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Le cento trappole del genere semiserio

di Paolo Patrizi
  Linda di Chamounix
Data di pubblicazione su web 22/06/2016  

Il melodramma semiserio tende a giustapporre – anziché fondere – le proprie disparate sollecitazioni drammaturgiche, né fa eccezione Linda di Chamounix, dove le parti giocose riguardano un personaggio nominalmente di “cattivo”: corredato, sì, da ampie pennellate farsesche, ma sinistro nelle caratteristiche di base. In mancanza di una tradizione esecutiva, che per questo Donizetti “viennese” del 1842 non si è mai formata (le riprese in epoca moderna della Linda sono state significative, ma sporadiche), spetterà al concertatore individuare un baricentro: far pendere l’ago della bilancia verso un sognante romanticismo, affidarsi all’atmosfera semplificatoria della commedia larmoyante, trovare il più autentico spessore del dramma nei suoi innesti comici, esaltare la componente manzoniana della «provvida sventura» (gli addentellati tra Linda e I promessi sposi sono più d’uno, a livello sia di singoli caratteri sia di snodi della trama) appaiono tutte soluzioni ammissibili. Limitarsi a un andamento paratattico, che di volta in volta dia conto dell’uno o dell’altro aspetto, significa invece imboccare la scorciatoia.

Riccardo Frizza, sul podio di quest’edizione romana, imbocca la scorciatoia. Privo dell’interfaccia con una solida lettura registica (Emilio Sagi realizza uno spettacolo assai neutro), e potendo invece contare su alcune notevoli individualità vocali (Jessica Pratt, Ismael Jordi, l’emergente Ketevan Kemoklidze), il direttore si affida al talento canoro dei singoli elementi: riconducendo in tal modo Linda di Chamounix a una semplice passerella di arie e duetti, tanto epidermicamente appagante quanto strutturalmente disorganica. E, d’altronde, anche il côté “buffo” sembra qui valorizzato più grazie all’interprete prescelto (un Bruno De Simone di voce ormai usurata, ma commediante sempre inossidabile) che per una precisa volontà della lettura musicale.

Un momento dello spettacolo. © Yasuko Kageyama
Un momento dello spettacolo.
© Yasuko Kageyama

Da una concertazione latitante sotto il profilo drammaturgico ci si poteva aspettare, però, una spiccata attenzione ai valori formali: aver a che fare con il pubblico di Vienna, anziché con gli assai più vociomani spettatori dello Stivale, sollecitò quella raffinatezza armonica e quella ricchezza strumentale che Donizetti possedeva in massimo grado, ma non sempre sfoderava. Purtroppo Frizza appare deficitario pure sotto questo profilo: l’orchestra dell’Opera di Roma, anzi, ha denunciato fiati poco precisi come non avveniva da tempo; il coro è sembrato chiassoso; certa souplesse acquerellata del primo atto è venuta meno, mentre gli affondi scanditi e vibranti del duetto tra basso e baritono hanno acquistato un’incongrua patina risorgimental-primoverdiana. E se fa piacere che, dopo l’alzata del sipario, non sia stato fatto alcun taglio (nel genere semiserio, basato su un complesso gioco di pesi e contrappesi, i colpi di forbice sono spesso esiziali), resta apparentemente inspiegabile la scelta di aver rinunciato alla Sinfonia: forse la più bella composta da Donizetti e, anzi, come sottolinea il programma di sala dello spettacolo, «uno dei più elaborati brani orchestrali dell’intero Romanticismo italiano».

Con la sua fresca castigatezza e il suo aplomb tecnico inappuntabile, ma mai spericolato, la Pratt è cantante forse più da concerto che da opera. Primadonna rassicurante piuttosto che mattatoriale, parca negli abbellimenti (una cavatina come O luce di quest’anima potrebbe far osare qualcosa in più) ma generosa nelle puntature (che non sempre le riescono al meglio), delinea un personaggio omogeneo nell’emissione come nella psicologia: la sua Linda, più che liliale all’inizio e donna poi, è soprattutto “candida dentro”, dall’inizio alla fine; e il dolore della follia, in quest’interpretazione, è un black-out al termine del quale la protagonista tornerà fedele a se stessa, anziché rappresentare quel passaggio dalla fanciullezza alla maturità che, probabilmente, intendeva Donizetti.

Jordi è un cantante tecnicamente altrettanto solido, ma più gratificante. La perfetta verticalizzazione del suono, e la squillante tenorilità che ne consegue, ne fanno oggi l’esplicito erede di Alfredo Kraus, all’interno, però, d’uno strumento più ricco di smalto e fascinazioni timbriche rispetto al modello. L’interprete, poi, rende naturalmente simpatico il personaggio di Carlo, senza però occultarne quelle ambiguità e pavidità che – a ben vedere – rendono questo Visconte di Sirval più vicino all’Alfredo della Traviata che ai grandi tenori romantici donizettiani. Ma se lui e la Pratt sono ormai una garanzia e non una sorpresa, la rivelazione è la Kemoklidze: per il colore e l’estensione autenticamente contraltili, per la pertinenza scenico-stilistica con cui affronta un ruolo en travesti (il cantore Pierotto, quasi un Orfeo savoiardo) e per la malinconia struggente che imprime alla sua ballata.


Un momento dello spettacolo. © Yasuko Kageyama
Un momento dello spettacolo.
© Yasuko Kageyama

La voce di De Simone è oggi troppo impoverita, in termini di timbro, per delineare quella pericolosità che, dietro la facciata del “buffo”, dovrebbe trapelare dal canto del Marchese di Boisfleury: non il prevedibile vecchio libidinoso da mettere alla berlina, ma un maturo satiro – diciamo un Don Bartolo incattivito dai tardivi appetiti sessuali – di autentico spessore antagonistico. L’arte del dicitore, e la viva personalità attoriale unita a una musicalità sempre saldissima, risolvono però ancora molto. Semmai resta il dubbio di vedere in scena due marchesi, poiché Roberto De Candia, per complessione vocale e vissuto artistico, è baritono lirico-brillante e sarebbe a sua volta un attendibile Boisfleury. Qui, invece, deve farsi carico di Antonio, ruolo tra i più complessi della galleria baritonale donizettiana: un padre proletario, socialmente, ma grand seigneur quanto ad animo e linea di canto, che col senno di poi rappresenta una prova generale del Miller verdiano. De Candia, forse intimidito, l’affronta più con diligenza che con convinzione: l’onore delle armi lo consegue, ma il personaggio ne esce un po’ ridimensionato.

Nei panni del Prefetto – sorta di Padre Cristoforo in terra savoiarda – Christian Van Horn sfoggia voce tanto sonora quanto ingolata, che del basso solenne e ieratico ha l’autorevolezza ma non la morbidezza. Caterina Di Tonno, invece, imprime grande umanità al personaggino della madre di Linda, ultimo tassello di questa messinscena un po’ interlocutoria. La regia di Sagi punta su un’atmosfera estatico-allucinata: tautologica riproposizione del transito drammaturgico della protagonista, che passa dell’estasi rapinosa del soprano di coloratura a una scena di pazzia dalla visionarietà più scabra rispetto a quella di Lucia di Lammermoor. In ciò sono di aiuto la diafana scenografia di Daniel Bianco e l’ampio ricorso al color crema nei costumi di Pepa Ojanguren, ma lo spettacolo fatica a decollare, i cantanti paiono abbandonati a se stessi nella recitazione (cosa che per un cantante-attore come De Simone può essere un vantaggio), l’ambientazione spostata ai primi del Novecento non mostra una vera ragion d’essere. E soprattutto resta l’impressione, anche alla luce di altri titoli donizettiani e belliniani visti negli ultimi tempi, che i nostri teatri si sentano in dovere di mostrarsi à la page con regie azzardate per Mozart, Rossini e Verdi, ma una vera indagine teatrale del belcanto romantico non la si voglia, o non la si sappia, tentare.

Linda di Chamounix
Melodramma semiserio in tre atti


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trama trama



 
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