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Ascesa e caduta del riccone acculturato

di Gianni Poli
  Il borghese gentiluomo
Data di pubblicazione su web 28/10/2016  

Il problema forse insolubile che accompagna ogni rappresentazione della drammaturgia d’epoca lontana e riconosciuta classica è quello di renderne il suo valore perenne in un linguaggio comprensibile e adeguato all’attualità. Filippo Dini sceglie per l’allestimento del Borghese gentiluomo l’ambientazione in epoca recente, così da esaltare il potenziale comunicativo di temi, situazioni e caratteri dell’opera di Molière, ancora vivi per la nostra sensibilità. Dal gradimento del pubblico della prima al Teatro Duse dello Stabile di Genova pare riuscita la prova e valida l’ipotesi di lettura proposta dalla compagnia di giovani e valorosi attori.

La commedia si svolge in un dispositivo unico rotante, che prevede l’uso di tre luoghi: l’interno della vecchia villa del protagonista, Signor Jourdain, l’esterno e il salotto. La scenografia, che riproduce la dimora sontuosa di un ricco possidente dal gusto grossolano, è l’emblema concreto della nobiltà possibile oggi, riconoscibile in quella di «persone molto benestanti, una categoria di persone che vive in un altro mondo» (così il regista nel programma di sala). L’interessante analogia fra il Seicento di Molière e i tempi nostri è talvolta irriconoscibile sotto la forma adottata, che non trova una convenzione unitaria d’espressione.


Un momento dello spettacolo
© Giuseppe Maritati

Del resto, il testo che per Dini è «teatro puro», nasceva come commistione di generi e registri disparati, nel gusto di operazioni su commissione, quali il Divertimento di Versailles, in cui s’inserisce George Dandin. L’epoca è quindi novecentesca, anche negli accessori, un fonografo e un apparecchio stereo portatile; fra le discipline praticate da Jourdain, il pilates. I costumi, sostanzialmente contemporanei, vestono tipi della commedia borghese, dall’abito da sera nero della Marchesa, all’elegante completo del Conte; più inequivocabili ancora le minigonne delle ragazze e il vestito alla moda di Madame Jourdain. Ma al contempo il regista scorge nei personaggi «le maschere della Commedia dell’Arte». Monsieur Jourdain si presenta in tenuta ginnica (bandana e asciugamano di conforto), poi nel vestito nuovo confezionato su misura: un ibrido giacca e gonna, un tailleur in broccato da tappezzeria, improprio abbastanza da suscitare l’atteso ridicolo.

La recitazione si conforma a un realismo imitativo, spesso caricaturale, negli episodi dell’acculturazione a cui il borghese si sottopone. Una parte di schietta intonazione popolana si trova nel buon senso di mamma Jourdain (un’intelligente Orietta Notari dalla verve cattivante); in altra parte, è di volgarità piatta e comune e investe sia la figlia Lucile (Valeria Angelozzi che mastica chewing-gum) e la serva Nicole, sia i loro spasimanti, padrone (Ivan Zerbinati) e servo (Roberto Serpi), indistinguibili per portamento ed eloquio. Distinte invece le figure del Conte Dorante e della Marchesa Dorimène, loro davvero come estranei alla condizione che costringe tutti i personaggi alla rincorsa di un bene tanto impellente quanto illusorio. Simili a tipi da operetta, lei è vedova ma non allegra, così colma di riflessiva sensibilità esistenziale; lui, sfruttatore assiduo e compassato dello sprovveduto amico. Per loro si staglia un episodio che non collima né col testo, né con il gusto farsesco preponderante nell’azione principale. Si tratta dell’amplesso improvviso, sulla scala dei piani superiori, a cui Dorimène invita l’amante (Davide Lorino), senza preamboli. Interprete Sara Bertelà, d’una bellezza sorprendente e pure velata di malinconia, che saprà conquistare il matrimonio come da copione moliéresque.


Un momento dello spettacolo
© Giuseppe Maritati

Anche le lezioni impartite al vanesio eroe dai tre Maestri d’arte (di musica, ballo e filosofia), scontri fra condizioni inconciliabili (e motivo di rivalità individuali), risentono dei duetti della commedia all’italiana vulgati mediante il cinema e l’avanspettacolo e diventati tipici d’una comicità nazional-popolare. Al pubblico risultano comunque graditi, nelle ripetizioni, negli equivoci, nella piaggeria che esalta il narcisismo compiaciuto dell’aspirante gentiluomo e alimenta una gratitudine frutto dell’inganno. La conquista degli strumenti, se non dell’essenza, della “nobiltà”, costa fatica nell’impegnativo programma educativo, ma è ripagata dall’apparente successo confermato da un complesso di superiorità autoindotto in Jourdain. Lo interpreta lo stesso Dini con convinzione, vocalità sicura ed esuberante. Ben scandito e gradevole il processo d’apprendimento linguistico guidato dal maestro di filosofia (Antonio Zavatteri), occhialuto latore di logiche elementari e di pronunce «preziose». La lezione di scherma di uno spadaccino spagnoleggiante (Ivan Zerbinati) eccede in parodia e poi diventa scherzo nella sfida con la servetta Nicole (una scattante Ilaria Falini), vittoriosa nell’affondo pungente in punta di fioretto.

Il regista conosce l’origine spuria dell’opera, definita comédie-ballet e come tale creata alla corte del Re Sole nel 1670. Ma per sottrarla alla museificazione ne isola il nucleo importante che celebra la beffa ai danni dello stolido arrivista e lo svolge con i mezzi descritti. In particolare, nella trama per aggirare l’imposizione di Jourdain che intende sposare sua figlia al figlio del Gran Turco, si inscena fedelmente il travestimento della “mascherata alla turca”, enfatizzandolo con prevedibili elementi di simpatica comicità in concitazione da vaudeville.     


Un momento dello spettacolo
© Giuseppe Maritati

Adottata la traduzione esatta e preziosa di Cesare Garboli degli anni Settanta, si accantona però l’ipotesi dello studioso sul genere dell’opera, che sarebbe «non una farsa, una satira, ma l’esatto contrario: una fiaba, un sogno». Quanto all’essenza del protagonista, Jourdain più che un ridicolo, velleitario arrivista, beffato e bastonato, sarebbe un commerciante anomalo, «un visionario affamato di cultura, di bellezza, di amore», fidente in una nobiltà reale (cfr. Cesare Garboli, Saggi e traduzioni. Molière, Torino, Einaudi, 1974, passim). Pertanto, la scomparsa della sua rara persona dovrebbe avvertirsi come una «perdita irreparabile». Invece sulla scena genovese, al culmine della pagliacciata che conferisce al credulone la dignità fantasiosa di Mamaouchi, Jourdain partecipa, ormai incosciente su una sedia a rotelle, al felice scioglimento del doppio, sospirato matrimonio.



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