Perfect Day di Lou
Reed ci accompagna attraverso una serie di magnifiche immagini
stereoscopiche di Parigi, colta quasi di sorpresa in una stupenda luce
mattutina: visioni quasi ottocentesche di una Parigi incredibilmente vuota,
talmente vuota che pian piano cresce anche linquietudine per questa innaturale
assenza di vita. Un inizio potente, quello di Les beaux jours dAranjuez, dove in poche statiche inquadrature Wenders cattura lanima fantasmatica di
una città ultimamente troppe volte violata, quasi un controcanto alla
contraddittoria Parigi di Truffaut che
quasi sessantanni fa apriva I
quattrocento colpi.
Senza mai interrompere la colonna sonora
iniziale la macchina da presa abbandona Parigi e ci porta in campagna dove,
vagando per gli spazi di una casa, trova uno scrittore che ha sul suo tavolo un
Ipad, una macchina da scrivere e un block notes. Luomo prende un foglio
bianco, lo inserisce nella macchina da scrivere e inizia a comporre una pièce
teatrale, che subito si materializza davanti ai suoi occhi. I protagonisti sono
un uomo e una donna che parlano o meglio si raccontano seduti a un tavolino
sotto una pergola in un pomeriggio destate. Le loro storie, i loro racconti e
ancor più i loro atteggiamenti evidenziano subito le loro differenze di genere
e di generi: la poetica purezza del femmineo che si contrappone alla maliziosa
prosaicità del mascolino, che trasformano il tutto in un filosofico duello al sole.
Il “film
parlato”, che Wenders ha tratto dalla pièce teatrale dellamico Peter Handke, è un lampo che finalmente
squarcia la storica bidimensionalità della Mostra del Cinema, portando per la
prima volta nel concorso principale unopera in 3D, che (in attesa della
“realtà virtuale”) è forse lunica vera novità che la rivoluzione digitale ha apportato
allimmagine cinematografica, finendo per trasformare un vecchio trucco
commerciale (buono per i periodi di crisi) in un nuovo modo di fare cinema
anche e soprattutto dautore. Una sfida che Wenders ha raccolto dai tempi del
bellissimo documentario su Pina Bausch (Pina,
2011, link) e che non ha mai abbandonato nei suoi film successivi, quasi affascinato
dalle possibilità offerte da questo nuovo modo di fare cinema, che nelle sue
mani diventa costruzione di un nuovo linguaggio, in cui le distanze e la
profondità di campo diventano visivamente tangibili e fisicamente percorribili.
Wenders crea così una specie di nuova vertigine dellimmagine che ne Les beaux jour dAranjuez diventa anche
vertigine di cinema: De Oliveira, Rivette, Rohmer, Duras… Indugiando
sul dialogo dei due personaggi il 3D viene finalmente liberato dalla schiavitù
delleffetto e finisce per dimostrare il suo vero potenziale espressivo. Nella
sua apparente inutilità la terza dimensione rivela così la sua
indispensabilità, che le permette di aprire gli occhi allo spettatore verso una
nuova percezione dei corpi e degli spazi.
Una scena del film
Lavorando sul
“parallasse positivo” (ovvero la profondità dietro lo schermo), al regista
basta un tavolo, una tenda, una brocca o lo stesso pulviscolo dellaria per
costruire unimmagine “nuova”, in cui non esiste più un unico prospettico punto
di fuga, ma una serie infinita di piani e soprattutto di “fughe”. Gli stessi movimenti
di macchina (sia che questa si aggiri nella casa vuota o che ondeggi e circondi
i protagonisti) finiscono per restituire un nuovo spazio cinematografico,
mentre la bidimensionalità dello schermo, già in origine violata dalla
profondità di campo dei Lumière,
viene definitivamente superata dalla stereoscopia dautore.
Chiaramente la profondità di Wenders non è solo
visiva; appropriandosi del testo di Handke scava nellintimo dei suoi
personaggi, nelle loro contraddizioni, nelle loro distinte e distanti posizioni
e sebbene, come dice la donna, «lazione sia bandita», la loro immobilità
rimane sempre e comunque cinematografica, come limprovvisa irruzione del piano
di Nick Cave o la finale
dissoluzione dellimmagine nel pixel. Such
a perfect day…
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