Quando
nel 1968 Peter Brook pubblicò The Empty Space si era già fatta largo
in lui da tempo lidea che apre quel volume come un lapidario aforisma o un
programma di ricerca creativa: «Posso prendere un qualsiasi spazio vuoto e
chiamarlo palcoscenico vuoto. Un uomo attraversa questo spazio vuoto mentre
qualcun altro lo guarda, e questo è tutto ciò di cui ho bisogno perché si inizi
un atto teatrale» (Lo spazio vuoto, traduzione italiana a cura di I. Imperiali, Roma, Bulzoni, 1998, p.
21).
Nella
penombra della sala, anche quella allitaliana della Pergola, la mente dello
spettatore è dunque libera di lavorare e caricare i pochi oggetti sul palcoscenico
di potenziale di significazione. Così, quando sulla scena Jared McNeill, nei panni di
Yudishtira, rivela che il pavimento su cui cammina è il campo di battaglia
intriso del sangue di dieci milioni di cadaveri stroncati dalla guerra tra i
cugini Panddava e Kaurava, la mente dello spettatore corre alle immagini
dorrore rimbalzate ogni giorno dai telegiornali: dai conflitti in Siria, nel
Mali, in Egitto, agli scontri etnici in Sudan, alla guerra civile in Somalia, in
corso dal lontano 1991. È questo lavvio secco di Battlefield, scandito dai colpi di tamburo del percussionista
giapponese Toshi Tsuchitori. Un
episodio inedito con cui Brook e Marie-Hèléne Estienne tornano alla miniera spirituale del Mahabharata, lo straordinario poema indiano adattato per le scene
da Jean-Claude Carrière, che il
regista presentò al festival di Avignone del 1985 (cfr. Lavoro di gruppo con autore: Jean-Claude Carrière, a cura di Siro
Ferrone, Drammaturgia a più mani,
«Drammaturgia», 1994, n. 1, pp. 184-204).
Un momento dello spettacolo © Caroline Moreau
Allora
furono nove le ore in cui la saggezza indiana del poema era divenuta
spettacolo, traduzione di un universo valoriale incontrato da Brook e dai suoi
attori grazie a incursioni e visioni di azioni teatrali in loco, al fine «non
di imitare ma di suggerire il profumo dellIndia, senza pretendere di essere
ciò che non siamo» (P. Brook, Il punto in movimento 1946-1987, traduzione italiana a cura di I. Imperiali, Milano,
Ubulibri, 1995, p. 38). Qui, invece, i tempi sono più contratti, e in un veloce
atto unico di poco più di unora si compie il dramma dei Bharata, tra le
indecisioni di Yudishtira, investito della schiacciante responsabilità del
potere conquistato al prezzo di tante morti, e il dolore del vecchio re
spodestato Dritarashtra, interpretato dallirlandese Sean O'Callaghan, cui non resta che
offrire pochi malfermi consigli al vincitore. Su loro, che pur prostrati dalle
battaglie tentano con responsabilità di progettare un futuro di pace, grava la
colpa del passato di Kunti, Carole Karemera, madre di Yudishtira, che lega le vicende delle due famiglie e dei
loro destini. Su questepica della sofferenza, dove anche chi vince deve
faticosamente apprendere che «Victory is a defeat», si avverte in lontananza il
soffio della morte, che tutto pervade come un finale inarrestabile che non si
può ritardare.
Quale
spazio resta allazione umana? Quale alla giustizia? si chiede Yudishtira. Le
risposte a questi interrogativi giungono dai racconti e dagli insegnamenti proposti
dalla voce di Ery Nzaramba nel ruolo del
saggio Vyasa. È lui ad introdurre la recita con alcune brevi parabole che inseriscono
un carattere narrativo nella rappresentazione. Lasciato il tono solenne dellepos, le sagge storie si popolano di
colombi, serpenti, falconi, manguste, principi, dei e lombrichi recitate con
brio e vitalità dai quattro attori, che si ritrovano a narrare a turno una
fiaba, apparentemente innocua e con diverse battute sagaci, dentro la cornice
dellazione tragica dei Bharata. Sorprendono e divertono queste incursioni
narrative, in cui il talento degli attori e la loro ricerca dinterazioni con
il pubblico emergono con forza nella tensione dei gesti e degli sguardi,
scoperti e smascherati dalle luci poetiche e indagatrici di Philippe Vialatte. Il teatro si fonda
sulla relazione attore-spettatore. Nel qui ed ora di un contatto emozionale tra
pubblico e performer, nello spazio di relazione che una semplice Porta aperta (P. Brook, La porta aperta, Milano, Anabasi, 1994) sa
creare nel contesto della recitazione.
Un momento dello spettacolo © Caroline Moreau
È anche grazie alla profondità di questo “rapporto” che il
messaggio della pièce ci raggiunge con ancora più bruciante incisività. Insieme
al malinconico Yudishtira apprendiamo che la ricerca della Giustizia nelle
nostre vite è vana. Lo sforzo può rimanere senza alcun risultato se il Destino,
che tutto governa, ha un altro progetto.
Sembra di risentire, tra le pieghe di questa sconfortante
scoperta, il dramma della conoscenza di Edipo, incapace di sottrarsi alla sorte
vaticinata dalloracolo e di subirne le conseguenze. Ma in Battlefield i conti con il destino delluomo appaiono ancora più
insopportabili per via del peso della responsabilità individuale dei
protagonisti, percepita non come mancanza di valore nel cambiare la sorte che
ci attende, ma come consapevolezza di non poterla scansare a causa dei limiti
della nostra finitudine. Lo insegna proprio una delle storie di Vyasa.
Camminando lungo una strada, un
sapiente rishi vide un verme che, avendo udito il rumore delle ruote di un
carro in lontananza, correva quanto più veloce potesse per non rimanerne
schiacciato. «Dove scappi verme?». «Fuggo,
perché non voglio rimanere sotto le ruote del carro».
«Ma sei solo un verme e strisci col tuo ventre nella polvere!». «Hai ragione, mio signore. Ma io, diversamente da
quanto pensi, amo la mia vita. Vi trovo qualche piacere e credo che ciò sia
giusto. Detesto molti dei miei amici che hanno vite più serene e li invidio. Ma
penso che un giorno, quando sarò vecchio, me ne pentirò e otterrò la redenzione». «Sei solo un verme e desideri così tanto la vita?». «Con permesso, mio signore. Ora devo proprio
scappare». Ma era solo un verme e non poteva correre molto veloce. Dovè
adesso? Nessuno lo sa.
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