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Quando amore non vuol dir gelosia

Paolo Patrizi
  La scuola de’ gelosi
Data di pubblicazione su web 16/01/2017  

Il titolo è un plateale omaggio al Molière dell’École des maris e L’école des femmes, ma Antonio Salieri e il suo librettista Caterino Mazzolà, quando nel 1778 diedero vita al «dramma giocoso in due atti» La scuola de’ gelosi, ebbero antenne sintonizzate sul presente più che occhi rivolti al passato: se accensione della vis comica e forza della capacità di osservazione appaiono molieriane (filtrate però da uno schematismo psicologico poco riconducibile all’autore di Tartuffe), la globalità dell’impianto e il retrogusto da conte philosophique sono figli del secolo dei Lumi.

La comicità abbinata ai fremiti dell’eros era nell’aria: Mozart e Da Ponte, pochi anni dopo, l’avrebbero fatta assurgere alle vette del sublime. Ma nulla nasce dal nulla, come mostrano le sotterranee anticipazioni – ampiamente disseminate nella Scuola de’ gelosi – di Così fan tutte (l’idea di “esperimento amoroso”), delle Nozze di Figaro (l’uso metaforico, in orchestra, dei corni), di Don Giovanni (la tirata del sospettosissimo marito protagonista preannuncia il «Faccia il nostro cavaliere / Cavaliera ancora te» di Masetto); e se, al di là delle leggende poi ricamate al riguardo, Salieri verrà schiacciato da Mozart, almeno Mazzolà dovrebbe riottenere il suo diritto di primogenitura rispetto a Da Ponte. Anche se forse è vero, come diceva Borges, che ogni grande scrittore crea i suoi predecessori.


Un momento dello spettacolo
© Stefano Binci

A corroborare una rivalutazione di quest’opera c’è poi l’interesse che suscitò in Goethe: non perché le sue opinioni musicali fossero infallibili (d’errori di valutazione in materia ne fece molti), ma perché La scuola de’ gelosi restituisce sollecitazioni drammaturgiche care alla Weimar goethiana. Autentico climax musicale e teatrale della partitura, il quintetto della partita a carte – dove l’inconfessata posta in gioco è una donna – sembra anticipare l’analoga scena del biliardo nel Wildschütz di Lortzing: gioiello dell’opera comica tedesca che segue, sì, di oltre sessant’anni il dramma giocoso di Salieri, ma alla cui radice c’è una commedia di Kotzebue. Ossia uno degli autori di punta, sebbene all’interno dei “minori”, nella vita teatrale weimeriana.

Dunque un gioco sottile di anticipazioni e rimandi, che richiede – al concertatore non meno che al regista – capacità di mediazione, consapevolezza culturale, pertinenza stilistica: e in questa prima rappresentazione dell’opera in tempi moderni (ma l’anno scorso ha avuto luogo un’incisione discografica tedesca diretta da Werner Ehrhardt), frutto di una coproduzione tra sei teatri (la recensione dà conto d’una recita tenuta a Jesi), tali desiderata venivano ottemperati. Giovanni Battista Rigon è bacchetta agile e scattante, sensibile più al ritmo teatrale che all’anatomizzazione della struttura: ne sortisce una lettura musicale che, sottolineando i frequenti cambi di tempo della partitura (e potendo contare sulla duttilità di un ensemble classico-barocco come I Virtuosi Italiani), rende giustizia alla briosità del lavoro senza indugiare sull’andamento paratattico dei suoi numeri. Anche sui cantanti, soprattutto quanto a dizione e modanatura dei recitativi, il concertatore dà l’idea di aver insufflato giusta vivacità; e piacciono certe estemporanee citazioni mozartiane che – un po’ per celia, un po’ per non morire – Rigon si riserva al cembalo, rendendo palpabile, anziché ideale, il ponte tra La scuola de’ gelosi e la trilogia di Da Ponte.


Un momento dello spettacolo
© Stefano Binci

Se il direttore guarda a Mozart, il regista non dimentica Goethe. Leggiadro e discreto, lo spettacolo di Italo Nunziata e dei suoi collaboratori Andrea Belli (scenografo) e Valeria Donata Bettella (costumista) s’informa proprio a quella «varietà trattata con gusto delicato» con cui il Vate di Weimar motivava la sua ammirazione per quest’opera: lo straniamento della gelosia, e la vacuità delle sue motivazioni, si traducono in un impianto scenico antinaturalistico (singoli e mobilissimi elementi piuttosto che una scenografia unitaria) dove si “gioca” con i sentimenti anziché raccontarli; i costumi sdoganano, in luogo del diciottesimo secolo lombardo descritto nel libretto, un primo Novecento vagamente oscarwildiano memore degli equivoci coniugali del Ventaglio di Lady Windermere; e il fatto che a dar volto alla possessività incontrollata del villano arricchito Blasio e ai più temperati rovelli dell’aristocratico Conte Bandiera ci siano, rispettivamente, la pelle gialla del baritono coreano Byongick Cho e quella nera del tenore congolese Patrick Kabongo restituisce alla perfezione – meglio di qualunque Regietheater – interclassismo e transnazionalità della gelosia.

Dei sette interpreti, tutti giovani o giovanissimi, solo tre erano italiani: la giusta proiezione del testo poteva scapitarne, ma si è detto dell’eccellente lavoro svolto su pronuncia e dizione. Poi, certo, non in tutti l’accento era ugualmente saporoso e pregnante; ma non si può negare che il coreano Cho sia un “buffo” di ottima presenza timbrica e scioltissimo recitar cantando. Semmai c’è ancora da ovviare a qualche disuguaglianza di emissione – soprattutto nel registro superiore – in Kabongo, comunque provvisto dell’aplomb da malinconico viveur richiesto dal suo personaggio. A spiccare, però, è in primo luogo la Contessa di Francesca Longari: che onora il ruolo di gran lunga più arduo (un’aria, nel secondo atto, degna del miglior Mozart concertistico) con un canto terso, levigato e scorrevole, ma sempre ben timbrato, e dominando la corda patetica abbinandola ad affondi da autentica commediante.


Un momento dello spettacolo
© Stefano Binci

Eleonora Bellocci è una “seconda donna” in odor di coprotagonismo, spiritosa e spigliata senza che la precisione musicale venga meno. In Manuel Amati si è potuto ascoltare un tenorino freschissimo (vent’anni), ma non acerbo. Qianming Dou e Ana Victoria Pitts plasmano una coppia comico-plebea (servo poltrone e servetta scaltra) simpatica, seppure non del tutto a fuoco. Ma, al di là di graduatorie o preferenze, ciò che più s’imprime nella memoria è l’omogeneità dell’insieme e un vivido lavoro di squadra.



La scuola de’ gelosi



cast cast & credits
 
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Lo spettacolo per la regia di Italo Nunziata di scena al teatro Pergolesi d Jesi
© Stefano Binci












































Francesca Longari e Patrick Kabongo in un momento dello spettacolo
© Stefano Binci

 
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