Cominciamo
subito con una domanda: “Perché ha vinto
Fuocoammare
del regista italiano
Gianfranco Rosi?”.
La risposta è semplice: perché è il film migliore presentato in concorso alla Berlinale
di questanno. La presidente della giuria
Meryl
Streep, al fianco del direttore
Dieter
Kosslick, legge il verdetto: «Film eccitante e originale, la giuria è stata
travolta dalla compassione. Un film che mette insieme arte e politica e tante
sfumature. È esattamente quel che significa arte nel modo in cui lo intende la
Berlinale: un racconto libero con immagini di verità che ci racconta quello che
succede oggi. Un film urgente, visionario, necessario».
Non
possiamo non sottoscrivere ogni parola raccomandando a noi stessi di non cedere
né allemozione né al significato politico di unopera che ci giunge al momento
giusto, che si presenta nel luogo giusto alle persone giuste. E che poteva
essere la vincitrice naturale anche in una competizione più combattiva di
quella presentata questanno. Superati i fasti delle lontane edizioni con le
illuminazioni sul cinema estremo orientale, poi su quello medio orientale e più
di recente sulla rinascita sud americana, la presente edizione non è stata
infatti travolgente e alcuni film sono apparsi decisamente spaesati. Comunque
il premio a Rosi non è stato un premio politico (come, per limitarsi ad
edizioni recenti, quello dello scorso anno alliraniano Panahi e al suo
modestissimo Taxi), ma ha tenuto ben
presente la qualità filmica del documentario che supera in maniera si spera
definitiva la distinzione tra documentario (o come si dice con un termine orrendo
che vorremmo veder sparire presto dalla circolazione docu-film) e film (già nel
2003 Winterbottom aveva vinto a
Berlino con In this world, lanno
successivo Michael Moore aveva
conquistato Cannes con Fahrenheit 9/11
e nel 2013 lo stesso Rosi aveva catturato il Leone doro a Venezia con Sacro Gra).
E
infatti la motivazione parla semplicemente dellesigenza di «un racconto libero
con immagini di verità» mentre lo stesso regista, prima che londata mediatica
lo travolgesse facendogli ora correre qualche rischio declaratorio, ha
presentato il film come «una sfida narrativa» che ha impegnato lui e i suoi
collaboratori (abbiamo tra gli altri i nomi di Jacopo Quadri come montatore e Luca
Bigazzi come consulente alla fotografia che dovrebbero allontanare subito
ogni fraintendimento ingenuo) a raccontare la tragedia degli sbarchi a
Lampedusa e insieme lo scorrere “normale” della vita dei suoi abitanti senza
che la narrazione diventasse gratuita. Ci sarà tutto il tempo di rivedere
questa prova di bel cinema neorealista al di fuori delle emozioni e
dellorgoglio della vittoria ma per confermare ampiamente che la sfida è vinta basterebbe
ricordare la sequenza dellanziana donna dellisola che rifà il letto con gesti
antichi e amorosi per sigillare lavvio di giornata con un bacio paritario alle
statuette della Vergine e di padre Pio mentre la tragedia che si svolge
allesterno, evitando il rischio dello stucchevole Nabucco, entra con strazio
nel cuore degli spettatori col coro del rossiniano Mosé: «Dal tuo stellato soglio Signor ti volgi a noi, pietà dei
figli tuoi, del popol tuo pietà».
Se
per il maggiore non potevano esserci grandi incertezze lassegnazione degli
altri premi appare comunque equilibrata e non ideologica.
Forse
solo per lOrso dargento, Gran Premio della Giuria, andato al bosniaco Danis Tanovic per Morte a Sarajevo (Death in Sarajevo) abbiamo qualche
personale riserva. Ambientato nel 2014, il 28 giugno, allHotel
Europa, il migliore della città, mentre si prepara la commemorazione per i
cento anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale e in contemporanea sta per
partire lo sciopero dei dipendenti del personale, il film ci è parso freddo e
molto costruito (tratto dal presuntuoso e farraginoso Hotel Europe di Bernard
Henry Levy che poteva tranquillamente restare su carta). La presunzione
metaforica resta mentre linnegabile maestria tecnica di
Tanovic migliora la fonte ma purtroppo non la rende irriconoscibile.
Orso dargento per il miglior regista alla giovane francese Mia Hansen-Løve,
moglie del regista Olivier Assayas e
dotata in proprio di un robusto talento che riesce a fare de Lavenir una prova equilibratissima e
lieve. Il tema conduttore potrebbe essere quello della solitudine, del tournant de la vie di una matura
insegnante di filosofia che vede sgretolarsi in breve tempo i pilastri della
sua vita: i figli crescono e se ne vanno, pure il marito se ne va, e così gli
allievi prediletti che deludono come i familiari; anche la madre vecchia e
fonte di ansie quotidiane se ne va e la protagonista resta sola. Ma la
protagonista è Isabelle Huppert,
perfetta come sempre, che riesce a rendere con assoluta grazia lo stato incerto
di questo difficile momento della vita e successivamente la fragile
ricostruzione di una propria nuova esistenza.
Il premio Bauer per linnovazione è
andato al filippino Lav Diaz per Lullabay
to the Sorrowful Mystery (Hele Sa Hiwagang Hapis) il film più atteso anche per labnorme
durata che, in un festival assolutamente non provocatorio come quello diretto
da Kostlick, faceva sperare in un capolavoro assoluto. Di grande maestria
tecnica, girato in uno sfolgorante (ci sia consentito lossimoro) bianco e
nero, con una narrazione mai prevedibile, la storia della rivolta antispagnola
capitanata da Andrès Bonifacio y de Castro
è però assai ridondante e la libertà creativa del regista viene riconosciuta
con un premio salvagente, di quelli che non impegnano troppo e che salvano da
“scandalose” esclusioni.
Incontestabile,
pur in unaffollata lista che vedeva almeno Emma Thompson e la stessa Huppert, lassegnazione dellOrso dargento per la miglior attrice alla danese
Trine Dyrholm luce di The
Commune (Kollektivet) di Thomas Vinterberg, girato per fortuna
senza nessuna di quelle regole di Dogma
di cui Vinterberg è stato a suo tempo ideatore assieme a Von Trier. Tratto in parte dalla storia del regista, il film
raccoglie negli anni Ottanta unaffiatata coppia con figlia adolescente in una
grande casa di campagna appena ereditata e nella quale, su input della madre,
si costituisce una squinternata comune, retta da regole di assoluto rispetto
reciproco che si infrangono di fronte alle sorprese della vita stessa e alla
imprevedibilità dei sentimenti. La dolcezza e lentusiasmo dellutopia, la
delusione e lamarezza per lincontrollabilità delle relazioni che porteranno
la protagonista ad una profonda crisi professionale e personale vedono in Trine
Dyrholm linterprete ideale.
Majd Mastoura è stato
premiato come miglior interprete maschile. Il film di cui è protagonista, Hedi (Inhebbek Hedi) del tunisino Mohamed
Ben Attia, racconta la vita di un giovane tunisino e la sua crisi di fronte
allincontro con una ragazza, mentre la madre ha già organizzato il matrimonio
con unaltra donna. La giuria che «ha apprezzato la tenerezza e la sensibilità
della sua interpretazione totalmente coinvolgente» ha anche assegnato al film
lOrso dargento come migliore opera prima…
Come miglior sceneggiatura ha ricevuto lOrso dargento United States of
Love (Zjednoczone stany miłości) del giovane polacco Tomasz Wasilewski che racconta le
storie intrecciate di quattro donne in una piccola città di provincia
allinizio degli anni Novanta quando la società polacca cerca di ridefinire sé
stessa.
Orso dargento per il miglior contributo
artistico alla bellissima fotografia del film cinese Chang Jiang Tu (Crosscurrent) di Yang Chao, poetica e visionaria storia di un marinaio di un
battello lungo il fiume Yangtse e della stessa donna che incontra porto dopo
porto, attracco dopo attracco.
Vorremmo
aggiungere, ma senza alcuna rivendicazione per un verdetto della giuria che ci
pare equilibrato e sensibile, due personali segnalazioni: quella di Cartas da guerra del portoghese Ivo M. Ferreira, raffinatissima storia
in bianco e nero basata sulle lettere dallAngola scritte dal poeta e medico
Antonio Lobo Antunes alla moglie durante la guerra di liberazione dellAngola.
Con esse il regista costruisce un poema visivo di grande equilibrio tra
leleganza del testo e la disorientata e angosciosa presenza delle immagini
della vita militare. E per finire lo sconcertante A dragoon arrives (Ejhdeha
Vared Mishavad!) delliraniano
Mani Haghighi, post moderna
operazione ambientata nellIran degli anni Cinquanta che sotto forma di
inchiesta gialla aspira certamente a più profonde riflessioni politiche.
Irritante, apparentemente sconclusionato, fastidiosamente ostinato a restare
nella memoria.
Bilancio
Berlino 66: ne valeva la pena. Arrivederci?