Jack
(Jacob Trembley), un bambino di
cinque anni, vive nel capanno in cui la madre Joy (Brie Larson) è stata rinchiusa due anni prima della sua nascita,
rapita da un uomo di mezza età, il misterioso Old Nick (Sean Bridgers). Madre e figlio mettono in atto una fuga, ma il
contatto con il mondo esterno si rivela traumatico per il piccolo, il quale è costretto
a capire in breve tempo che le persone, le case, gli alberi, non sono le immagini
piatte trasmesse dalla televisione, ma hanno una loro fisicità, una loro
storia, una loro interazione. Joy, dal canto suo, cerca di reintegrarsi nel
proprio contesto familiare, una missione resa ancor più difficile dalla recente
separazione dei genitori. È stata
sicuramente una piacevole sorpresa per il regista irlandese Lenny Abrahamson, classe 1966, ricevere
per il suo primo progetto transoceanico (una coproduzione tra Irlanda e Canada)
ben quattro nomination allOscar, tra cui quelle per Miglior Film e Miglior Regista.
E una doppia soddisfazione deve aver provato anche la conterranea Emma Donoghue, insignita di una
nomination alla Miglior Sceneggiatura non Originale dal romanzo omonimo, che in
patria si è imposto come vero e proprio caso letterario. Lunica statuetta
ottenuta al Dolby Theatre di Los Angeles, alla fine, è stata quella di Migliore
Attrice Protagonista per limpeccabile performance di Brie Larson. Ma è un
premio che va, implicitamente, anche a Jacob Trembley, vero e proprio enfant prodige di Hollywood, che ad
appena otto anni rivela un talento sorprendente nel rendere unampia gamma di
sentimenti, dalliperattività giocosa della prima parte allapatia malinconica della
seconda. Una scena del film La
storia si ispira allorribile fatto di cronaca noto come il “caso Fritzl”: nella
cittadina austriaca di Amstetten, lingegner Joseph Fritzl rinchiude la figlia in cantina per ventiquattro anni.
Il reiterarsi di abusi sessuali porta la donna a partorire sette figli, di cui
uno morto poco dopo la nascita. Donoghue e Abrahamson prosciugano la vicenda, per
quanto possibile, dagli elementi di disgusto, focalizzandosi piuttosto sulle
reazioni emotive dei personaggi.
La
vicenda aveva già ispirato il crudo Michael
dellaustriaco Markus Schleinzer. Questultimo
(allievo di Michael
Haneke) sposta provocatoriamente il punto di vista da quello della
vittima, allepoca dei fatti onnipresente nei media nazionali e non, a quello
del carnefice. Da lui Abrahamson
sembra riprendere il tema della banalità del male, presentando il rapitore come
un uomo qualsiasi, al di sopra di ogni sospetto: non più un ingegnere, ma un
poveraccio qualunque, con problemi economici (in una scena, addirittura, si
lamenta con Joy della precarietà del suo lavoro). Tuttavia, linsistenza sul
carnefice è limitata: lobiettivo di Abrahamson non è, a differenza di
Schleinzer, quello di scandalizzare il pubblico più ingessato di Cannes, bensì
quello, ben più nobile e ambizioso, di coniugare popolarità e autorialità. Una scena del film Lattenzione
è qui riposta non solo sul piccolo Jack, ma anche sulla madre. Perché ciò che
guida tutto il film, come lo stesso regista ammette, è un sincero spirito
paterno: Room è, prima di tutto,
unindagine sui rapporti familiari e su come essi possano mutare in seguito a uno
shock quale, appunto, quello di un lungo rapimento. I fatti narrati non
rappresentano altro che una sorta di tetro caso di studio. “Cosa succederebbe
se…?”, sembra chiedersi lautore, e cercando la risposta attraverso il mezzo
cinematografico scandaglia le reazioni del figlio, della madre, dei nonni,
indulgendo a primi piani, analizzando le posture, la dialettica tra corpi e
spazi. Quello che attrae il regista sembra essere lassenza di una figura
paterna, di cui lo sguardo della macchina da presa costituisce una sorta di
surrogato. Il sentimento genitoriale, potremmo affermare, dà forma a un vero e
proprio linguaggio. A
differenza dellintellettualismo arido di Schleinzer, quello di Abrahamson è un
approccio affettivo, interessato più ai sentimenti e alla psicologia dei
personaggi che alle dinamiche sociali. E così, si parli di personaggi con
problemi di salute mentale come il benzinaio di Garage (2007) o il cantante mascherato Frank (2014), dei tossicomani Adam
& Paul (2004) o del giovane “assassino per sbaglio” di What Richard did (2012), il minimo comune denominatore resta lo stesso: laffetto per i disadattati e lanalisi delle
loro strategie di sopravvivenza allinterno di determinate norme sociali,
sessuali, economiche, senza tuttavia che queste vengano mai messe in crisi. Non
vi è critica sociale, né melodramma, ma solo un lento e spesso faticoso venire
a patti con lo stigma sociale, trovando un proprio spazio vitale, laddove lo
spazio è sempre visto come qualcosa che tende a escludere, a dissolvere lindividuo
nellambiente.
Una scena del film È in questi termini che il film rende il
trauma del piccolo Jack, catapultato dimprovviso nel vortice infinito del
reale, al di fuori dello spazio, angusto ma rassicurante, del capanno. «Il mondo è come
tutti i pianeti della tv accesi assieme, quindi non so dove guardare, o cosa», dirà a un certo
punto la sua voice over, in uno dei
pochi momenti in cui Abrahamson sembra cedere alla suggestione fanciullesca del
testo di Donoghue: «cè
una porta, e unaltra porta, e altre porte, e dietro cè un altro interno, e un
altro esterno e così via… E le cose succedono e succedono, non smette mai.
Inoltre, il mondo continua a cambiare luminosità e calore, e ovunque volano
infiniti germi».
Quello di Abrahamson è un cinema di recitazione, quindi, ma anche e soprattutto
di spazi, e lo stesso contrasto tra familiare e ostile lo ritroviamo non solo
nello sgabuzzino di Garage o nella
villetta di What Richard did, ma
persino nella maschera di cartapesta di Frank,
la quale, indossata dal protagonista a ogni ora del giorno e della notte, può
essere vista, retrospettivamente, come una versione “indossabile” del capanno
di Jack. Pur presentandosi come studio sui
personaggi, quindi, Room è tutto
fuorché un film a tesi. La camera mostra ma non dimostra, e il nostro percorso
allinterno dei personaggi corrisponde a quello del regista. Come lui ci
meravigliamo di fronte alla capacità del piccolo Jack di trasformare la
prigionia in poesia, e cerchiamo di interpretare il suo disagio nei confronti
del mondo esterno. Come lui ci stupiamo, soprattutto, del potere della macchina
da presa di trasfigurare gli spazi, dilatando ad esempio quello che solo nel
finale realizzeremo essere un modesto e angusto capanno degli attrezzi: sarà
solo la luce del giorno, penetrando finalmente dalla porta, a rivelarcelo (un innovativo
backstage a 360° caricato su YouTube
dal designer Ethan Tobman riproduce
in maniera efficace le reali dimensioni e le proporzioni
di tale spazio). Jack e Joy impareranno a vederlo per quello che è, e noi con loro,
rimodellando il nostro sguardo. Il bel travelling
finale sui due che si allontanano dopo unultima visita alla stanza, con la videocamera
che dal capanno sinvola fino a inquadrare i personaggi in campo lungo, rappresenta,
in tal senso, una sintesi perfetta di questo movimento verso la scoperta del
mondo, verso la padronanza dellesterno giorno.
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