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Morte di Danton

di Anna Barsotti
  Morte di Danton
Data di pubblicazione su web 22/02/2016  

Di sipario in sipario s’affonda fino all’ultima stazione, quando contro un fondale scuro e screpolato oscilla lentamente, come da sé, la sagoma lunga, rettangolare d’una ghigliottina che diventa perciò il simbolo di quanto è avvenuto, l’ultimo personaggio della storia e della Storia.

Ma il sipario, anzi i sipari – ne ho contati quattro sormontati da arlecchino fisso – sono rossi, quindi oltre ad aprirsi e chiudersi nel mezzo, oscillare, gonfiarsi e sgonfiarsi al soffio di invisibili venti – come quando Lucile/Irene Petris rimasta sola col piccino dopo l’uscita, per la platea, del marito, Camille Desmulins/Denis Fasolo, è attanagliata da dubbi e premonizioni –, lampeggiano, s’insanguinano, diventano nero o color oro. Nero dietro alle spalle di Robespierre/Paolo Pierobon, durante l’ultimo colloquio-scontro con Danton/Giuseppe Battiston, mentre resta rosso dietro quelle del protagonista; tutto nero per la scena shakespeariana della crisi con sdoppiamento dell’incorruttibile; oro quando si chiude dopo che Danton ha pronunciato dalla balaustra degli accusati – durante il processo del secondo tempo – la sua arringa comizio eroizzante alla folla, che siamo noi spettatori,  con solo l’appendice di voci registrate che ci accerchiano.

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Giuseppe Battiston (Danton), Paolo Pierobon (Robespierre)
© Mario Spada

Le luci, fondamentali per ottenere questi e altri effetti, sono di Pasquale Mari, storico compagno di strada di Mario Martone – dai tempi di Falso Movimento – ma i sipari sono suoi, del regista/scenografo moltiplicando quello rosso di Rasoi, sipario-mare che indietreggiava ondeggiando e scoprendo via via i personaggi-relitti d’una Napoli inferica e orfeica. Di quello spettacolo mitico dei Teatri Uniti – la regia teatrale di Martone/Toni Servillo (1991), quella filmica del solo Martone (1993) – questo conserva non solo il sipario, qui però spaccato e da spaccarsi nel mezzo, che diventa il modulo scenico di costruzione dei diversi ambienti, ma anche alcuni attori, Roberto De Francesco/Philippeau e Iaia Forte/Julie, i quali d’altra parte appartenendo al vivaio di Teatri Uniti sono anche attori servilliani, specialmente il primo, compagno d’avventura di Toni fin dal Teatro Studio di Caserta negli anni Settanta. Ad essi si unisce il Paolo Graziosi/Payne filosofeggiante nelle galere (già Filippo nella Trilogia della villeggiatura di Servillo) e Alfonso Santagata/Lacroix (già compare del Franco manager dei rifiuti in Gomorra). Questo non per togliere alla carriera individuale di ciascuno – i cecchiani Graziosi e Santagata, quest’ultimo autonomo sperimentatore con Claudio Morganti e poi da solo – ma per individuare la natura di un ensemble gigantesco ma famigliare. Non si dimentichi che Cecchi è stato Cacciopoli nel primo film di Martone, Morte di un matematico napoletano (1992) ed Edipo, sempre per la regia di Martone, in La serata a Colono della Morante (2013).

Infatti, a questa famigliarità partenopea dell’enorme compagnia (trenta attori, alcuni con doppie o triple parti) s’aggiunge quella stanziale dei giovani provenienti dal vivaio di Malosti: la bella e brava Beatrice Vecchione/Marion e, di maggiore esperienza, la sunnominata Lucile/Petris dell’ultima mandata ronconiana. Dirò poi dei due protagonisti antagonisti Danton-Robespierre; per adesso noto come la diversa provenienza dal nord al sud non emerga, come l’insieme sia armonico di voci e di movenze assecondando il ritmo chiaro e scandito dello spettacolo (due tempi, il primo terminante con la suggestiva immagine dei personaggi/attori che cantano la Marsigliese, con un pannello-maschera che ne taglia le teste, il secondo dalla prigione alla ghigliottina), anche se qualche critico disavvertito si è meravigliato dell’intonazione napoletana di alcuni popolani, che non è un vezzo registico ma un’operazione storica: come rendere la parlata di rivoluzionari popolani, oltretutto pronti a voltar gabbana, nell’Ottocento, se non in napoletano?

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Al centro Paolo Pierobon (Robespierre). Dietro, in alto da sinistra
Roberto Zibetti, Mario Pirrello, Pietro Faiella, Fausto Cabra
© Mario Spada

Ma per tornare alle scene, ai sipari, questi non solo incorniciano, scandiscono la successione di quadri – anche alla lettera – in cui si distribuisce il bellissimo testo di Büchner e di cui neppure una parola va sprecata nella messinscena, rendendo un ottimo servizio a un’opera poco rappresentata. Se si finisce con la ghigliottina che oscilla, si incomincia a sipario chiuso, il primo, con Danton/Battiston che dalla sinistra oscilla un po’ anche lui, bicchiere in mano, fuori testo, conducendoci per stazioni successive – ovvero successive aperture – nella casa dove s’allunga soltanto un canapè d’epoca chiaro su cui è sdraiata e da cui si muove Lucile/Petris, per un dialogo dominato dai toni d’una crisi appesa a una complicità di coppia; poi nel salotto equivoco dove il protagonista s’inoltra, con un’apertura su amplessi, per conversare svogliatamente e significativamente coi compagni di cordata che lo frequentano. Due colonne sbrecciate in stile neoclassico stanno a indicare l’inizio della rovina rivoluzionaria, un divano e un tavolino con poltrone descrivono metonimicamente l’ambiente.

Qualcuno ha scritto che il cinema di Martone ha influito su questo gioco di primi, secondi piani e  campi lunghi. Vorrei ricordare che il regista napoletano è prima di tutto teatrante, di ricerca, e proprio le sue di Falso movimento – dove domina una tecnologia semplice ma abbinata ai corpi degli attori – stanno a dimostrare come si usi piuttosto, poi, il cinema, come altra faccia del teatro. I giochi di sipari – cui s’aggiungerà qualche attrezzo efficace come l’inquadratura della grata di ferro per la prigione o, ancora più suggestiva, la finestrella quadrata sospesa in alto dietro la quale s’intravvede in basso la messaggera della ciocca di capelli della moglie e davanti si staglia la figura in controluce di Danton – rivelano che si fa teatro con i mezzi del teatro, che prima del cinema sapeva con immediatezza stabilire i piani. E d’altronde Martone per primo considera separate le due arti. La dinamica dei sipari – dinamico è tutto lo spettacolo – è guidata da due movimenti, uno dall’esterno all’interno e viceversa, perché più ci si avvicina al pubblico più ci si confida, e uno che gioca con il mezzo velluto, come una tenda resa cornice.

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In primo piano a destra Iaia Forte (Julie Danton) e Giuseppe Battiston (Danton). Dietro da sinistra Gloria Restuccia,
Claudia Gambino, Massimiliano Speziani
© Mario Spada

Il fine, oltre che scenografico, è di creare diverse prospettive che includano la sala, più ancora del passeggiare degli attori/personaggi fra il pubblico, del vocio popolare alle sue spalle. Pensiamo – per il primo tempo – alla struttura del comitato di salute pubblica, e a quella, per il secondo, del tribunale. Il tavolo dietro cui siedono i membri ci dà le spalle come loro, così che ci sentiamo parte di quella scena, a maggior ragione quando Robespierre/Pierobon si alzerà per parlare e parlando circumnavigherà il tavolo da vari punti guardandoci in faccia. In questa scena si notano sul lato sinistro la coppia silenziosamente dissidente Lacroix-Philippeau: l’uno, Santagata – anche regista collaboratore della pièce –, s’individua anche soltanto per come fuma e per la parrucca sghimbescia, l’altro, De Francesco, per gli atteggiamenti che ricordano il suo Misantropo. Quanto alla scena del processo, per dare profondità sono disposti in orizzontale da un lato (a sinistra) e dall’altro (a destra) il banco dei giudici e quello degli imputati, ossia tutti i cosiddetti moderati che il rigore robesperiano e il fanatismo di Saint-Just (infiammato Fausto Cabra) ha messo alla sbarra. Così che da questa sbarra Danton/Battiston possa fare il suo risentito discorso al pubblico popolare, eccitandolo, rivolto verso di noi. Un discorso che contrasta per passione e retorica con le parole e i toni usati una scena prima, nella sua casa oramai cosparsa di panni bianchi sui pochi arredi, dove il protagonista si mostra ironicamente rassegnato – è la cifra stilistica di Battiston – alla ghigliottina. Ma la rassegnazione di questo gigante – anche nel physique du rτle – non è passività bensì delusione per gli esiti della rivoluzione sognata e insanguinata, debolezza dei sensi che insegue la gioventù e la bellezza (nella scena con la fanciulla che si ignuda e si bagna fino ai capelli in una tinozza marattiana), trasandatezza nel vestire e nel bere. Il personaggio acquista dunque una valenza duplice: sul fondo d’un umorismo amaro che lo connota fino alla morte s’innesta la coscienza della propria grandezza, che si manifesta proprio nella scena del tribunale.  

Al polo opposto si colloca naturalmente il Robespierre di Pierobon, che si staglia al suo primo apparire come nera sagoma nel costume elegantemente attillato (come gli altri di Ursola Patzak). Una delle caratteristiche dello spettacolo e del regista è quella di riempire di azioni fisiche o di comportamenti le parole del testo. Questo avviene nella contrapposizione fra il disordinato Danton e l’ordinatissimo Robespierre. Il testo è magnifico, d’un romanticismo sturmundranghiano che allude a e fa rivivere la crisi del razionalismo settecentesco, così come questo spettacolo s’inquadra sia nell’epoca del plot sia in quella del suo autore, smussandone leopardianamente le angolosità germaniche, per mostrarne la contemporaneità. Per continuare a dire delle consonanze fra parola e costume, ad esempio, davanti a un Danton che parla del rigore vestamentario di Robespierre si profila, perché i due sono di profilo rispetto al pubblico, la silhouette nera di Pierobon; oppure, quando Julie/Forte – nella scena del suicidio – parla dei volti che si scolorano, tiene in mano il candelabro abbassandolo lentamente in modo che il suo viso s’appanni e dilegui.

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Scena di insieme. Al centro con il braccio alzato
Paolo Pierobon (Robespierre)
© Mario Spada

Pierobon ha avuto molti applausi, meritatissimi, ma non sarebbe potuto essere lui – così netto nella dizione come nei gesti, così gelidamente efficace nella sua eloquenza tribunizia – se non ci fosse stata dall’altra parte la finta approssimazione, raffinata, di Battiston. I due hanno inoltre una scena shakespeariana a testa: il primo nell’amletico primo piano che lo coglie alla ribalta, avanti la condanna definitiva dell’altro, finché non arretra e ci fa vedere con tutto il corpo la sua follia ipercristologica; il secondo nella scena privata e notturna con la moglie, quando rievoca quel terribile “settembre” che ha dovuto operare ma il cui fiume di sangue ora vorrebbe arrestare.

Che dire ancora? Uno spettacolo perfettamente organizzato e orchestrato – ogni personaggio, anche i minori, ha il proprio posto e valore –, che ci avvicina un testo di due secoli fa, anche attraverso le Operette morali, e senza attualismi di maniera ce ne mostra, ahimè, la continuità. Basta pensare a una scena che potrebbe passare inosservata, quella dietro le quinte del processo, ovvero davanti a noi, quando si confabula su come contraffarlo e vincerlo. Una scena a tutti gli effetti di borghesi (nonostante le due teste romane intere ai lati) privi di qualsiasi afflato non dico rivoluzionario ma neppure riformista; che potrebbe proprio continuare oggi nei siparietti dei nostri parlamentari.



Morte di Danton
cast cast & credits
 

Giuseppe Battiston (Danton)
Giuseppe Battiston (Danton)

Paolo Pierobon (Robespierre)
Paolo Pierobon (Robespierre)

 
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