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La tragica condizione dell置omo
contemporaneo


di Riccardo Cenci
  Proserpina
Data di pubblicazione su web 15/06/2016  

Come nella tradizione del grande teatro tedesco, Wolfgang Rihm si aggrappa al mito per indagare gli smarrimenti della modernità. Il pensiero corre subito al repertorio straussiano o, per avvicinarci ai giorni nostri, alle immersioni nella classicità di Hans Werner Henze. Eppure, contrariamente ai suoi illustri predecessori, Rihm non si rivolge a un poeta contemporaneo per la confezione del libretto, ma preferisce affidarsi a un noto testo di Goethe. Proserpina è un grande monologo, o meglio un melologo, perché già il grande scrittore lo immaginava come una sorta di Gesamtkunstwerk, nel quale la musica doveva rivestire un ruolo capitale. La breve opera ha avuto il suo battesimo nel 2009 a Schwetzingen, e ora viene scelta per concludere il Fast Forward Festival, manifestazione di musica contemporanea ideata dal maestro Giorgio Battistelli. Un allestimento presentato al Teatro Nazionale, prodotto dal Teatro dell’Opera della capitale in collaborazione con il Goethe-Institut di Roma.

La regista Valentina Carrasco gioca tutto sul dualismo luce-tenebra. Il minimalismo dello spettacolo, che si avvale delle scenografie di Carles Berga ispirate alle opere dell’artista Clay Apenouvon, è perfettamente funzionale alla vicenda. La scena si apre su un luogo desolato. Attraverso i veli, dal tenue colore rosato, si indovinano sagome di mobili e corpi che si agitano. Il pensiero corre al Cristo velato del Sanmartino, conservato nella cappella Sansevero di Napoli. Senza voler sovrapporre significati religiosi la morte, vera protagonista della vicenda, si presenta fin da subito. L’ambiente, che sembra evocare una condizione edenica preesistente, in realtà è già infettato dai germi del decadimento. In questa atmosfera onirica le compagne di Proserpina prendono vita, si animano quasi a voler riproporre alla smarrita protagonista i giochi dell’infanzia. Eppure tutto si rivela un’illusione. Il passato può assumere esclusivamente la forma del ricordo, mentre il presente è già deciso. Proserpina è circondata da corpi senza volto, i quali prefigurano il suo destino, apparizioni che intensificano il senso di totale straniamento. Plutone è un manichino inerte ma minaccioso nel suo oscuro cromatismo. Le Danaidi attingono acqua con secchi bucati, accentuando l’idea di dispersione. Gli sforzi umani si rivelano vani, poiché tutto è destinato a svanire.

Un momento dello spettacolo ゥ Yasuko kageyama
Un momento dello spettacolo 
ゥ Yasuko Kageyama

I riferimenti iconografici oscillano fra le invenzioni di Magritte e le fredde allucinazioni di Paul Delvaux. Una strana figura avvolta in un bozzolo nero rotola sulla scena, un braccio lacera l’involucro come in un quadro di Dalì e offre all’inconsapevole Proserpina il frutto del melograno, simbolo di morte. Mangiarlo significa perdersi per sempre nel mondo delle ombre. Il cedimento di Proserpina assume un carattere sensuale. Il suo è un vero e proprio amplesso con la morte, dopo il quale risulterà impossibile tornare indietro. I candidi veli si ritirano veloci rivelando una funerea camera nuziale. Proserpina non può più sfuggire al proprio destino. Le Parche la braccano, la circondano coprendone il corpo con uno strato di nera plastica. Lo sposalizio con la morte può dirsi concluso. Il vuoto e lo smarrimento sono le cifre di questo spettacolo, che vuole evidenziare la cecità dell’uomo moderno. Una frattura incolmabile lo separa dal mondo naturale, che ormai gli risulta estraneo. In quest’ottica un ulteriore livello di lettura rimanda a tematiche ecologiche, alla progressiva e ineluttabile distruzione dell’ambiente, operata in particolare dal petrolio. Proserpina è la vittima di un disegno a lei ignoto, la sua è una condizione tragica priva di qualsiasi redenzione.

Un momento dello spettacolo ゥ Yasuko kageyama
Un momento dello spettacolo 
ゥ Yasuko Kageyama

Lungi dal risultare vacuamente passatista, la partitura di Rihm trasuda suggestioni straussiane e non solo. Quando Proserpina cerca la madre Cerere, la quale le appare come una figura completamente velata ed estranea, si esprime con un virtuosismo canoro che ricorda la Zerbinetta di Arianna a Nasso e, in maniera ancora più scoperta, la Regina della notte del mozartiano Flauto Magico. Il coro punteggia la narrazione in maniera suggestiva, evocando vapori sulfurei e atmosfere funeree. La mente corre agli inizi del teatro d’opera, all’Orfeo di Monteverdi, quasi a voler ricondurre il discorso alle proprie lontane origini. Colpisce in particolare la consapevolezza della tradizione, il volersi inserire in un percorso modificandolo, aggiungendo un ulteriore tassello alla storia del dramma musicale. Nel complesso la scrittura è molto dinamica, pervasa da un forte senso del tragico. L’uso di un organico quasi cameristico non riduce affatto le possibilità della tavolozza orchestrale. Rihm distilla sapientemente i colori e le alchimie timbriche, riservando inoltre una speciale attenzione alle percussioni.

Buona l’esecuzione musicale. Mojca Erdmann viene a capo dell’impervia scrittura vocale, che la costringe a continui salti di registro, con spavalda sicurezza e intensità espressiva. Walter Kobéra dirige gli elementi dell’Orchestra del Teatro dell’Opera con attenzione e mestiere, seguendo abilmente il flusso narrativo senza abdicare del tutto alla fantasia.

Successo di pubblico alla presenza del compositore attualmente scritturato per il Teatro dell’Opera e per il Festival di Roma. 



Proserpina
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