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Tristano nel suo labirinto

di Paolo Patrizi
  Tristan und Isolde
Data di pubblicazione su web 30/08/2016  

Christian Thielemann sta a Wagner come Riccardo Muti sta a Verdi. Pur separati da una generazione, il direttore berlinese e il maestro napoletano hanno più d’una caratteristica in comune: non sono soltanto – oggi come oggi – i più vigili, rispettosi e idiomatici interpreti delle partiture wagneriane (l’uno) e verdiane (l’altro), ma rappresentano l’estremo avamposto di una sensibilità musicale ottocentesca che quasi tutti i grandi del podio, ormai, hanno perso. Sono, in altre parole, gli ultimi due direttori autenticamente romantici.

Il Tristano di Thielemann è noto pure al pubblico italiano e anche questa sua esecuzione a Bayreuth non è una novità (si tratta della ripresa di uno spettacolo dell’anno scorso): eppure, ogni volta che lo si ascolta, sembra nuovo. È la cura dei dettagli intesa non come analiticità fine a se stessa, ma ricerca inesausta di ogni più piccola e inedita sfumatura a far apparire la sua concertazione sempre sorprendente, squisitamente narrativa e altamente ermeneutica al contempo: agile e fresca, verrebbe da dire, se agilità e freschezza fossero sostantivi congrui per l’Handlung wagneriana.


Una scena dello spettacolo
© Bayreuther Festspiele / Enrico Nawrath

Insomma una lettura musicale che introietta una stratificata tradizione, da Furtwängler a Karajan, senza però lasciarsi tentare né dalle cosmiche ridondanze del primo né dalle estenuazioni decadenti del secondo, in favore di un’interpretazione morbida, cangiante e attentissima alle ragioni del canto: dove ambiguità armoniche ed evasioni tonali non sono spinte centrifughe occhieggianti al Novecento (come oggi ci suggeriscono altri grandi interpreti, da Salonen a Nagano), ma corroborano l’implicita tensione verso un “centro” sfuggente e, tuttavia, innegabile. Ed è in questa ricerca di polarità definite – dove le continue modulazioni arricchiscono ma non disgregano il quadro, e la cantabilità dell’orchestra funge da collante – che si sostanzia il romanticismo di Thielemann: il suo Tristano struggente ma non disturbante, la sua ricerca del bello priva di cadute estetizzanti, il suo aggancio a Weber e Schumann senza scantonare nel passatismo.

Di primo acchito, verrebbe da pensare che l’allestimento della regista Katharina Wagner e degli scenografi Frank Philipp Schlössmann e Matthias Lippert sarebbe più consonante a quelle letture musicali “schönberghiane” di cui si diceva che all’interpretazione di Thielemann: le scene presentano distorsioni geometriche e ambiguità prospettiche – in qualche modo speculari all’indefinitezza tonale wagneriana – che sono un omaggio esplicito al mondo visivo di Escher e, per ciò stesso, una presa di posizione estetica verso un Wagner novecentizzato. Se la visualità dello spettacolo non entra in collisione con le sonorità del direttore, forse, è anche perché la regista non spinge fino in fondo il proprio progetto: tutto resta allo stato interlocutorio, circoscritto a singole “trovate”, ma senza una netta presa di posizione.


Una scena dello spettacolo
© Bayreuther Festspiele / Enrico Nawrath

Il primo atto è il migliore. La Wagner e i suoi collaboratori rinunciano a una rappresentazione realistica della nave (aggirando l’ostacolo, risolto da ben pochi registi, di un’azione ondivagante da un settore all’altro dell’imbarcazione), sostituendola con una sorta di labirintico ingranaggio a due piani: il che non solo sottolinea la distinzione di classi e di ruoli (quando il raptus amoroso si scatena, Tristano e Isotta stanno in cima mentre a Kurwenal e Brangäne resta la parte bassa della scatola scenica), ma evoca efficacemente il dedalo in cui i protagonisti si sono smarriti e la macchinosità riservata al loro destino. Appropriata, seppur non inedita, pure l’idea che la passione tra i due esploda ben prima della somministrazione del filtro d’amore: tanto che qui la magica bevanda non viene sorseggiata, ma solo sparsa sulle loro mani.

Nel secondo atto, invece, emergono cambiamenti di rotta e forzature: Tristano e Isotta prigionieri della corte, costretti a un incontro pilotato dall’alto piuttosto che esaltati da un convegno clandestino; Re Marke visto non come un vecchio, vittima a sua volta degli eventi, ma un uomo di potere violento e ancor giovane; Tristano che non va scientemente incontro alla spada di Melot, ma viene da questi pugnalato alle spalle. Insomma l’ennesima denuncia della sopraffazione del potere e della codardia dei suoi yes-men; e se il terzo atto torna a una visualità metafisico-allucinata, il finale – con Marke che lascia cantare a Isotta la sua Liebestod, ma al calar del sipario la trascina con sé come schiava sessuale e bottino di guerra – è spoetizzante, benché di forte impatto.


Una scena dello spettacolo
© Bayreuther Festspiele / Enrico Nawrath

Stephen Gould è un Tristano nella media di oggi, ma non al di sotto: il che significa talvolta impari ai desiderata del ruolo, all’interno però di una prestazione complessivamente solida. Il cantante – soprattutto quanto a intonazione – ha bisogno di un po’ di tempo per assestarsi, ma l’interprete è compenetrato e porta a termine la serata senza bluff e senza sconti (superfluo specificare che Thielemann, tanto più a Bayreuth, non applica alcun taglio). Petra Lang, al contrario, sfoggia intonazione e appiombo ritmico pressoché infallibili, ma minor robustezza. Al pari di molti illustri precedenti, dalla Urmana alla Meier, è un’Isotta proveniente dalla schiera dei mezzosoprani (in passato è stata un’ottima Brangäne): e un po’ mezzosoprano resta anche oggi, con un registro acuto più faticoso di quello centrale. È comunque una protagonista icastica, sul piano canoro come su quello scenico, che a questa Isotta dipinta dalla regia – virulenta e un po’ masochista, belva ferita piuttosto che principessa altera – mostra di crederci davvero.

Un’Isotta di matrice mezzosopranile rischia uno scarso distacco timbrico da Brangäne: grazie al suo bel colore di contralto Christa Meyer assicura invece il giusto divario, dando vita a una deuteragonista femminile tormentata – né ancella né angelo custode – e alla prova vocale più compiuta dell’intero cast. Iain Paterson è baritono saldamente declamatorio finché Kurwenal deve fare il soldataccio, ma capace di modulazioni e sfumature quando il personaggio decolla verso i più poetici lidi dell’ultimo atto. A tratti sfocato nell’emissione (e forse anche poco convinto del modo con cui la regista gli fa affrontare il personaggio) il Marke di Georg Zeppenfeld, cui fa da anima nera Raimund Nolte, un Melot in taglia bassobaritonale anziché baritenorile. Mentre Tansel Akzeybek è tenorino di voce esigua, ma gran musicalità: e Thielemann, affidandogli tanto il marinaio del primo atto quanto il pastore del terzo, lo valorizza a ragion veduta.



Tristan und Isolde



cast cast & credits
 
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Sephen Gould (Tristan) e Petra Lang (Isolde) in una scena dello spettacolo
© Bayreuther Festspiele 
Enrico Nawrath

 
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