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Tutto d’un pezzo, ma con due anime

di Paolo Patrizi
  Andrea Chénier
Data di pubblicazione su web 02/05/2017  

Retorico, tribunizio, tutto d’un pezzo? Dipende dai punti di vista. A metà strada tra vicenda privata e affresco storico, verismo rampante e residue suggestioni romantiche, pittura d’epoca e sollecitazioni politiche contemporanee (alla Rivoluzione francese descritta nel libretto non erano estranei gli avvenimenti repressivi contro i Fasci dei Lavoratori in Sicilia e gli anarchici in Lunigiana, di palpitante attualità quando nel 1896 l’opera debuttava in palcoscenico), Andrea Chénier è, di fatto, un melodramma dall’anima divisa in due. Affidarne un nuovo allestimento a Marco Bellocchio – che delle contraddizioni della Storia e delle dissociazioni dell’intimo ha fatto l’asse portante della propria cinematografia – è stata, da parte del Teatro dell’Opera di Roma, una scelta oculata.


Un momento dello spettacolo © Yasuko Kageyama
Un momento dello spettacolo 
© Yasuko Kageyama

Salvaguardando sia il romanzesco popolare al centro della partitura di Giordano sia quel decorativismo minuzioso che, con qualche dissonanza rispetto all’afflato sintetico del compositore, informa il libretto di Luigi Illica, Bellocchio li travalica entrambi: il risultato è uno Chénier di sguardo cinematografico nelle scene di massa, eppure fondamentalmente antirealistico. Grazie alle scene di Gianni Carluccio, autore anche di un astratto e “psicologico” disegno luci, il regista impagina un Settecento efficacemente schematico, molto riuscito nel transito da un primo atto (quello Ancien régime) ancora ornamentale a un resto dell’opera (quando ci si proietta in pieno Terrore) assai più stilizzato, per approdare a un finale diacronico e visionario che è un gran bel colpo di teatro. Senza sovrapporsi ideologicamente al racconto, e valendosi di pochi segni sparsi sottotraccia, Bellocchio restituisce alla perfezione il tema (in partenza capitale nell’Andrea Chénier, ma che Giordano stempera nelle urgenze di una grande storia d’amore) delle utopie tradite e della rivoluzione madre-matrigna, che divora i suoi figli annientando gli intellettuali che l’hanno appoggiata: argomento, d’altronde, da sempre caro al regista dei Pugni in tasca.

Anche Roberto Abbado, dal podio, mira ad asciugare l’opera da certi eccessi di tradizione e a ricondurla in un alveo che non sia solo quello del verismo. Lo fa, però, con una sensibilità diversa da Bellocchio e, soprattutto, approdando a risultati meno convincenti. Laddove il regista stilizza, il direttore raffredda. Se Bellocchio racconta, Abbado sminuzza. La castigatezza emotiva, sulla distanza, qui si traduce in anestetizzazione delle emozioni. Mentre il senso del dettaglio che caratterizza la sua concertazione frantuma la partitura, più che metterne a fuoco tutte le componenti, senza peraltro che tale analiticità – sul piano vocale – renda giustizia a quegli sgretolamenti strutturali in cui Giordano era maestro, al suo gusto di far proseguire il periodare canoro anche dopo l’apparente conclusione della pagina. Nemico della patria e La mamma morta continuerebbero oltre il punto in cui scattano il vertice emotivo e, di solito, l’applauso: ma dalla lettura di Abbado (almeno in questo tradizionale, e non nel senso migliore del termine) è difficile avvertirlo.


Un momento dello spettacolo © Yasuko Kageyama
Un momento dello spettacolo 
© Yasuko Kageyama

Se pure dal palcoscenico si respira comunque un’aria nuova (difficile dire “fresca”, per le ragioni anagrafiche che vedremo), è perché il protagonista esordiva nel ruolo. A sessantatré anni Gregory Kunde arriva dunque vergine al personaggio di Chénier: un debutto che lascia ammirati non solo per la volontà di sperimentazione del cantante, che dopo quasi quarant’anni di carriera continua a mettersi in gioco con sfide sempre nuove, ma anche per la validità intrinseca dell’esito. Il suo excursus da tenore contraltino a baritenore, e da questo a tenore grandopéristico, tardoverdiano, verista e perfino britteniano, si arricchisce oggi d’un rilevante tassello: per l’empatia autentica che Kunde mostra con la civiltà vocale della “Giovane scuola”, per quella perfetta congiunzione tra grande cuore e grande personalità che sola può garantire una calzante raffigurazione di Andrea Chénier.

Che poi un tenore ultrasessantenne possa avere qualche cedimento fonico – tanto più in una tessitura scabrosa come questa – rientra fra gli inconvenienti prevedibili, ma Kunde li aggira nel modo migliore. La stessa sopravvenuta disomogeneità dello strumento (dovuta non solo all’età, ma ai molti anni di frequentazione con il repertorio baritenorile rossiniano) torna utile a valorizzare certi trapassi: ad esempio, il passaggio dalla magniloquenza dell’incipit di Sì, fui soldato al tono trasognato della frase «Passa la vita mia come una bianca vela». E l’ottimo dominio tecnico gli consente di evitare quelle cautele – uno Chénier cauto è una contraddizione in termini – proprie dei cantanti che, sapendosi non più in piena forma, soppesano al bilancino slanci ed energie.


Un momento dello spettacolo © Yasuko Kageyama
Un momento dello spettacolo 
© Yasuko Kageyama

Qualche eccesso di prudenza, semmai, si può riscontrare nel Gérard plasmato da Roberto Frontali, di pochi anni più giovane di Kunde. I grandi momenti solistici vengono onorati con una non trascinante correttezza, mentre altri squarci di solito più defilati – soprattutto nello scontro con Maddalena nel terzo atto – lasciano intuire un interprete tutt’altro che pallido. La voce ha perso molto in termini timbrici, e solo il registro acuto mantiene ancora la dovuta risonanza, ma si tratta pur sempre d’un baritono di ottima scuola, tanto omogeneo nell’emissione quanto chiarissimo nella dizione. Più generica la prova di Maria José Siri, che non rende il transito dalla Maddalena di Coigny aristocratica e viziata del primo atto a quella perseguitata e allucinata del resto dell’opera; e anche sul piano vocale, quando Giordano sollecita le zone più gravi, la parte viene resa con qualche approssimazione.

Quanto alle numerosissime parti di fianco, è vero quanto detto dal direttore artistico dell’Opera di Roma in sede di conferenza stampa: la scelta dei comprimari dell’Andrea Chénier è un termometro per dare il voto a chi fa i cast. A giudicare da questo spettacolo la direzione del teatro capitolino si merita un bel “sette più”, non il “dieci e lode”: ottimi elementi si alternano ad altri meno adeguati. Ma piace ricordare almeno lo spessore quasi coprotagonistico della Bersi di Natascha Petrinsky (d’altronde Illica aveva concepito il ruolo come “seconda donna”, fu Giordano a ridimensionarlo), la vocalità robustissima del baritono Gevorg Hakobyan (un Mathieu che è già un Gérard bell’e pronto), il talento camaleontico di Graziano Dallavalle, credibile quale mellifluo Fléville nel primo atto non meno che come implacabile Fouquier-Tinville nel terzo. Soprattutto, però, spicca l’inossidabilità della veterana Elena Zilio: una vecchia Madelon icasticissima. Ma – attenzione – così credibile non perché di voce “naturalmente” senile, bensì in virtù di un tecnicismo e una stilizzazione (senza i quali il canto operistico non è tale, nemmeno nel verismo) che consentono di raffigurare con compiutezza l’idea di senilità.




Andrea Chénier



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Il regista Marco Bellocchio
Il regista 
Marco Bellocchio




Il direttore d'orchestra Roberto Abbado
Il direttore d'orchestra Roberto Abbado

 
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