Christian Thielemann
sta a Wagner come Riccardo Muti sta a Verdi. Pur
separati da una generazione, il direttore berlinese e il maestro napoletano
hanno più duna caratteristica in comune: non sono soltanto – oggi come oggi – i
più vigili, rispettosi e idiomatici interpreti delle partiture wagneriane
(luno) e verdiane (laltro), ma rappresentano lestremo avamposto di una sensibilità
musicale ottocentesca che quasi tutti i grandi del podio, ormai, hanno perso.
Sono, in altre parole, gli ultimi due direttori autenticamente romantici.
Il Tristano di Thielemann è noto pure al pubblico italiano e
anche questa sua esecuzione a Bayreuth non è una novità (si tratta della
ripresa di uno spettacolo dellanno scorso): eppure, ogni volta che lo si
ascolta, sembra nuovo. È la cura dei dettagli intesa non come analiticità fine
a se stessa, ma ricerca inesausta di ogni più piccola e inedita sfumatura a far
apparire la sua concertazione sempre sorprendente, squisitamente narrativa e
altamente ermeneutica al contempo: agile e fresca, verrebbe da dire, se agilità
e freschezza fossero sostantivi congrui per lHandlung wagneriana. Una scena dello spettacolo © Bayreuther Festspiele / Enrico Nawrath
Insomma una lettura musicale che introietta una stratificata tradizione,
da Furtwängler a Karajan, senza però lasciarsi tentare
né dalle cosmiche ridondanze del primo né dalle estenuazioni decadenti del
secondo, in favore di uninterpretazione morbida, cangiante e attentissima alle
ragioni del canto: dove ambiguità armoniche ed evasioni tonali non sono spinte
centrifughe occhieggianti al Novecento (come oggi ci suggeriscono altri grandi interpreti,
da Salonen a Nagano), ma corroborano limplicita tensione verso un “centro”
sfuggente e, tuttavia, innegabile. Ed è in questa ricerca di polarità definite
– dove le continue modulazioni arricchiscono ma non disgregano il quadro, e la
cantabilità dellorchestra funge da collante – che si sostanzia il romanticismo
di Thielemann: il suo Tristano struggente ma non disturbante, la sua
ricerca del bello priva di cadute estetizzanti, il suo aggancio a Weber e Schumann senza scantonare nel passatismo.
Di primo acchito, verrebbe da pensare che lallestimento della regista Katharina Wagner e degli scenografi
Frank Philipp Schlössmann e Matthias
Lippert sarebbe più consonante a quelle letture musicali “schönberghiane” di
cui si diceva che allinterpretazione di Thielemann: le scene presentano distorsioni
geometriche e ambiguità prospettiche – in qualche modo speculari
allindefinitezza tonale wagneriana – che sono un omaggio esplicito al mondo
visivo di Escher e, per ciò stesso,
una presa di posizione estetica verso un Wagner novecentizzato. Se la visualità
dello spettacolo non entra in collisione con le sonorità del direttore, forse, è
anche perché la regista non spinge fino in fondo il proprio progetto: tutto
resta allo stato interlocutorio, circoscritto a singole “trovate”, ma senza una
netta presa di posizione. Una scena dello spettacolo © Bayreuther Festspiele / Enrico Nawrath
Il primo atto è il migliore. La Wagner e i suoi collaboratori
rinunciano a una rappresentazione realistica della nave (aggirando lostacolo,
risolto da ben pochi registi, di unazione ondivagante da un settore allaltro
dellimbarcazione), sostituendola con una sorta di labirintico ingranaggio a
due piani: il che non solo sottolinea la distinzione di classi e di ruoli
(quando il raptus amoroso si scatena, Tristano e Isotta stanno in cima mentre a
Kurwenal e Brangäne resta la parte bassa della scatola scenica), ma evoca
efficacemente il dedalo in cui i protagonisti si sono smarriti e la
macchinosità riservata al loro destino. Appropriata, seppur non inedita, pure
lidea che la passione tra i due esploda ben prima della somministrazione del
filtro damore: tanto che qui la magica bevanda non viene sorseggiata, ma solo
sparsa sulle loro mani. Nel secondo atto, invece, emergono cambiamenti di rotta e forzature:
Tristano e Isotta prigionieri della corte, costretti a un incontro pilotato
dallalto piuttosto che esaltati da un convegno clandestino; Re Marke visto non
come un vecchio, vittima a sua volta degli eventi, ma un uomo di potere violento
e ancor giovane; Tristano che non va scientemente incontro alla spada di Melot,
ma viene da questi pugnalato alle spalle. Insomma lennesima denuncia della sopraffazione
del potere e della codardia dei suoi yes-men; e se il terzo atto torna a
una visualità metafisico-allucinata, il finale – con Marke che lascia cantare a
Isotta la sua Liebestod, ma al calar del sipario la trascina con sé come
schiava sessuale e bottino di guerra – è spoetizzante, benché di forte impatto. Una scena dello spettacolo © Bayreuther Festspiele / Enrico Nawrath
Stephen Gould è un Tristano nella media di oggi, ma non
al di sotto: il che significa talvolta impari ai desiderata del ruolo,
allinterno però di una prestazione complessivamente solida. Il cantante –
soprattutto quanto a intonazione – ha bisogno di un po di tempo per assestarsi,
ma linterprete è compenetrato e porta a termine la serata senza bluff e
senza sconti (superfluo specificare che Thielemann, tanto più a Bayreuth, non
applica alcun taglio). Petra Lang,
al contrario, sfoggia intonazione e appiombo ritmico pressoché infallibili, ma
minor robustezza. Al pari di molti illustri precedenti, dalla Urmana alla Meier, è unIsotta proveniente dalla schiera dei mezzosoprani (in
passato è stata unottima Brangäne): e un po mezzosoprano resta anche oggi,
con un registro acuto più faticoso di quello centrale. È comunque una
protagonista icastica, sul piano canoro come su quello scenico, che a questa
Isotta dipinta dalla regia – virulenta e un po masochista, belva ferita piuttosto
che principessa altera – mostra di crederci davvero.
UnIsotta di matrice mezzosopranile rischia uno scarso distacco
timbrico da Brangäne: grazie al suo bel colore di contralto Christa Meyer assicura invece il giusto divario, dando vita a una
deuteragonista femminile tormentata – né ancella né angelo custode – e alla prova
vocale più compiuta dellintero cast. Iain Paterson è baritono saldamente declamatorio finché Kurwenal
deve fare il soldataccio, ma capace di modulazioni e sfumature quando il
personaggio decolla verso i più poetici lidi dellultimo atto. A tratti sfocato
nellemissione (e forse anche poco convinto del modo con cui la regista gli fa
affrontare il personaggio) il Marke di Georg
Zeppenfeld, cui fa da anima nera Raimund
Nolte, un Melot in taglia bassobaritonale anziché baritenorile. Mentre Tansel Akzeybek è tenorino di voce
esigua, ma gran musicalità: e Thielemann, affidandogli tanto il marinaio del
primo atto quanto il pastore del terzo, lo valorizza a ragion veduta.
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