drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

Esterno giorno

di Raffaele Pavoni
  Room
Data di pubblicazione su web 08/03/2016  

Jack (Jacob Trembley), un bambino di cinque anni, vive nel capanno in cui la madre Joy (Brie Larson) è stata rinchiusa due anni prima della sua nascita, rapita da un uomo di mezza età, il misterioso Old Nick (Sean Bridgers). Madre e figlio mettono in atto una fuga, ma il contatto con il mondo esterno si rivela traumatico per il piccolo, il quale è costretto a capire in breve tempo che le persone, le case, gli alberi, non sono le immagini piatte trasmesse dalla televisione, ma hanno una loro fisicità, una loro storia, una loro interazione. Joy, dal canto suo, cerca di reintegrarsi nel proprio contesto familiare, una missione resa ancor più difficile dalla recente separazione dei genitori.

È stata sicuramente una piacevole sorpresa per il regista irlandese Lenny Abrahamson, classe 1966, ricevere per il suo primo progetto transoceanico (una coproduzione tra Irlanda e Canada) ben quattro nomination all’Oscar, tra cui quelle per Miglior Film e Miglior Regista. E una doppia soddisfazione deve aver provato anche la conterranea Emma Donoghue, insignita di una nomination alla Miglior Sceneggiatura non Originale dal romanzo omonimo, che in patria si è imposto come vero e proprio caso letterario. L’unica statuetta ottenuta al Dolby Theatre di Los Angeles, alla fine, è stata quella di Migliore Attrice Protagonista per l’impeccabile performance di Brie Larson. Ma è un premio che va, implicitamente, anche a Jacob Trembley, vero e proprio enfant prodige di Hollywood, che ad appena otto anni rivela un talento sorprendente nel rendere un’ampia gamma di sentimenti, dall’iperattività giocosa della prima parte all’apatia malinconica della seconda.


Una scena del film

La storia si ispira all’orribile fatto di cronaca noto come il “caso Fritzl”: nella cittadina austriaca di Amstetten, l’ingegner Joseph Fritzl rinchiude la figlia in cantina per ventiquattro anni. Il reiterarsi di abusi sessuali porta la donna a partorire sette figli, di cui uno morto poco dopo la nascita. Donoghue e Abrahamson prosciugano la vicenda, per quanto possibile, dagli elementi di disgusto, focalizzandosi piuttosto sulle reazioni emotive dei personaggi.

La vicenda aveva già ispirato il crudo Michael dell’austriaco Markus Schleinzer. Quest’ultimo (allievo di Michael Haneke) sposta provocatoriamente il punto di vista da quello della vittima, all’epoca dei fatti onnipresente nei media nazionali e non, a quello del carnefice. Da lui Abrahamson sembra riprendere il tema della banalità del male, presentando il rapitore come un uomo qualsiasi, al di sopra di ogni sospetto: non più un ingegnere, ma un poveraccio qualunque, con problemi economici (in una scena, addirittura, si lamenta con Joy della precarietà del suo lavoro). Tuttavia, l’insistenza sul carnefice è limitata: l’obiettivo di Abrahamson non è, a differenza di Schleinzer, quello di scandalizzare il pubblico più ingessato di Cannes, bensì quello, ben più nobile e ambizioso, di coniugare popolarità e autorialità.


Una scena del film

L’attenzione è qui riposta non solo sul piccolo Jack, ma anche sulla madre. Perché ciò che guida tutto il film, come lo stesso regista ammette, è un sincero spirito paterno: Room è, prima di tutto, un’indagine sui rapporti familiari e su come essi possano mutare in seguito a uno shock quale, appunto, quello di un lungo rapimento. I fatti narrati non rappresentano altro che una sorta di tetro caso di studio. “Cosa succederebbe se…?”, sembra chiedersi l’autore, e cercando la risposta attraverso il mezzo cinematografico scandaglia le reazioni del figlio, della madre, dei nonni, indulgendo a primi piani, analizzando le posture, la dialettica tra corpi e spazi. Quello che attrae il regista sembra essere l’assenza di una figura paterna, di cui lo sguardo della macchina da presa costituisce una sorta di surrogato. Il sentimento genitoriale, potremmo affermare, dà forma a un vero e proprio linguaggio.

A differenza dell’intellettualismo arido di Schleinzer, quello di Abrahamson è un approccio affettivo, interessato più ai sentimenti e alla psicologia dei personaggi che alle dinamiche sociali. E così, si parli di personaggi con problemi di salute mentale come il benzinaio di Garage (2007) o il cantante mascherato Frank (2014), dei tossicomani Adam & Paul (2004) o del giovane “assassino per sbaglio” di What Richard did (2012), il minimo comune denominatore resta lo stesso: l’affetto per i disadattati e l’analisi delle loro strategie di sopravvivenza all’interno di determinate norme sociali, sessuali, economiche, senza tuttavia che queste vengano mai messe in crisi. Non vi è critica sociale, né melodramma, ma solo un lento e spesso faticoso venire a patti con lo stigma sociale, trovando un proprio spazio vitale, laddove lo spazio è sempre visto come qualcosa che tende a escludere, a dissolvere l’individuo nell’ambiente.

Una scena del film
Una scena del film

È in questi termini che il film rende il trauma del piccolo Jack, catapultato d’improvviso nel vortice infinito del reale, al di fuori dello spazio, angusto ma rassicurante, del capanno. «Il mondo è come tutti i pianeti della tv accesi assieme, quindi non so dove guardare, o cosa», dirà a un certo punto la sua voice over, in uno dei pochi momenti in cui Abrahamson sembra cedere alla suggestione fanciullesca del testo di Donoghue: «c’è una porta, e un’altra porta, e altre porte, e dietro c’è un altro interno, e un altro esterno e così via… E le cose succedono e succedono, non smette mai. Inoltre, il mondo continua a cambiare luminosità e calore, e ovunque volano infiniti germi». Quello di Abrahamson è un cinema di recitazione, quindi, ma anche e soprattutto di spazi, e lo stesso contrasto tra familiare e ostile lo ritroviamo non solo nello sgabuzzino di Garage o nella villetta di What Richard did, ma persino nella maschera di cartapesta di Frank, la quale, indossata dal protagonista a ogni ora del giorno e della notte, può essere vista, retrospettivamente, come una versione “indossabile” del capanno di Jack.

Pur presentandosi come studio sui personaggi, quindi, Room è tutto fuorché un film a tesi. La camera mostra ma non dimostra, e il nostro percorso all’interno dei personaggi corrisponde a quello del regista. Come lui ci meravigliamo di fronte alla capacità del piccolo Jack di trasformare la prigionia in poesia, e cerchiamo di interpretare il suo disagio nei confronti del mondo esterno. Come lui ci stupiamo, soprattutto, del potere della macchina da presa di trasfigurare gli spazi, dilatando ad esempio quello che solo nel finale realizzeremo essere un modesto e angusto capanno degli attrezzi: sarà solo la luce del giorno, penetrando finalmente dalla porta, a rivelarcelo (un innovativo backstage a 360° caricato su YouTube dal designer Ethan Tobman riproduce in maniera efficace le reali dimensioni e le proporzioni di tale spazio). Jack e Joy impareranno a vederlo per quello che è, e noi con loro, rimodellando il nostro sguardo. Il bel travelling finale sui due che si allontanano dopo un’ultima visita alla stanza, con la videocamera che dal capanno s’invola fino a inquadrare i personaggi in campo lungo, rappresenta, in tal senso, una sintesi perfetta di questo movimento verso la scoperta del mondo, verso la padronanza dell’esterno giorno. 



Room
cast cast & credits
 


La locandina del film

 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013