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Il giardino dei ciliegi

di Andrea Simone
  Il giardino dei ciliegi
Data di pubblicazione su web 08/03/2016  

Calorosi applausi hanno accolto il debutto italiano di una tra le più celebri pièces di Anton Čechov, Il giardino dei ciliegi (Livada de vişini), messa in scena dal Teatro Nazionale di Cluj-Napoca, con la regia di Roberto Bacci, al Teatro della Pergola di Firenze il 23 e 24 febbraio scorsi. La tournée italiana della compagnia rumena è iniziata nella ricorrenza dei centodieci anni dalla prima assoluta della commedia čecoviana, il 17 gennaio 1904 al Teatro d’Arte di Mosca con la regia di Stanislavskij, e dei centodieci anni dalla morte dell’autore, il 2 giugno 1904. Alla Pergola è andato in scena uno spettacolo rispettoso del testo originale e capace di evidenziare la visione čecoviana del mondo: una commedia che sconfina in una farsa amara e che analizza perfettamente la lucida incapacità di una futile aristocrazia in declino di reagire alla propria rovinosa inettitudine.

Lo spettacolo curato da Bacci è l’ultimo esito della monumentale storia della messa in scena della pièce di Čechov costellata di illuminanti regie ed esemplari rappresentazioni che hanno contribuito alla fama e alla fortuna di questo testo. Dalla prima regia di Stanislavski che, nel 1904, optò per una lettura tragica, provocando le rimostranze dello stesso autore, fino a quelle più moderne di Jean-Louis Barrault, Peter Brook, Giorgio Strehler e Peter Stein, che hanno rivoluzionato il modo di intendere la messa in scena del testo čecoviano. Lavori che ne hanno enfatizzato la tensione sottile appesa all’ambiguità comico-tragica di personaggi che suscitano insieme compassione, senso di distacco e derisione.


Una scena dello spettacolo
Un momento dello spettacolo 
© Filippo Manzini

Bacci si pone nel solco della tradizione che assegna il leitmotiv dello spettacolo all’infrazione della “quarta parete” e alla diretta partecipazione del pubblico, proponendo come elemento di originalità una messa in scena lontana dal dettaglio realistico e che sconfina in un’atmosfera onirica. Evidente l’influenza di due esemplari allestimenti come quello di Strehler del 1974, entrato nell’immaginario collettivo per l’impressionante scenografia che immergeva in un bianco vuoto e abbacinante le vicende di Ljuba e della famiglia Ravenskaja, e quello di Stein del 1989, che segna un vero e proprio punto e a capo nella storia delle messe in scena di Čechov, optando per una lettura corale che sposta gli equilibri fra i personaggi e intensifica le relazioni per cercare di chiarire cosa li muova e li determini. Atmosfera onirica, forte impatto scenografico, intenso lavoro sull’attore e continua relazione con lo spettatore sono le caratteristiche più evidenti dell’ultima versione čecoviana andata in scena alla Pergola.

Una lunga passerella divide in due il teatro e prolunga la scena fino al centro della platea. Gli spettatori vengono sfiorati dalle entrate e dalle uscite degli attori, grazie anche a una funzionale scaletta di raccordo tra passerella e platea. La scenografia è allo stesso tempo essenziale e appariscente in quanto invasa dal biancore di innumerevoli pezzetti di carta, che ricordano sia i paesaggi russi innevati che il candore dei fiori del ciliegio. L’essenzialità, invece, è data dagli unici oggetti di scena: le valigie con cui la famiglia arriva da Parigi all’inizio della pièce e con cui riparte alla fine e che, all’occorrenza, fungono da divani e poltrone da salotto. L’efficacia della messa in scena è garantita da instancabili “attori-acrobati” e dalla loro recitazione che permette allo spettatore di cogliere l’intreccio delle relazioni tra i vari personaggi, nonostante l’ostacolo linguistico, in parte aggirato dai sovratitoli in italiano. Gli attori del Teatro Nazionale di Cluj-Napoca si contraddistinguono per le capacità musicali e i tempi comici di un teatro che, a giudicare dall’efficacia delle azioni sceniche, appare fondato sulla costruzione di sincere e solide relazioni tra gli interpreti, e dunque tra i personaggi, cementate dalla pratica dell’improvvisazione.


Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Filippo Manzini

Ljuba (Ramona Dumitrean) è il simbolo di un intero mondo in declino, quello dei nobili padroni, ormai soppiantato dall’avanzata della nuova classe borghese e materialista, rappresentata da Lopachin (Sorin Leoveanu), il quale, in seguito all’abolizione della servitù della gleba, si carica orgogliosamente del compito di affrancare la propria stirpe dalla condizione servile. Tra questi due personaggi, esponenti di due contrastanti modi di vivere, si gioca la partita della sopravvivenza contraddistinta sia da forti momenti di tensione e di scontro che da spensieratezza e voglia di fare festa. Il campo di gioco è un giardino senza tempo che sembra assistere impotente, come lo spettatore, all’avvicendarsi di generazioni irrimediabilmente lontane e in contrasto tra loro.

La regia propone una lettura corale e ironica, sulle orme di Stein, che valorizza anche le abilità di ciascun interprete lasciando intravedere la tragicità della condizione umana appena al di sotto dell’apparente giocosità e spensieratezza dei personaggi. Lo spettatore si trova immerso nel candore del giardino, in un mondo fantasmagorico popolato da personaggi in bilico tra la vita e la morte, tra il reale e l’onirico. In tal senso sono emblematici il tragicomico Epichodov (Miron Maxim), contabile di famiglia, che si presenta al pubblico, rivoltella alla mano, passeggiando sull’orlo della passerella ed esclamando: «non riesco proprio a capire se vivere o tirarmi un colpo»; la stravagante Šarlotta (Irina Wintze), governante della casa che maschera abilmente la sua tristezza esistenziale sotto le doti di maga improvvisata; e infine l’anziano maggiordomo Firs (Cornel Răileanu) che, con una voce profonda e viscerale, appare dal nulla per ammonire le giovani generazioni, ma non viene mai ascoltato.




Un momento dello spettacolo 
© Filippo Manzini

I colori che prevalgono sono il bianco, dei ciliegi in fiore, e il beige degli abiti di Ljuba e della sua famiglia, a sottolineare il carattere transitorio di un mondo in disfacimento. Il solo Lopachin, non a caso, indossa abiti scuri che si stagliano nettamente sullo sfondo chiaro. Questo personaggio rappresenta il nuovo che avanza e che si definisce distaccandosi dal vecchio mondo sempre più evanescente. Sapiente l’uso del controluce impiegato per accentuare il passaggio dal giorno alla notte e per caricare di ironia e ambiguità alcune scene come quella dell’ennesimo fallito tentativo di suicidio da parte di Epichodov, che resta completamente nudo in scena, aiutato dalla penombra.

Da segnalare sono anche le scene corali e i momenti di infrazione della “quarta parete”: Ljuba che, felice per il ritorno nella terra natia e immersa nei ricordi infantili, cammina appoggiandosi alle poltroncine della platea sfiorando le teste degli spettatori; la scena corale in cui tutti gli attori riproducono fischiando il verso degli uccelli che abitano il giardino; ed infine, la scena della festa in cui gli attori, infaticabili, invadono il foyer del teatro, durante l’intervallo tra i due atti, coinvolgendo gli spettatori stupiti e invitandoli a seguirli in balli e canti, per poi rientrare tutti insieme in sala a riprendere lo spettacolo, in realtà mai interrotto.

La scena finale, particolarmente riuscita, racchiude i nuclei tematici della visione čecoviana: l’ironia del destino vuole che sia proprio quel giardino, simbolo di innocenza  senza tempo, a soccombere, insieme all’anziano maggiordomo Firs, vittime sacrificali dell’indifferenza di un mondo sempre più accecato dalla spietata logica del profitto e della sopravvivenza. Firs, pur essendo seduto in scena, è invisibile agli occhi di tutti e viene dato per ricoverato all’ospedale e abbandonato nella confusione del trasloco. Al giardino dei ciliegi, invece, spetta la tragica sorte dell’abbattimento dopo l’inaspettato ingresso di taglialegna armati di seghe elettriche. Triste epilogo che lascia il pubblico disorientato, invitandolo alla riflessione.  



Il giardino dei ciliegi
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