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I premi

di Sara Mamone
  66° Festival Internazionale del Cinema di Berlino. I premi
Data di pubblicazione su web 21/02/2016  

Cominciamo subito con una domanda: “Perché ha vinto Fuocoammare del regista italiano Gianfranco Rosi?”. La risposta è semplice: perché è il film migliore presentato in concorso alla Berlinale di quest’anno. La presidente della giuria Meryl Streep, al fianco del direttore Dieter Kosslick, legge il verdetto: «Film eccitante e originale, la giuria è stata travolta dalla compassione. Un film che mette insieme arte e politica e tante sfumature. È esattamente quel che significa arte nel modo in cui lo intende la Berlinale: un racconto libero con immagini di verità che ci racconta quello che succede oggi. Un film urgente, visionario, necessario».

Non possiamo non sottoscrivere ogni parola raccomandando a noi stessi di non cedere né all’emozione né al significato politico di un’opera che ci giunge al momento giusto, che si presenta nel luogo giusto alle persone giuste. E che poteva essere la vincitrice naturale anche in una competizione più combattiva di quella presentata quest’anno. Superati i fasti delle lontane edizioni con le illuminazioni sul cinema estremo orientale, poi su quello medio orientale e più di recente sulla rinascita sud americana, la presente edizione non è stata infatti travolgente e alcuni film sono apparsi decisamente spaesati. Comunque il premio a Rosi non è stato un premio politico (come, per limitarsi ad edizioni recenti, quello dello scorso anno all’iraniano Panahi e al suo modestissimo Taxi), ma ha tenuto ben presente la qualità filmica del documentario che supera in maniera si spera definitiva la distinzione tra documentario (o come si dice con un termine orrendo che vorremmo veder sparire presto dalla circolazione docu-film) e film (già nel 2003 Winterbottom aveva vinto a Berlino con In this world, l’anno successivo Michael Moore aveva conquistato Cannes con Fahrenheit 9/11 e nel 2013 lo stesso Rosi aveva catturato il Leone d’oro a Venezia con Sacro Gra).

E infatti la motivazione parla semplicemente dell’esigenza di «un racconto libero con immagini di verità» mentre lo stesso regista, prima che l’ondata mediatica lo travolgesse facendogli ora correre qualche rischio declaratorio, ha presentato il film come «una sfida narrativa» che ha impegnato lui e i suoi collaboratori (abbiamo tra gli altri i nomi di Jacopo Quadri come montatore e Luca Bigazzi come consulente alla fotografia che dovrebbero allontanare subito ogni fraintendimento ingenuo) a raccontare la tragedia degli sbarchi a Lampedusa e insieme lo scorrere “normale” della vita dei suoi abitanti senza che la narrazione diventasse gratuita. Ci sarà tutto il tempo di rivedere questa prova di bel cinema neorealista al di fuori delle emozioni e dell’orgoglio della vittoria ma per confermare ampiamente che la sfida è vinta basterebbe ricordare la sequenza dell’anziana donna dell’isola che rifà il letto con gesti antichi e amorosi per sigillare l’avvio di giornata con un bacio paritario alle statuette della Vergine e di padre Pio mentre la tragedia che si svolge all’esterno, evitando il rischio dello stucchevole Nabucco, entra con strazio nel cuore degli spettatori col coro del rossiniano Mosé: «Dal tuo stellato soglio Signor ti volgi a noi, pietà dei figli tuoi, del popol tuo pietà».

Se per il maggiore non potevano esserci grandi incertezze l’assegnazione degli altri premi appare comunque equilibrata e non ideologica.      

Forse solo per l’Orso d’argento, Gran Premio della Giuria, andato al bosniaco Danis Tanovic per Morte a Sarajevo (Death in Sarajevo) abbiamo qualche personale riserva. Ambientato nel 2014, il 28 giugno, all’Hotel Europa, il migliore della città, mentre si prepara la commemorazione per i cento anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale e in contemporanea sta per partire lo sciopero dei dipendenti del personale, il film ci è parso freddo e molto costruito (tratto dal presuntuoso e farraginoso Hotel Europe di Bernard Henry Levy che poteva tranquillamente restare su carta). La presunzione metaforica resta mentre l’innegabile maestria tecnica di Tanovic migliora la fonte ma purtroppo non la rende irriconoscibile.

Orso d’argento per il miglior regista alla giovane francese Mia Hansen-Løve, moglie del regista Olivier Assayas e dotata in proprio di un robusto talento che riesce a fare de L’avenir una prova equilibratissima e lieve. Il tema conduttore potrebbe essere quello della solitudine, del tournant de la vie di una matura insegnante di filosofia che vede sgretolarsi in breve tempo i pilastri della sua vita: i figli crescono e se ne vanno, pure il marito se ne va, e così gli allievi prediletti che deludono come i familiari; anche la madre vecchia e fonte di ansie quotidiane se ne va e la protagonista resta sola. Ma la protagonista è Isabelle Huppert, perfetta come sempre, che riesce a rendere con assoluta grazia lo stato incerto di questo difficile momento della vita e successivamente la fragile ricostruzione di una propria nuova esistenza.

Il premio Bauer per l’innovazione è andato al filippino Lav Diaz per Lullabay to the Sorrowful Mystery (Hele Sa Hiwagang Hapis) il film più atteso anche per l’abnorme durata che, in un festival assolutamente non provocatorio come quello diretto da Kostlick, faceva sperare in un capolavoro assoluto. Di grande maestria tecnica, girato in uno sfolgorante (ci sia consentito l’ossimoro) bianco e nero, con una narrazione mai prevedibile, la storia della rivolta antispagnola capitanata da Andrès Bonifacio y de Castro è però assai ridondante e la libertà creativa del regista viene riconosciuta con un premio salvagente, di quelli che non impegnano troppo e che salvano da “scandalose” esclusioni.

Incontestabile, pur in un’affollata lista che vedeva almeno Emma Thompson e la stessa Huppert, l’assegnazione dell’Orso d’argento per la miglior attrice alla danese Trine Dyrholm luce di The Commune (Kollektivet) di Thomas Vinterberg, girato per fortuna senza nessuna di quelle regole di Dogma di cui Vinterberg è stato a suo tempo ideatore assieme a Von Trier. Tratto in parte dalla storia del regista, il film raccoglie negli anni Ottanta un’affiatata coppia con figlia adolescente in una grande casa di campagna appena ereditata e nella quale, su input della madre, si costituisce una squinternata comune, retta da regole di assoluto rispetto reciproco che si infrangono di fronte alle sorprese della vita stessa e alla imprevedibilità dei sentimenti. La dolcezza e l’entusiasmo dell’utopia, la delusione e l’amarezza per l’incontrollabilità delle relazioni che porteranno la protagonista ad una profonda crisi professionale e personale vedono in Trine Dyrholm l’interprete ideale.

Majd Mastoura è stato premiato come miglior interprete maschile. Il film di cui è protagonista, Hedi (Inhebbek Hedi) del tunisino Mohamed Ben Attia, racconta la vita di un giovane tunisino e la sua crisi di fronte all’incontro con una ragazza, mentre la madre ha già organizzato il matrimonio con un’altra donna. La giuria che «ha apprezzato la tenerezza e la sensibilità della sua interpretazione totalmente coinvolgente» ha anche assegnato al film l’Orso d’argento come migliore opera prima…

Come miglior sceneggiatura ha ricevuto l’Orso d’argento United States of Love (Zjednoczone stany miłości) del giovane polacco Tomasz Wasilewski che racconta le storie intrecciate di quattro donne in una piccola città di provincia all’inizio degli anni Novanta quando la società polacca cerca di ridefinire sé stessa.

Orso d’argento per il miglior contributo artistico alla bellissima fotografia del film cinese Chang Jiang Tu (Crosscurrent) di Yang Chao, poetica e visionaria storia di un marinaio di un battello lungo il fiume Yangtse e della stessa donna che incontra porto dopo porto, attracco dopo attracco.

Vorremmo aggiungere, ma senza alcuna rivendicazione per un verdetto della giuria che ci pare equilibrato e sensibile, due personali segnalazioni: quella di Cartas da guerra del portoghese Ivo M. Ferreira, raffinatissima storia in bianco e nero basata sulle lettere dall’Angola scritte dal poeta e medico Antonio Lobo Antunes alla moglie durante la guerra di liberazione dell’Angola. Con esse il regista costruisce un poema visivo di grande equilibrio tra l’eleganza del testo e la disorientata e angosciosa presenza delle immagini della vita militare. E per finire lo sconcertante A dragoon arrives (Ejhdeha Vared Mishavad!) dell’iraniano Mani Haghighi, post moderna operazione ambientata nell’Iran degli anni Cinquanta che sotto forma di inchiesta gialla aspira certamente a più profonde riflessioni politiche. Irritante, apparentemente sconclusionato, fastidiosamente ostinato a restare nella memoria.

Bilancio Berlino 66: ne valeva la pena. Arrivederci?



Orso d'oro al miglior film
di Gianfranco Rosi

Orso d'argento Gran Premio della Giuria
di Danis Tanovic

Orso d'argento Premio Alfred Bauer
di Lav Diaz

Orso d'argento al miglior regista
Mia Hansen-Løve 

Orso d'argento alla miglior attrice
Trine Dyrholm 

Orso d'argento al miglior attore
Majd Mastour

Orso d'argento per la miglior sceneggiatura
Tomasz Wasilewski

Orso d'argento per il miglior contributo artistico
Mark Lee Ping-Bing
per la fotografia di Chang Jiang Tu





Una scena del film vincitore Fuocoammare 
di Gianfranco Rosi

 
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