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Giustizia e Destino di un’umanità per il terzo millennio

di Claudio Passera
  Battlefield
Data di pubblicazione su web 06/06/2016  

Quando nel 1968 Peter Brook pubblicò The Empty Space si era già fatta largo in lui da tempo l’idea che apre quel volume come un lapidario aforisma o un programma di ricerca creativa: «Posso prendere un qualsiasi spazio vuoto e chiamarlo palcoscenico vuoto. Un uomo attraversa questo spazio vuoto mentre qualcun altro lo guarda, e questo è tutto ciò di cui ho bisogno perché si inizi un atto teatrale» (Lo spazio vuoto, traduzione italiana a cura di I. Imperiali, Roma, Bulzoni, 1998, p. 21).

Nella penombra della sala, anche quella all’italiana della Pergola, la mente dello spettatore è dunque libera di lavorare e caricare i pochi oggetti sul palcoscenico di potenziale di significazione. Così, quando sulla scena Jared McNeill, nei panni di Yudishtira, rivela che il pavimento su cui cammina è il campo di battaglia intriso del sangue di dieci milioni di cadaveri stroncati dalla guerra tra i cugini Panddava e Kaurava, la mente dello spettatore corre alle immagini d’orrore rimbalzate ogni giorno dai telegiornali: dai conflitti in Siria, nel Mali, in Egitto, agli scontri etnici in Sudan, alla guerra civile in Somalia, in corso dal lontano 1991. È questo l’avvio secco di Battlefield, scandito dai colpi di tamburo del percussionista giapponese Toshi Tsuchitori. Un episodio inedito con cui Brook e Marie-Hèléne Estienne tornano alla miniera spirituale del Mahabharata, lo straordinario poema indiano adattato per le scene da Jean-Claude Carrière, che il regista presentò al festival di Avignone del 1985 (cfr. Lavoro di gruppo con autore: Jean-Claude Carrière, a cura di Siro Ferrone, Drammaturgia a più mani, «Drammaturgia», 1994, n. 1, pp. 184-204).

Un momento dello spettacolo © Caroline Moreau
Un momento dello spettacolo 
© Caroline Moreau

Allora furono nove le ore in cui la saggezza indiana del poema era divenuta spettacolo, traduzione di un universo valoriale incontrato da Brook e dai suoi attori grazie a incursioni e visioni di azioni teatrali in loco, al fine «non di imitare ma di suggerire il profumo dell’India, senza pretendere di essere ciò che non siamo» (P. Brook, Il punto in movimento 1946-1987, traduzione italiana a cura di I. Imperiali, Milano, Ubulibri, 1995, p. 38). Qui, invece, i tempi sono più contratti, e in un veloce atto unico di poco più di un’ora si compie il dramma dei Bharata, tra le indecisioni di Yudishtira, investito della schiacciante responsabilità del potere conquistato al prezzo di tante morti, e il dolore del vecchio re spodestato Dritarashtra, interpretato dall’irlandese Sean O'Callaghan, cui non resta che offrire pochi malfermi consigli al vincitore. Su loro, che pur prostrati dalle battaglie tentano con responsabilità di progettare un futuro di pace, grava la colpa del passato di Kunti, Carole Karemera, madre di Yudishtira, che lega le vicende delle due famiglie e dei loro destini. Su quest’epica della sofferenza, dove anche chi vince deve faticosamente apprendere che «Victory is a defeat», si avverte in lontananza il soffio della morte, che tutto pervade come un finale inarrestabile che non si può ritardare.

Quale spazio resta all’azione umana? Quale alla giustizia? si chiede Yudishtira. Le risposte a questi interrogativi giungono dai racconti e dagli insegnamenti proposti dalla voce di Ery Nzaramba nel ruolo del saggio Vyasa. È lui ad introdurre la recita con alcune brevi parabole che inseriscono un carattere narrativo nella rappresentazione. Lasciato il tono solenne dell’epos, le sagge storie si popolano di colombi, serpenti, falconi, manguste, principi, dei e lombrichi recitate con brio e vitalità dai quattro attori, che si ritrovano a narrare a turno una fiaba, apparentemente innocua e con diverse battute sagaci, dentro la cornice dell’azione tragica dei Bharata. Sorprendono e divertono queste incursioni narrative, in cui il talento degli attori e la loro ricerca d’interazioni con il pubblico emergono con forza nella tensione dei gesti e degli sguardi, scoperti e smascherati dalle luci poetiche e indagatrici di Philippe Vialatte. Il teatro si fonda sulla relazione attore-spettatore. Nel qui ed ora di un contatto emozionale tra pubblico e performer, nello spazio di relazione che una semplice Porta aperta (P. Brook, La porta aperta, Milano, Anabasi, 1994) sa creare nel contesto della recitazione.

Un momento dello spettacolo © Caroline Moreau
Un momento dello spettacolo 
© Caroline Moreau

È anche grazie alla profondità di questo “rapporto” che il messaggio della pièce ci raggiunge con ancora più bruciante incisività. Insieme al malinconico Yudishtira apprendiamo che la ricerca della Giustizia nelle nostre vite è vana. Lo sforzo può rimanere senza alcun risultato se il Destino, che tutto governa, ha un altro progetto.

Sembra di risentire, tra le pieghe di questa sconfortante scoperta, il dramma della conoscenza di Edipo, incapace di sottrarsi alla sorte vaticinata dall’oracolo e di subirne le conseguenze. Ma in Battlefield i conti con il destino dell’uomo appaiono ancora più insopportabili per via del peso della responsabilità individuale dei protagonisti, percepita non come mancanza di valore nel cambiare la sorte che ci attende, ma come consapevolezza di non poterla scansare a causa dei limiti della nostra finitudine. Lo insegna proprio una delle storie di Vyasa.

Camminando lungo una strada, un sapiente rishi vide un verme che, avendo udito il rumore delle ruote di un carro in lontananza, correva quanto più veloce potesse per non rimanerne schiacciato. «Dove scappi verme?». «Fuggo, perché non voglio rimanere sotto le ruote del carro». «Ma sei solo un verme e strisci col tuo ventre nella polvere!». «Hai ragione, mio signore. Ma io, diversamente da quanto pensi, amo la mia vita. Vi trovo qualche piacere e credo che ciò sia giusto. Detesto molti dei miei amici che hanno vite più serene e li invidio. Ma penso che un giorno, quando sarò vecchio, me ne pentirò e otterrò la redenzione». «Sei solo un verme e desideri così tanto la vita?». «Con permesso, mio signore. Ora devo proprio scappare». Ma era solo un verme e non poteva correre molto veloce. Dov’è adesso? Nessuno lo sa.  



Battlefield
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