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L’arte come antidoto alla barbarie

di Riccardo Cenci
  Die Liebe der Danae
Data di pubblicazione su web 30/08/2016  

Non è semplice fornire una definizione univoca dell’estrema produzione teatrale di Richard Strauss. Anni inquieti, segnati dallo smarrimento provocato dall’assenza di Hugo von Hofmannsthal e dal clima di assoluta incertezza in cui il compositore si trovò a operare. Il decennio 1930-1940 fu per Strauss, come giustamente scrive Quirino Principe, «lo sgradevole destarsi da un sogno» (Strauss, Milano, Rusconi, 1989, p. 880). L’artista, affatto indifferente ai drammi della storia, si servì dell’unico mezzo a sua disposizione, ovverosia la musica, per opporsi all’irrazionalità imperante. L’eclettismo, che pure era la cifra distintiva di Hofmannsthal, si amplia in maniera persino maggiore. Il mito e la commedia si alternano, si mescolano dando vita a peculiari e inedite alchimie teatrali.

Questo è il clima in cui nasce Die Liebe der Danae, le cui vicende esecutive si legano agli anni del conflitto. Dopo la prova generale salisburghese del 16 agosto 1944, affidata alla bacchetta di Clemens Krauss, le previste rappresentazioni vennero infatti cancellate per la chiusura dei teatri imposta dopo il fallito attentato a Hitler. Solo nel 1952, a tre anni dalla scomparsa del compositore, l’opera venne finalmente eseguita, ancora sotto la guida di Krauss e sempre nell’ambito del Festival di Salisburgo. Seguono cinquanta anni di oblio. Occorre attendere il 2002 per rivedere questo titolo ingiustamente negletto nella città natale di Mozart. Oggi Die Liebe der Danae torna a Salisburgo, e si tratta di una vera e propria riscoperta.


Una scena dello spettacolo
© Salzburger Festspiele / Forster

Il nucleo dell’opera risale a un’idea che Hofmannsthal propose a Strauss in una lettera del 1920. Un progetto naufragato e in seguito affidato alla penna erudita ma ben più modesta di Joseph Gregor. Delle intenzioni iniziali restano suggestioni, atmosfere dettate dal più grande poeta decadente che l’Austria abbia mai prodotto. Il libretto confezionato da Gregor, per quanto a tratti un poco sconnesso, offre comunque materia alla sfavillante ispirazione straussiana.

L’ombra di Wagner incombe sull’azione. Giove, ad esempio, per saggiare la fedeltà di Danae, si mostra nell’ultimo atto in veste di viandante, evocando in maniera esplicita le atmosfere del Siegfried. Bagliori wagneriani si colgono poi nel personaggio di Mercurio, il cui racconto divertito delle vicissitudini amorose del dio richiama l’ironia dissacrante di Loge. Il vecchio Strauss, giunto alla conclusione della sua parabola creativa, non ha più bisogno di sfuggire la corazza wagneriana che agli esordi rischiava di imprigionarlo nel ruolo dell’epigono. Ora tratta la propria materia con estrema libertà e consapevolezza, sorretto da una padronanza assoluta della tavolozza orchestrale. Bello il secondo atto e ancora di più il terzo quando, dopo il celebre intermezzo, si dipana un duetto fra Danae e Giove che si avvicina alla struggente emotività del dialogo finale della Walkiria fra Wotan e Brünnhilde.

La maledizione insita nell’oro, motore della Tetralogia wagneriana, agisce stavolta per mano di Mida. Questi, condannato da Giove a trasformare in metallo prezioso tutto ciò che tocca, abbracciando Danae la cristallizza involontariamente in una statua. L’eroina sceglierà in seguito l’amore, rinunciando al destino immortale promessole dal dio. Una vicenda che ricalca in vari aspetti quella della Frau ohne Schatten. Anche qui l’imperatore, trasformato in statua, viene salvato dalla redenzione della sua sposa. La conquistata maternità è un messaggio etico forte in un’Europa smarrita di fronte alla violenza (in questo caso legata al primo conflitto mondiale).


Una scena dello spettacolo
© Salzburger Festspiele / Forster

La metamorfosi è dunque la cifra di Strauss, in particolare nell’ultima parte della sua produzione. La sua aspirazione a eludere il tempo passa attraverso i mascheramenti del mito. Nella Dafne, ad esempio, la trasfigurazione dell’eroina diviene simbiosi definitiva con il dato naturale. L’immortalità viene conquistata solo al di fuori del mondo prettamente umano. Nella Danae le cose vanno in maniera diversa. Il dono di Mida è in realtà una maledizione di morte. L’oro, falsamente prezioso, rivela tutta la propria pericolosità impedendo l’unione carnale. Solo l’amore riesce nell’arduo compito di liberare i due protagonisti. Un messaggio importante in un’epoca in cui la civiltà occidentale sembra sul punto di sparire, inghiottita dalle devastazioni del secondo conflitto mondiale.

L’allestimento visto al Festival di Salisburgo rende pienamente giustizia a questa partitura. Il regista Alvis Hermanis situa la vicenda in un oriente favolistico, nel quale la grecità classica viene solo suggerita dal biancore immacolato delle pareti. Coloratissimi i costumi di Juozas Statkevičius, esplicitamente ispirati all’arte di Léon Bakst, pittore e scenografo prediletto dei Balletti Russi di Diaghilev. Variopinti tappeti evocano un mondo distante e intriso di atmosfere fiabesche. Danzatrici mimano la pioggia d’oro dipinta dalla maestria orchestrale straussiana. In questo rutilante scintillio di colori non c’è traccia della decadenza del regno di Polluce, all’inizio dell’opera assediato dai creditori. Alla fine del primo atto Giove si presenta in groppa a un enorme pachiderma,  naturalmente posticcio, mentre vero è l’asinello che suggerisce la reale condizione di Mida. Unico dato prettamente realistico che però, con la sua riluttanza a percorrere il palcoscenico, ha provocato a più riprese l’ilarità del pubblico in sala. Nel finale la presenza di innumerevoli telai richiama la mitica Penelope. Anche Danae, una volta respinto l’assalto del divino pretendente, può riprendere il corso del proprio umano destino.

Chi ama le regie governate da un pensiero forte, da un’idea cardine sottesa all’azione, sarà forse rimasto deluso. Eppure non si può negare il fascino di un allestimento giocato sulle suggestioni cromatiche, totalmente rivolto all’aspetto estetizzante della partitura. Nulla rimanda agli anni drammatici nei quali l’opera vide la luce. Hermanis aspira a un tempo che guarda all’eternità, e in questo segue perfettamente il dettato straussiano.


Una scena dello spettacolo
© Salzburger Festspiele / Forster

Bella l’esecuzione musicale. Franz Welser-Möst appare particolarmente ispirato. La sua direzione coniuga perfettamente il lirismo malinconico, celato nelle intercapedini della scrittura, con i preziosismi profusi a piene mani nel trattamento orchestrale. Il suono dei Wiener Philharmoniker è superbo e magnifico, appena increspato da languori nostalgici e decadenti. Krassimira Stoyanova è una Danae di eccellenti doti vocali e interpretative. Tomasz Konieczny, pur senza possedere lo spessore vocale dei primi interpreti dell’opera (su tutti Hans Hotter e Paul Schöffler), è un Giove perfettamente credibile. Dopo un inizio in sordina (nel finale del primo atto mostra qualche fissità nell’acuto) cresce notevolmente, fornendo una prova di grande solidità complessiva. Gerhard Siegel evidenzia qualche problema nel registro alto, ma è comunque un Mida più che apprezzabile. Molto brava Regine Hangler nel ruolo di Xanthe. Bene il Polluce di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke e il Mercurio di Norbert Ernst. Curati anche i ruoli di contorno, fra tutti quelli delle quattro regine.

Grande l’entusiasmo del pubblico. Speriamo che questa esecuzione getti nuova luce non solo su questo titolo, ma sull’intera produzione senile di Strauss, troppo spesso ingiustamente trascurata dai cartelloni.



Die Liebe der Danae



cast cast & credits
 
trama trama


Un momento dello spettacolo
© Salzburger Festspiele / Forster


 
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