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Perché è giusto così

di Raffaele Pavoni
  Ave, Cesare!
Data di pubblicazione su web 15/03/2016  

La storia del cinema è costellata di autocelebrazioni e non sorprende che due cinefili instancabili come Joel ed Ethan Coen abbiano sentito la necessità di lasciare un loro contributo in tal senso. Ambientato nella Hollywood degli anni Cinquanta, il film vede protagonista Eddie Mannix (Josh Brolin) produttore esecutivo della Capitol Studios il cui lavoro consiste nel facilitare lo svolgimento delle riprese, coprendo gli scandali degli attori, affrontando le intemperanze dei registi, prevenendo le controversie legali (un fixer, come si dice in gergo). Alla normale frenesia quotidiana si aggiunge però un grave imprevisto: la scomparsa dell’attore Baird Whitlock (George Clooney), impegnato in un peplum sulla vita di Cristo e sulla scoperta del monoteismo da parte dei Romani.  

Non è difficile vedere nella figura di Mannix, liberamente ispirata all’omonimo studio executive della Metro Goldwin Meyer di quegli anni, un alter ego dei fratelli Coen, ed è facile riconoscere nel suo continuo barcamenarsi tra gli imprevisti del set una myse en abime del lavoro degli stessi registi. Ave, Cesare! si muove su un piano metacinematografico, ma non tanto (o non solo) nel senso di un’esibizione del set e dei rapporti di produzione, quanto nel sottile parallelismo tra fatti narrati e narrazione dei fatti, un’interazione tra i due piani che talvolta, come nelle due lunghe scene di ballo, porta a una loro sovrapposizione. Mantenendo il gusto per l’assurdo, i due registi mettono in scena la propria esasperazione, in quello che è forse il loro film più autobiografico. Tra attori incompetenti imposti dalla produzione, altri superbi ma totalmente inaffidabili, giornalisti-avvoltoi, nulla osta delle autorità religiose, i Coen sembrano chiedersi: vale ancora la pena di fare cinema?



Una scena del film

La risposta è sì. Mannix, uno dei migliori Josh Brolin di sempre, incarna alla perfezione questo turbamento, nel più classico degli antieroi coeniani, perennemente in bilico tra successo e catastrofe. Ma è anche e soprattutto un personaggio noir: ambiguo, pragmatico, apparentemente contenuto ma capace di ricorrere alle maniere spicce, arrivando a schiaffeggiare attori (e attrici!) per punire la loro disobbedienza. Il tutto, però, con compostezza ed eleganza, come se lo schiaffo, per riprendere quello che André Bazin diceva della pistola di Humphrey Bogart, più che un atto di violenza fisica rappresentasse l’argomento che disorienta. Il film si apre con il protagonista che scopre una delle sue attrici nell’atto di prestare la sua immagine a un fotografo osé senza preventiva autorizzazione da parte della casa di produzione. Già da questa prima scena si coglie il respiro dell’opera, il suo procedere per frammenti, infarcita di un citazionismo esasperato. A intermezzi corali, in cui i Coen ricreano le atmosfere della golden age hollywoodiana, si alterna una narrazione caratterizzata da continue riprese degli stilemi del cinema classico. È su questo registro che si svolgono le sottotrame dei personaggi, ognuna delle quali rappresenta un film a sé stante.

Una scelta ardita che avrebbe potuto degenerare nel mero esercizio di stile se tale rischio non fosse stato scongiurato, in pieno stile Coen, con una massiccia dose di ironia. Stemperando la cinefilia dell’operazione in un registro comico, i registi presentano una carrellata di personaggi verosimili ma mai realmente esistiti, evitando di cadere nella trappola del citazionismo fine a sé stesso. Ave, Cesare! non è un saggio sullo studio system, né una semplice operazione nostalgia: i Coen non rimpiangono i generi classici, ma diventano essi stessi classici, in un pastiche testuale il cui scopo è, essenzialmente, quello di divertirsi. Se il film è costruito come un gioco di scatole cinesi, i due autori sembrano appunto voler giocare, chiamando lo spettatore a fare altrettanto.



Una scena del film

Attraversando i generi con la stessa facilità con la quale il protagonista entra ed esce dagli studios (altra metafora metacinematografica), il film ha buon gioco nello sfruttare al meglio le potenzialità recitative dei singoli attori, ritagliati sulle caratteristiche di ciascun personaggio. Su tutte, spicca la performance di Clooney perfetto nel ruolo di divo alcolizzato e un po’ imbecille che, rapito da un collettivo di sceneggiatori comunisti che si lamentano per la propria condizione salariale, viene rapidamente convinto della bontà della causa e solidarizza con loro. Il suo confronto con Herbert Marcuse, giunto a Hollywood per portare il proprio sostegno morale alla rivolta, è un piccolo capolavoro di cinema dell’assurdo. Perfettamente nella parte anche Channing Tatum, di giorno attore in un musical di marinaretti che ballano il tiptap, di notte membro del Comintern nonché capo della banda di rapitori.

Sottotono, invece, la vicenda delle giornaliste gemelle Thacker, entrambe interpretate da Tilda Swinton, alle quali Mannix deve fornire scoop quotidiani, dosandoli e garantendone la veridicità, in una sorta di negoziazione perenne. Troppo abbozzato, purtroppo, anche l’episodio di DeeAnna Moran (Scarlett Johansson), diva del nuoto sincronizzato che, dovendo ricorrere a un finto marito per giustificare la nascita del figlio di fronte ai media, si rivolge a Joseph Silverman (Jonah Hill), figura misteriosa che di “mestiere” fa il capro espiatorio dei danni delle star. Convince, invece, Laurence Lorenz (Ralph Fiennes), regista di drammi sofisticati costretto per ragioni imposte dall’alto ad accogliere nel suo cast Hobie Doyle (Alden Ehrenreich), divo del western tanto abile nel compiere acrobazie spericolate quanto irrimediabilmente incapace nel recitare battute («sono nato come star del rodeo, poi hanno visto che sapevo anche cantare e mi hanno preso!»). La scena del ristorante, in cui quest’ultimo corteggia l’attrice Carlotta Valdez (Veronica Osorio) afferrandole l’indice con un lazo ricavato da uno spaghetto, è una delle più tenere di tutta la filmografia dei Coen.



Una scena del film

Ave, Cesare! è una carrellata di gustosi aneddoti falsi, una mitopoiesi senza miti, in cui la macchina dei sogni si trasfigura essa stessa in sogno in un magma in cui è impossibile distinguere l’illusione dalla realtà. È qui che si dipana il discorso esistenziale dei Coen: la realtà come caos, nidificazione incontrollabile di eventi che non siamo in grado non solo di prevedere, ma spesso neanche di decifrare. Il tema prende le forme di una disputa teologica, quella delle comunità religiose convocate dal protagonista, con lo scopo di prevenire azioni legali ai danni delle proprie produzioni. Come già in A Serious Man, le istituzioni religiose non sono in grado di fornire soluzioni ai problemi umani.

È in questo senso che può essere interpretato il monologo di Baird Whitlock davanti al Gesù Cristo crocifisso: una lunga e appassionata presa di coscienza dell’esistenza di Dio che nel finale si interrompe bruscamente per una dimenticanza dell’attore, quasi a evidenziare il carattere fittizio dei fondamenti della cristianità. Significativamente, l’attore inciampa sulla parola “fede”: la stessa fede, interiorizzata, alla quale nel finale del film Mannix farà appello per trovare la forza di continuare il proprio operato, rinunciando a condizioni di lavoro migliori in un altro settore perché, istintivamente, sente che è giusto fare quello che fa. Curioso che a trarre queste conclusioni sia proprio colui che di mestiere si occupa di salvaguardare il mos maiorum hollywoodiano, il restauratore della cieca e assurda morale dominante. Spesso accusati di nichilismo e amoralità, i Coen con questo film sembrano voler scardinare le ideologie precostituite facendo appello a una morale spontanea, irrazionale, per la quale è giusto tutto ciò che percepiamo come tale: l’unica motivazione per cui ha senso continuare a fare film.




Ave, Cesare!
cast cast & credits
 


La locandina del film


 
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