Amos Gitai, nel programma di sala dellOtello rossiniano
che ha inaugurato la nuova stagione del San Carlo, sostiene di aver accettato
questa sua prima regia operistica misurandosi con un lavoro che non conosceva e
allo scopo, semplicemente, di apprendere qualcosa di nuovo. La dichiarazione
profuma dumiltà e avventatezza al tempo stesso: ogni spettacolo, per chi lo
fa, è un accrescimento di conoscenza, ma un regista dovrebbe dominare
allorigine la materia che affronta. Ne scaturisce un esperimento, un
circumnavigare la drammaturgia del testo musicale anziché affrontarla
direttamente: e, sotto questo aspetto, che il testo in questione non sia lOtello
verdiano, ma quello meno familiare di Rossini,
rappresenta un vantaggio.
Allopposto di Verdi, che
troverà in Shakespeare la sua stella
polare, Rossini realizza infatti unoperazione più mediata, dove lOtello
del Bardo inglese è riferimento inevitabile ma indiretto e le sorgenti primarie
sono altre, dalladattamento di Jean
François Ducis (solo dun quarto di secolo precedente lopera rossiniana) a
quella novellistica italiana cinquecentesca che della tragedia shakespeariana
fu la fonte. Ed è proprio questo lavoro di filtraggio, da parte di Rossini,
dun classico ormai da tutti metabolizzato che consente oggi a Gitai uno
spettacolo allinsegna delle contaminazioni: scene di Dante Ferretti sempre
classiche e sontuose, ma oscillanti tra il calligrafico (il palazzo veneziano
della seconda parte dellopera) e levocativo (linterno di veliero su cui si
apre il primo atto); costumi moderni di Gabriella
Pescucci, non privi però di eleganti
affondi timeless; regia del tutto tradizionale nellimposto della
recitazione (cantanti perlopiù statici e al proscenio), ma incentrata
sullattualizzazione della vicenda.
Una scena dello spettacolo © Luciano Romano
Otello qui si trasforma in un migrante di oggi, che sbarca in un paese
militarizzato costruendosi un prestigio, ma non unintegrazione, grazie
allarte della guerra; e lidea, originale o banale che la si consideri, ha un
suo fondamento: al contrario del Moro di Venezia ritratto da Verdi, quello di
Rossini e del suo librettista Francesco
Berio di Salsa è un condottiero
tuttaltro che socialmente inserito nella nazione di cui è stato il salvatore
(al doge, che gli chiede quale premio desideri, risponde «Mabbia lAdria qual
figlio, altro non bramo», mentre Jago commenta «Che superba richiesta!»). La
discriminazione razziale, insomma, è una componente più pressante in Rossini
che in Verdi, il cui Otello punta soprattutto sullaltissima statura
etica del protagonista e la tanto più devastante forza distruttiva della sua
gelosia. Come a dire che se Verdi racconta un uomo, di spessore eccezionale nel
bene e nel male, Rossini – per Gitai – espone invece un caso sociale.
In questa prospettiva, Otello poteva diventare loccasione per
raccontare la grande Storia attraverso le dimensioni del mito e dellarchetipo:
come appunto accadeva in certi film del primo Gitai (Esther, Golem),
non ancora votato a una cinematografia di taglio essenzialmente
documentaristico. Purtroppo, lostentata verginità del regista israeliano
rispetto al linguaggio operistico si è risolta in una messinscena ondivaga: che
non coagula in resa plastica unitaria il valore dei singoli contributi (le
scenografie, anzi, rischiano di sembrare inutilmente dispendiose); in cui certe
scritte che scorrono “a sostegno” della morale politica dello spettacolo
appaiono didascaliche, anziché pregnanti; e dove gli inserti filmati dallo stesso
Gitai (barconi, elicotteri…) non contraddicono la finzione teatrale né entrano
in dialettica con essa, ma hanno solo un sapore posticcio (e risultano
antimusicali, nel caso dellinterminabile proiezione collocata tra sinfonia e
inizio dellopera).
Una scena dello spettacolo © Luciano Romano
Aver avallato queste sovrapposizioni è lunico torto imputabile alla
concertazione di Gabriele Ferro, accolta da dissensi spiegabili
solo con il dilagare, da alcuni anni in qua, dun petit style
rossiniano (leggerezza fonica al limite dellinconsistente, fraseggio duna
nitidezza ai confini del vacuo) che sta rendendo insensibili a qualunque
Rossini di più consistenti ipotesi sonore. Ben servito dagli archi – e un po
meno dai fiati – del San Carlo, Ferro appronta invece una lettura cupa nelle
sonorità, fosca nella timbrica e dilatata nei tempi, con unorchestra sempre
felicemente in primo piano e mai sussidiaria rispetto al canto.
Lampia spaziosità del fraseggio, del tutto pertinente in una partitura
di vasto respiro (Verdi racconta il dramma di Otello in due ore, Rossini
impiega circa quaranta minuti di musica in più), non impedisce daltronde a
Ferro di restituire tutta la tachicardica sinteticità – quella sì, in un certo
senso, verdiana – del finale dellopera. Mentre la relativa pesantezza del suo
braccio (almeno rispetto a certi Rossini iperdinamizzati di oggi) che potrebbe
trapelare nellouverture è, sulla distanza, del tutto funzionale. La
sinfonia dellOtello, infatti, è in gran parte la medesima del Turco
in Italia; e la scarsa leggerezza impressa dal direttore rende bene il
transito di una stessa musica dal contesto di unopera buffa a quello di
unopera tragica.
Più incline al “peso” che alla “leggerezza” – nel senso ideale dei due
termini di cui parlava Calvino nelle
Lezioni americane – anche il cast vocale: e se si pensa che oggi la Desdemona rossiniana è
appannaggio del minimalismo squisito e manierato di Cecilia Bartoli, ad ascoltare Nino
Machaidze emerge non tanto un altro
personaggio, quanto un differente mondo espressivo. La cantante georgiana restituisce
larchetipo del “soprano Colbran” – in pratica, un mezzosoprano acuto –
dimostrandosi non lennesimo soprano depauperato nellottava superiore (anche
se proprio questo la Colbran era), ma una
voce scura e flessibile, mezzosopranile per timbro brunito e sopranile per
ampiezza destensione. Desdemona esce dal cliché angelicato e remissivo
per riappropriarsi di drammaticità e sensualità: è una questione insieme di
colore e accento (e anche di presenza scenica, certo), allinterno, peraltro,
duna linea canora ben consapevole dei necessari affondi elegiaci. Se i fan
della Bartoli – forse – censureranno, gli spettatori di più lunga memoria
ritroveranno molto della lezione di Virginia
Zeani: prima Desdemona rossiniana in età moderna, quando lOtello si
riaffacciò nei nostri teatri negli anni Sessanta.
Una scena dello spettacolo © Luciano Romano
Se Desdemona appare la mattatrice, sta però di fatto che questo è
melodramma per tenori: Rossini ne schiera tre a livello coprotagonistico, più
un quarto in posizione defilata, ma chiamato a un cimento impegnativo.
Difficile decidere a chi accordare la preferenza. A John Osborn, un po
disomogeneo nella scabrosissima tessitura otellesca (per il baritenore
rossiniano, tanto scuro e massiccio nel medium quanto svettante negli
acuti, lomogeneità vocale è una chimera) e più timbrato negli slanci siderali
che nel declamato centro-grave, ma eroico e tormentato come un vero Moro di
Venezia? A Dmitry Korchak, che nei panni di Rodrigo
replica i fasti del “tenore contraltino”, unendo però allelasticità del suono
e alle accattivanti smaltature timbriche una robustezza demissione, che
imprime spessore anche psicologico a un personaggio limitato, di solito, ai
fuochi dartificio vocalistici? O a Juan
Francisco Gatell, che trasmette la perfidia di Jago con il fraseggio
elegante e la timbratura trasparente del puro tenore di grazia? Senza
dimenticare Enrico Iviglia, che intona la trenodia fuori
scena del gondoliere con distillata rifinitura. Gaia Petrone,
come Emilia, è ben più che una “spalla” di Desdemona (eccellente il suo duetto
con la Machaidze),
mentre Mirco Palazzi – voce un po avara di morbidezza – è un Elmiro più a suo
agio quando deve fare il padre padrone che il babbo intenerito, profilando un
personaggio scabro ma autorevole. Insomma pareva essere, questa del San Carlo,
uninaugurazione allinsegna della regia, e si è rivelata invece
uninaugurazione allinsegna della vocalità. Comè nel destino, e nelle
intenzioni, di Rossini.
|
 |