Nero è il Macbeth di Franco Branciaroli in scena al Teatro
Verdi di Padova. Tragedia del rimorso e della corruzione, il suo dialogo con il
mondo di oggi si concretizza attraverso la soluzione scenografica ideata da Margherita Palli. Il privilegio del potere abbraccia di ombre la
claustrofobica “lanterna magica”, fatta di camminamenti scoscesi e dislivelli
percorribili a cui si riduce il palcoscenico, scatola nera e straniera da cui
si emerge e in cui si precipita attraverso porte e botole. È lo spazio, ad
apertura di sipario, a vomitare le streghe shakespeariane.
Franco Branciaroli, regista e primo attore
della pièce, condensa in un lungo atto unico (centotrenta minuti con intervallo) i quattro della tragedia
originale e sceglie di far parlare gli spiriti ctonî con la lingua del Bardo,
un inglese antico reso stridulo e sfilacciato dalla parola degli attori (sopratitoli
proiettati sulla parete di fondo ne riportano la traduzione). Questa cantilena
infernale inaugura, dunque, lomaggio del Centro Teatrale Bresciano e del
Teatro Gli Incamminati in occasione dellanniversario del grande drammaturgo
inglese.
Un momento dello spettacolo © Umberto Favretto Macbeth è la tragedia della
caduta delluomo nella malvagità, nella corruzione, esemplificazione della
predisposizione dellanimo umano a lasciarsi sporcare se accecato dal
privilegio e dalla brama di potere, mali forse peggiori quando colpiscono un
uomo probo, lo contaminano e lo conducono alla rovina. Macbeth/Branciaroli è un
guerriero. La sua Scozia è terra di guerre intestine e questo stato delle cose
gli è connaturato. La sua onestà comincia a vacillare quando entra in gioco la
lussuria. La profezia di ascesa politica delle streghe si tramuta
repentinamente in presagio e promessa di sconfitta e il personaggio si getta in
una disperata corsa verso la distruzione. Eppure il Macbeth di Branciaroli
conserva poco del cliché del “debole manovrato”, forse perché il suo fare grandattorico pare rendere secondarie le
macchinazioni della Lady Valentina Violo,
allaltezza della situazione, incisiva e dalle modulazioni vocali ben
orchestrate (anche quando parla la lingua del male), così rigida in quellabito
corazza che lallunga e la comprime.
Assecondando
lo spazio scenico la coreografia di fondo dello spettacolo si risolve nel
linearismo che blocca i movimenti degli attori in un atteggiamento di fissità e
rigidità; cifra stilistica, a quanto pare, della
tragedia, ma che rischia di appesantire e rallentare lazione. Non così per
Branciaroli, sinuoso e modulato, a volte elemento estraneo (ma il tormento
interiore di Macbeth lo giustificherebbe) alla staticità generale. Meraviglioso
è il gioco di magia che lattore crea giustapponendo deittici, gesti
ideografici e movimenti a bacchetta delle mani che contraddicono o rafforzano
le battute. La voce, poi, sale in falsetto e si strozza, precipita verso la
profondità in una caverna [!] e si smorza come soffocata da un panno. Il corpo
esprime un costante disagio: i panni che si ritrova a vestire non sono i suoi
(i costumi sono creazione di Gianluca
Sbicca), lo bloccano, lo fanno inciampare, gli impediscono quasi di
respirare e servono allattore per caricare a molla lingranaggio che – in una
splendida immagine, di repertorio se vogliamo – lanciano Macbeth Re in una
rovinosa caduta in scena, una crocifissione orizzontale che lascia la testa
dellattore penzoloni al limite di un praticabile, ad occupare il centro esatto
del palco mentre la corona rotola in proscenio.
Un momento dello spettacolo © Umberto Favretto Luci
e rumori provano a dare plasticità allazione, eppure non ci riescono fino in
fondo. Le prime, calde su fondo buio, di Gigi
Saccomandi, non escono dal “funzionale” se non in uno splendido quadro dal
figurativismo ammirabile: una volta incoronati, il Re, la regina e un paggio,
bloccati in un ritratto da parete appeso al muro di un salone, illuminati
magistralmente dietro uno schermo, acquisiscono pittorica plasticità. I rumori
– corvi, civette, urla e lamenti fuori scena –a tratti troppo descrittivi,
hanno nel disegno registico una funzione straniante non pienamente realizzata.
Tale volontà pare emergere, ancora a tratti, dallinterpretazione ritmata e
sincopata di tutti gli attori, in ritardo sulle reazioni di dolore, come il
bravo Macduff/Tommaso Caldarelli quando apprende la notizia
della morte del padre e poi della moglie e dei figli, o meccanica come quella
di Banquo/Alfonso Veneroso, automatico e pulitissimo quando
appare al protagonista in forma di spettro. Da una simile motivazione epica
potrebbe essere dettata, ancora, la scelta di proiettare didascalie atte a
chiarire allo spettatore i luoghi dellazione, soluzione ridondante, come il
movimento delle nove porte scorrevoli e retroilluminate che lasciano apparire e
scomparire i personaggi.
Un momento dello spettacolo © Umberto Favretto In
generale, questo Macbeth
potenzialmente vibrante, constatata la qualità degli attori, non convince a
pieno. Lo spettacolo lascia di certo nello spettatore un senso di cupa
inquietudine, la suggestione di aver guardato dentro il pozzo di una coscienza,
ma al prezzo di un grande sforzo di attenzione: la fatica di tenere insieme
rivoli di intuizioni che affollano la foce del fiume interpretativo e ne
rallentano la corsa verso il mare.
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