La cosa più graziosa e di classe dello spettacolo è quellomaggio post
mortem che, forse, non tutti gli spettatori avranno colto: la quindicina
(scarsa) di strumentisti dellEnsemble Innsbruck Barock si trovano, insieme al
loro direttore Enrico Onofri,
allinterno di una barchetta blu davanti al palcoscenico; e la piccola
imbarcazione, a prua, reca il nome “Alan”. È un modo affettuoso di ricordare Alan Curtis, che alla riscoperta di melodrammi dimenticati del Seicento
(e non solo) dedicò la sua carriera di direttore-filologo e, tra le sue
ricognizioni da Indiana Jones degli archivi musicali, aveva appena riesumato Le
nozze in sogno di Pietro Antonio Cesti. Avrebbe dovuto dirigerle lui, in questedizione (la
quarantesima) delle Settimane di Musica Antica a Innsbruck, se la morte
lanno scorso non lavesse sottratto a questo e molti altri progetti: sicché
quellorchestra in barca (perché Le nozze in sogno è opera di ambiente
marino, anzi portuale) è un modo tenero e gioioso di far musica ricordandolo.
Il libretto di Pietro Susini, drammaturgo (Il traditor
fortunato fu forse il suo lavoro di maggior successo, 1685) e diffusore
del teatro del siglo de oro spagnolo nella Firenze del diciassettesimo
secolo, traduttore di Lope de Vega e
Calderón de la Barca presso la corte
medicea, reca come sottotitolo «dramma civile». Tuttavia, converrà sgombrare
subito il campo da possibili equivoci: il sostantivo non sottintende un
soggetto drammatico (siamo, anzi, nei paraggi della più classica commedia degli
equivoci), ma semplicemente rimarca la natura di lavoro teatrale; mentre laggettivo,
lungi dallabbarbicarsi a temi etico-politici, rinvia allidea di civitas. Una scena dello spettacolo © Rupert Larl
Al contrario di quanto accadrà con le grandi commedie in musica dei
secoli successivi, dalla Napoli di Così fan tutte alla Siviglia del Barbiere,
Le nozze in sogno è infatti un melodramma radicato nella città in cui si
svolge lazione: la Livorno degli affari e dei commerci in cui brulicano i tipi
più strani, crocevia di culture come spesso accade alle città portuali e
appunto per questo esempio di tolleranza razziale e religiosa. Nonostante una
massiccia presenza di ebrei, Livorno non conobbe mai il loro tradizionale
isolamento in un Ghetto: e la salace ironia di Susini verso la venalità
giudaica, che oggi a qualcuno potrà apparire politicamente scorretta, non
sottintende alcun antisemitismo, ma vuol essere solo uno spaccato di quel “gran
teatro del mondo” che al drammaturgo-librettista premeva raccontare.
Alle prese con un tradizionale tourbillon di tutori sciocchi e
servi scaltri, mercanti avidi e fanciulle smaniose, uomini vestiti da donna e
donne mascherate da uomo, e anche con qualche zaffata macabro-farsesca nella
scena al cimitero, Cesti costruisce una drammaturgia musicale non esilarante ma
pacata. Il compositore toscano, che a Innsbruck lavorò a lungo (e infatti il
Festival, al di là delle Nozze in sogno, ha costruito attorno a lui un
vero e proprio progetto), sceglie la via della misura: vola programmaticamente
meno alto rispetto alla Dori e allOrontea (dove la commistione
tra dramma e commedia gli offrivano forse maggiori sollecitazioni), non
enfatizza ma semmai disinnesca, mostra quella relativa elementarità di
linguaggio del tutto comprensibile quando si ha a che fare con un nascente
registro stilistico (Le nozze in sogno risalgono al 1665), coltiva le
parentesi patetiche con più convinzione delle ampie pennellate farsesche. Una scena dello spettacolo © Rupert Larl
Come talvolta accade ai solisti passati alla direzione dorchestra (è
un ottimo violinista barocco), Onofri asseconda la partitura con rispetto,
amore e forse unombra di timidezza: laddove lautore difetta di vivacità, il
concertatore non gliela insuffla come potrebbe; e quando Cesti nelle arie improntate
a patetismo assurge a una ricchezza formale difficilmente raggiunta altrove,
si avverte, da parte di Onofri, la volontà non di sottolineare quei momenti, ma
di omogenizzarli con il resto dellopera. Tuttavia, in una sorta di mal
bilanciato contrappasso, il regista sembra scegliere invece una strada opposta:
e i risultati disorientano un po.
È possibile che la recita di cui si dà conto spostata, causa
maltempo, da un luogo aperto a una sala chiusa non abbia reso giustizia allimpianto
scenico di Davide Amadei, che si
basava, a giudicare dalle fotografie della première, sulla felice
contiguità tra il palcoscenico naturale (un cortile di palazzo storico) e gli
elementi costruiti ad hoc. Avulsi dal contesto, tali elementi (a
parte la barchetta-orchestra, dei semplici containers lignei che
rinviano allattività portuale, ma anche allidea di tanti microcosmi
cittadini) risultano invece poco accattivanti; e ancor meno gradevoli, sul
piano estetico, appaiono i costumi: ora pop, ora senza meno trash,
ora ulteriore omaggio alla Livorno marinara desunti dai film di pirati. Il
tutto centrifugato dalla regia di Alessio
Pizzech, uomo di teatro in altre occasioni non privo di una sua cifra
stilistica, ma che qui sembra imboccare la deriva (già collaudata nei Barbieri
e negli Elisir di alcuni quotati registi italiani di modaiola corrività)
dellopera buffa “aggiornata” con gags fumettistiche e pacchianerie
televisive.
Una scena dello spettacolo © Rupert Larl
Deconcentrati o divertiti che fossero da tale contesto, i cantanti
per quanto di valore diseguale “funzionano” tutti bene. Spiccano un gradino
sugli altri, comè inevitabile, i destinatari delle arie più belle: il
controtenore Rodrigo Sosa Del Pozzo
(mobile nel fraseggio, patetico nellaccento, contraltile nel timbro, scatenata
drag queen nella recitazione) e il tenore Bradley Smith (che
stempera in elegiaca compostezza un ruolo allinsegna dellaristocratica
dabbenaggine). Accanto a loro, Arianna
Vendittelli incarna con scioltezza canora
e pertinenza stilistica il prototipo della fanciulla monellesca, sensuale e
gabbatutore, mentre Yulia Sokolik
alle prese con una parte meno briosa e più risentita mostra tautologicamente
pure qualche spigolosità vocale in più.
Nei panni del servo demiurgico Konstantin
Derri sfrutta in senso caratterizzante una voce di controtenore acutissimo,
laddove Francisco Fernández-Rueda
evita invece sbracamenti transgender nel suo ruolo tenorile en
travesti di fantesca anzianotta, ma con gli ormoni a pieno regime. Rocco Cavalluzzi rinnova (anzi,
trattandosi di Cesti, anticipa) la tradizione dei baritoni buffi di voce scabra
e accento saporoso, e Ludwig Obst
gli fa da degna spalla con talento forse più attoriale che canoro. Jeffrey Francis, una ventina danni fa, era tenore ausiliario non di
prima linea nel parco della renaissance rossiniana e donizettiana di
allora. Dismessi ormai panni protagonistici, qui lo ritroviamo nel ruolo ridicolo
del vecchio zio e in quello sulfureo (brevissimo, un cammeo) del commerciante
ebreo: affrontati con voce che si è fatta oggi usurata, ma anche più mobile,
colorita, espressiva. Meglio adesso che ai vecchi tempi, insomma.
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