Non immaginavo che unautrice
famosa, ma a me pressoché sconosciuta, raggiungesse unessenzialità così
profonda, evidenze di semplicità tanto toccanti e vere. È dunque sorprendente
assistere allo spettacolo, diretto da Valerio
Binasco, nella traduzione di Pietro
Faiella, che parte dalloriginale francese del testo, datato 1972, della scrittrice
dorigine ungherese trasferitasi in Svizzera. Gli interpreti sono due attori
dai talenti già noti e dalle potenzialità tuttaltro che esaurite, in grado di
apportare alla composizione comune risorse personali ben tipicamente individuate.
È infatti uno spunto drammatico esile, quello del dialogo di Agota Kristof, che fa appello a risorse
mimiche a tecniche recitative fondamentali e composite, dalla pantomima alla
modulazione e alla deformazione vocali, compresa unintelligente inclinazione
imitativa (nel ricordo probabile di Stan
Laurel e Oliver Hardy, o di Charlot) di modelli classici, entrati
nel repertorio comico universale. Il regista li assume come clowns (o maschere odierne) quando
dichiara: «Clown e fool sono personaggi speciali che
prendono su di sé tutto il ridicolo degli uomini senza giudicarlo, quasi senza
accorgersene. La gente che li osserva si riconcilia con il ridicolo e impara a
scoprirne la bellezza».
John e Joe sono i nomi dei due
personaggi colti in situazioni attuali ed emblematiche. Due clochards, legati da amicizia condizionata
(e condizionante) dalla povertà e dalla lotta per la sopravvivenza. Il loro
rapporto, reso nei tre momenti dellAtto unico, è di azione e reazione
spontanee, nello scopo condiviso di unelementare di solidarietà. Eppure i
nonsensi e gli equivoci comici che lo percorrono (monologo a due voci, nel
quale la ricerca del senso della vita passa per i motivi del legame che forma
la coppia) mostrano individualità irriducibili, scontri inevitabili e
riconciliazioni altrettanto necessarie, se non obbligate. La vicenda segue un canovaccio
apparentemente casuale, ma di logica drammaturgica stringente. Nel primo
incontro, i protagonisti sono seduti al tavolino di un bar (unica, semplice
scenografia) e il bicchiere dacqua, il caffè, la grappa che bevono assieme,
sono i soggetti profondi, espressivi di un disagio e di un bisogno di
comunicazione e di affermazione vitale. Conduce il gioco John, un Nicola Pannelli dalla finta sicurezza e
di solerte iniziativa. Gli risponde Joe, nellimpaccio e lo smarrimento duna grave
mancanza di autostima, che Sergio Romano
rappresenta come ferita del corpo, tantè che negli arti somatizza ingenuità e
improntitudine, aggiustandone ossessivamente la postura. Largomento discusso è
lorigine di povertà e ricchezza, così mal distribuite da apparire accidentali
e comunque incomprensibili. Al momento del conto, attingendo agli spiccioli di
entrambi, comunque insufficienti, John entra in possesso dun biglietto della
Lotteria comprato da Joe. I consumatori se la svignano senza pagare. Al secondo
incontro, John vestito a nuovo, offre da bere e da mangiare allamico, stupito
da tanta generosità. Discutono di finanza e John gli rivela di aver vinto alla
Lotteria proprio grazie al suo biglietto fortunato. Allora avviene in Joe uno scatto
intuitivo e decisivo: per «mettersi nei panni» del compare che glielo chiede
metaforicamente, scambia veramente con lui i vestiti. Il portafoglio pieno di
John passa di mano e il debitore ormai nullatenente viene fatto arrestare dal
Cameriere (qui invisibile). La storia finisce col terzo, abbreviato incontro,
in cui John esce dal carcere e trova Joe, rinnovato nellaspetto e nel vestito,
che gli offre un bicchierino e gli rivela di avere egli stesso versato la
cauzione che lo ha liberato.
È lepilogo di un apologo ricco e sapido dinvenzioni
linguistiche e gestuali, frutto dellabilità mimetica e fantastica di Pannelli,
serioso e burbero John e di Romano, stralunato e puntiglioso Joe di calibrata
nevrosi. Grazie alla paziente e lucida composizione di moventi interiori e
scopi espressivi, creata da Binasco (che elimina lattore-Cameriere e lo
sostituisce col suono dei suoi passi e di un campanello, registrati), la doppia
unitaria performance riesce
avvincente, scandita nella misura rigorosa e persuasiva di un balletto di
tenera e sostanziosa poeticità. Sicché un poco anchio mi riconcilio col ridicolo della mia (e loro,
fraterna) umanità.
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