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Il volto oscuro del potere

di Gianluca Stefani
  Calderón
Data di pubblicazione su web 19/10/2016  

Il Calderón di Pasolini è un testo complesso. Un concentrato del pensiero politico-sociale dello scrittore che porta in dote un messaggio ancora attuale, a patto che lo si disincrosti dalla temperie culturale pre-sessantottina in cui fu concepito. Federico Tiezzi (nella sua riscrittura con Sandro Lombardi e Fabrizio Sinisi) si mantiene in gran parte fedele all’originale. La decisione di lasciare intatti i verbosi versi di una pièce a lungo ritenuta irrappresentabile (una stroncatura inammissibile, Ronconi docet, ma anche le “riabilitazioni” vanno misurate) è forse il maggior limite di uno spettacolo comunque riuscito, di mestiere, formalmente bello.

Siamo nella Spagna franchista del ’67. Rosaura si risveglia, immemore del passato, in tre differenti vite. Nella prima è l’infelice figlia di una coppia di nobili filofascisti madrileni. Nella seconda è una non più giovane prostituta che vive nei sobborghi di Barcellona. Nella terza è una donna matura vittima di un marito padre-padrone e del mondo che questo rappresenta (l’odiata borghesia). In tutti e tre i casi si innamora: di Sigismondo, un sovversivo latitante un tempo amante della madre; di Pablo, un sedicenne dalle idee chiare e nessuna esperienza (a letto); di Enrique, uno studente rivoluzionario inseguito dalla polizia. Sogno o realtà? Incubo, sarebbe più corretto dire; o meglio “inferno”, condizione da cui è impossibile evadere. Nemmeno con l’amore. In un susseguirsi di tragiche agnizioni, Rosaura scopre che gli oggetti del suo desiderio sono rispettivamente il padre (incesto numero uno), il figlio (incesto numero due) e un fuorilegge bello e dannato che a un certo punto appella ambiguamente figlio (due incesti e mezzo). Il sogno finale, la liberazione dal “lager” esistenziale grazie all’arrivo di una folla di operai, è pura utopia a conferma dell’impossibilità di qualsiasi riscatto.


Una scena dello spettacolo
© Achille Le Pera

Tiezzi inserisce il dettato pasoliniano in un’architettura drammaturgica rigorosa e funzionale che scolpisce ogni verso e insieme lo amplifica. Nell’aderenza al testo si specchia l’adesione a un “teatro civile” destinato a scuotere le coscienze. «Attori e spettatori, bisogna essere uniti per dare scandalo insieme!» dice a inizio spettacolo lo Speaker Lombardi, in una significativa variatio rispetto allo stasimo originale. Coerentemente l’allestimento favorisce la distanza critica, evitando qualsiasi empatia (se non nel finale).

E non sono tanto i cartelli al neon cari a Brecht e le proiezioni video (pretestuose) a creare il necessario straniamento. La regia di Tiezzi illustra, sottolinea, zooma, mentre le scene di Gregorio Zurla si susseguono in una sorta di montaggio cinematografico scandito da “dissolvenze” (le sequenze al ralenti che fanno da cerniera), da bruschi stacchi di buio e dalle luci, meravigliose, di Gianni Pollini, che evidenziano i pieni e i vuoti, i primi e i primissimi piani dagli sfondi. Anche le musiche, Love Theme e Silencio di Angelo Badalamenti, sono rubate al cinema (da Mulholland Drive di David Lynch, 2001), mentre il Lascio ch’io pianga intonato da Rosaura è sottile autocitazionismo (lo cantava Antigone nell’Antigone di Sofocle di Brecht allestita dalla compagnia Lombardi-Tiezzi nel 2004).


Una scena dello spettacolo
© Achille Le Pera

La presenza forte dell’occhio registico è funzionale alla concezione marxista di un potere verticale che controlla e soverchia. Le tre vicende e il sogno finale di Rosaura sono ambientati in un unico spazio architettonico a scena fissa (quasi fissa), composto dalle alte pareti a mattoncini scuri di un casermone con finestroni avari di luce. Uno stanzone vuoto in cui si muovono, facendo poco rumore, esistenze ectoplasmatiche che trascinano letti ed eseguono pallide coreografie secondo i tracciati efficaci disegnati da Raffaella Giordano. La continuità del potere tirannico è assicurata dall’impenetrabile Basilio, un Lombardi uno e trino che attraversa gli episodi sfoggiando una recitazione d’alta scuola. I suoi sicari sono figuranti guarniti di metallo nero che si contorcono e strisciano nell’ombra: ora sono gli scagnozzi Leucos e Melainos, ora sono i compagni che spingono il pivellino Pablo tra le braccia della procace Rosaura, ora sono le creature della notte che portano via Sigismondo durante la prima agnizione (segnalata da una lama luminosa che scende dall’alto).

Se le due ore e un quarto dello spettacolo scorrono filate, è merito di una tensione continua. Tutti gli attori reggono la prova. Si distinguono le tre Rosaure interpretate, nell’ordine, da Camilla Semino Favro (alienata il giusto), da Lucrezia Guidone (spruzzate di romanesco nella cadenza in omaggio alla Magnani di Mamma Roma) e da Debora Zuin (dallo slancio più naturalistico). Istrionico il Sigismondo di Graziano Piazza, malinconico il Pablo di Josafat Vagni, guascone l’Enrique in camicia rossa garibaldina di Andrea Volpetti.


Una scena dello spettacolo
© Achille Le Pera

Memorabili alcune scene, come il tableau vivant del primo episodio con i cromatismi argento brillante e nero glitterato di abiti siglo de oro rivisti in salsa gotica da Giovanna Buzzi e Lisa Rufini (citazione di Las Meninas di Velázquez, in ossequio alla Vida es sueño di Calderón de la Barca da cui è tratta la pièce). O come l’apparizione del Basilio Lombardi e della Donna Lupe Francesca Benedetti (cammeo per l’ottantunenne attrice) nei ruoli del Re e della Regina: specie di monumentali drag queen sbilanciate negli ingombranti vestimenti, la cui andatura incerta ne mette in crisi il sussiego.

A scaldare il pubblico ci ha pensato soprattutto la Zuin con l’appassionato racconto del sogno del lager, stroncato dall’amara chiosa di Basilio e dalla caduta del sipario in un silenzio raggelato. Un finale che funziona, nonostante l’evocazione un po’ naïf degli operai liberatori con tanto di bandiere rosse svolazzanti. Peccato che, come in Pasolini, non si lasci adito alla speranza: ed è qui che il messaggio originario andava svecchiato. 



Calderón
cast cast & credits
 



Una scena dello spettacolo visto al
Teatro della Pergola 
il 4 ottobre 2016
© Achille Le Pera

















































Un'altra scena dello spettacolo
© Achille Le Pera

 
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