostruoso. Il nostro sguardo passa attraverso il filtro di Else, ogni oggetto
evocato dalla sua mente si manifesta attraverso oggetti-giocattolo: il
pianoforte su cui si dilettava a suonare, la casa delle bambole, e così via.
La
vicinanza dei primi piani del volto, a tratti quasi “cinematografica”, ci
costringe a viverne la disperazione e langoscia che gradualmente la portano
alla fatale scelta di togliersi la vita. Siamo coinvolti in un vero e proprio tęte-à-tęte con lattrice, sotto forma
di seduta psichiatrica nella quale la paziente è vivisezionata per noi. Accade
proprio lì: sullo stesso tavolo dove quattro secoli fa venivano studiati i
corpi umani. Ed è in questa piccola “tomba” di marmo che, respirando
affannosamente un ossigeno sempre più assente, finiamo per morire insieme a
lei, feriti dalla nostra stessa colpa di spettatori immobili e giudici. Il
flusso di pensieri è interrotto soltanto dalle allucinazioni indotte dal
vagheggiato uso di droghe e dallabuso di Veronal (“arma” eletta per il suicidio): inquietanti
conigli giganti in abito scuro. Seduti lì, dentro alla mente di Else, non siamo
né migliori né peggiori di Von Dorsday, luomo che in cambio di cinquantamila fiorini
le chiede di poterla vedere nuda. Possiamo solo immaginarla mentre decide di
mostrarsi a tutto lalbergo prima di morire, gesto ultimo ed estremo di
unanima votata al sacrificio.
Un momento dello spettacolo
© Luca Manfrini
Così
lo specchio e il riflesso sul pavimento non fanno altro che raddoppiare la
condanna di Else a vittima e laccusa verso di noi complici di una società che
la calpesta, come i garofani recisi che circondano il suo letto di morte. La
mano sicura di Tiezzi ha scavato così a fondo nel testo di Schintzler da
ricrearne alla perfezione le atmosfere tetre e il senso di soffocamento interiore. Guidone è magistrale nel restituire le due
anime di Else con registri recitativi paralleli: da bambina innocente a donna
seducente e disperata, la prima con una voce chiara e ingenua, la seconda con
il suono profondo e suadente della femme
fatale.
Lo spettacolo funziona
in ogni suo dettaglio e il pubblico lo ha apprezzato molto a partire dal luogo
insolito dellallestimento, carico di suggestioni e animato dalla bravura dei
due attori. Nellultima replica (2 luglio) agli spettatori è stato fatto
indossare un camice verde da chirurgo, per rafforzarne il senso di complicità e
compartecipazione.
Una
domanda trova forse così la sua risposta: i veri protagonisti della messinscena
siamo noi.