Eurydice, di Jean Anouilh,
è rubricata fra le sue pièces noires
e risale al 1941. Dopo la messa in scena di Antigone
(dello stesso autore) nel 2013, Emanuele
Conte prosegue con questopera la riproposta della drammaturgia francese
del secondo dopoguerra. Qui la concezione teatrale di Anouilh si esprime in un
linguaggio per noi démodé (come
appare nella traduzione depoca di Giannino Galloni), ma efficace nellamalgamare
i motivi tragici con quelli della teatralità ludica, mediante la poeticità e lantinaturalismo.
Un momento dello spettacolo © Donato Aquaro
Dietro un velario trasparente
teso allarcoscenico, la scena dapertura raffigura un buffet di stazione ferroviaria, con pareti vetrate a moduli componibili.
Un solo avventore al tavolino e un suonatore ambulante che strimpella il suo
violino in compagnia del padre, in attesa del treno. Sopraggiungono attori
duna compagnia di giro, a raccontare aneddoti della loro vita di guitti
provinciali. Dal gruppo si fa avanti la giovane Eurydice e lincontro col
violinista di nome Orfeo è fatale per entrambi. Infatti, proprio il cliente appartato,
che impersona il Fato, guiderà dora in poi la storia: sorta e celebrata dal
mito, essa si riattualizza in scena nel momento vissuto dai nuovi,
contemporanei protagonisti. Vivi al tempo della Francia in guerra, rivelano
nelle loro istanze esistenziali, comportamenti determinati da contingenze quotidiane.
Subito legata da una passione istintiva, la coppia è guidata da una forza
esterna. Tutto appare prestabilito e lo sviluppo, dallinnamoramento alla breve
comunione e poi alla fuga – con lincidente mortale per la donna e il tentativo
di ricongiungimento estremo – sfocia nella doppia accettazione della morte. Ai casi
luttuosi saggiunge il suicidio del collega e fidanzato dellEurydice indecisa,
che per Orfeo lei ha lasciato. Dopo il distacco dalla compagnia e
dal padre, i novelli amanti trascorrono in una camera dalbergo la prima notte insieme.
È un amore dichiarato e consumato a parole, sempre evocatrici dun atto di
fusione totale, ma come sublimato appunto in contatti e sensazioni poeticamente
connotate. Quasi riflessi rinviati dagli specchi di quella stanza-caverna, che mutassero
in ombre le persone fantastiche e labili dei protagonisti. Dai loro corpi distesi
sul letto, sorgono le voci che esprimono emozioni e sentimenti: «Io parlo
perché non so rispondere», confessa la donna. «Siamo invischiati nelle parole»,
ammettono i due.
Un momento dello spettacolo © Donato Aquaro
La nudità dellamplesso è descritta
come motivo duna gioia soltanto spiritualmente goduta. Le domande sul passato
turbano il rapporto nascente, quando Orfeo indaga sui “precedenti” di Eurydice,
il fidanzamento e il sospettato legame con limpresario teatrale. La prospettiva
del rapporto con una persona alla ricerca duna identità certa e forte,
sgomenta colui che sognava la docile, disinteressata dedizione dellamata. Leroina,
come del resto Antigone o Giovanna dArco, mira a quel centro identitario e lo
difende, coerente fino al sacrificio, verso unidea di femminilità distintiva dellautore.
Le sequenze nellalbergo sono avvolte
dalla luce chiara e come di sogno riflessa dalle pareti. Sulle passioni vincono
gli scambi dolorosi delle parole, mentre in video è proiettato il primo piano dei
volti segnati da ieratica tensione. Il regista rinuncia alleffetto emotivo (o
non lo cerca), per assecondare la formula espressiva – nata da una specie di “platonismo
alla rovescia”, a parere di Rosalba Gasparro
(Jean Anouilh. Il gioco come ambizione formale,
Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 25) – per la quale quellamore privo della
dimensione carnale implode in sé stesso, minato da ragioni prevalenti sui sentimenti.
Non certo per aridità, forse per pudore o per pessimismo ironico rivolto alle
virtù umane. Da spettatori si avverte, nella carenza di fisica sensualità, sia
un segno dei tempi di guerra repressi, sia del rispetto fin troppo scrupoloso dellipotesi
drammaturgica originale. Gli attori aderiscono con impegno allincarnazione purificata del tormento degli eroi, contenendo lenfasi a vantaggio della naturalezza. Orfeo ha la voce tranquilla dellincoscienza, risonante negli sfumati sottotoni di Gianmaria Martini, che rendono bene lincapacità di superare il modello del conformismo maschile paterno. Di fronte gli sta linconcepibile rigore della partner, dedita a unascetica conversione. LEurydice di Sarah Pesca appare più energica, pure usando registri controllati e interiorizzati, per la sua liberazione. Sente che Orfeo non perdonerà il suo passato di errori e tradimenti che ormai ella rifiuta, per emendarsene sinceramente. Soffre e quasi sorride, mentre savvia alla scomparsa definitiva. Dopo essere morta nellincidente dautobus sul quale sallontanava da Orfeo, ritorna danzante, di fronte allaltro ormai estraneo.
Un momento dello spettacolo © Donato Aquaro
Orfeo «deve guardarla negli
occhi, per assicurarsi che gli stia dicendo la verità», impone il regista. Ciò
accade nella scena coreografata da Michela
Lucenti, al proscenio, con blocchi di posture a contrappunto fra le due
figure in movimento, in un parallelo significativo di destini incrociati e divergenti.
Lestrema occasione è il ritorno di Eurydice offerto da
Henri, interpretato da un Fabrizio
Matteini di risoluta e magnetica energia nel pilotare al fine tragico le
creature affidategli. La soluzione inventata dal regista mostra Orfeo sceso in
platea, che chiama gli spettatori a testimoni dellimpotente tentativo di
riunirsi allamata, equivalente al suicidio. La donna, riapparsa, concede: «Ora
potrà guardarmi». Le risponde Henri: «Orfeo è insieme con Eurydice, finalmente».
Lo spettacolo vive però di altri
apporti sostanziosi, a volte un po digressivi, quali lintervento dellimpresario
Dulac, un Enrico Campanati di sfacciata
sicumera, millantatore del potere esercitato su Eurydice. Lo stesso attore, nel
ruolo primario, si esibisce in una virtuosistica paternale rivolta al figlio, decantandogli
il suo “programma” per un futuro mediocre e dagli obiettivi voluttuosi. Allora
Campanati gioca con lambizione e la sensualità, partendo dalla parodia fino a
comporre un ritratto realistico e grottesco di miserabile e simpatica umanità.
Così un dosato pervasivo umorismo rende grinçante
la tonalità noire della pièce.
Gli altri ruoli sono resi con bella
e calzante definizione dai restanti attori. Susanna Gozzetti si gode il ruolo di ex primadonna della compagnia,
ballando il tango col compagno Vincenzo, un Pietro Fabbri di stilizzata eleganza. Anche le parti minori del fidanzato
(Alessio Aronne), del cameriere (Alessandro Damerini) e dello chaffeur (Marco Lubrano) costituiscono dettagli significativi in una
rappresentazione equilibrata, a tratti suggestiva; seguita con costante
partecipazione e salutata da cordialissimi applausi.
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