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Dell'ebbrezza (e tristezza) dionisiaca

di Paolo Patrizi
  The Bassarids
Data di pubblicazione su web 15/12/2015  

Le Baccanti è il più enigmatico dei testi di Euripide, né The Bassarids fa nulla per stemperarne la natura sibillina. L’estremo capolavoro euripideo ha ripetutamente sollecitato il teatro musicale del Novecento: ma se Ghedini, nel 1948, tentò di dissipare l’arcano con un’atmosfera favolosa tanto poetica quanto semplificante, e Szymanowski (ventidue anni prima, con Re Ruggero) aggirò il problema abiurando alla dimensione del mito per trasferire la vicenda in una più concreta Sicilia medievale, Henze e i suoi librettisti – quando Le Bassaridi videro la luce, nel 1966 – apparvero ancor più ambigui della loro fonte letteraria.

La dicotomia istinto-ragione, che oppone Dioniso e i suoi invasati seguaci alla rigida temperanza di Penteo, non sfocia, con Euripide, in alcuna presa di posizione: un relativismo etico di estrema modernità (e altrettanto sostanziale civiltà), complicato però dal fatto che entrambi i poli del contendere sono, a ben vedere, indifendibili. Giacché, da un lato, la ferocia con cui Dioniso attua la sua vendetta mostra una sete di rivalsa che fa scadere il dio verso le più meschine pulsioni umane; mentre l’ostilità di Penteo verso la dissolutezza del culto bacchico sfocia in un moralismo compulsivo, e in una castità maniacale, ancor più irrazionali della sfrenatezza dionisiaca. Il testo che Wystan Auden (ancora una volta in collaborazione con Chester Kallman) scrisse per Henze, poi, accentua la sensazione di aver a che fare con figure antipatiche: e sebbene Auden, a parole, sostenne che l’unico vero personaggio negativo è Dioniso, sta di fatto che né il libretto né la musica sembrano giustificare questa lettura unilaterale. 

Yasuko Kageyama
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama

L’ambiguità drammaturgica si traduce in una partitura centrifuga, dove il solo vero collante – più formale che sostanziale – è la struttura “da sinfonia” (quattro movimenti, con al centro un intermezzo): un’implicita ammissione di scarso retroterra operistico (da parte di un compositore come Henze, che all’opera come genere narrativo credeva fortemente) per un lavoro da dipanarsi, semmai, in termini sinfonico-vocali. Quanto al dualismo istinto-ragione, la musica – con efficace schematismo – lo evoca trascolorando da cromatismi a diatonismi, cantabilità acuta e insinuante (quasi serpentina) per Dioniso e robusto, spigoloso declamato centralizzante quando è in scena Penteo. E vien quasi da pensare che per Henze, con il suo pensiero musicale così autonomo rispetto alle avanguardie del Novecento, tale opposizione rispecchiasse un’altra antitesi: quella fra l’antica tradizione tardoromantica (vissuta come radice ineludibile, non nostalgia passatista) e l’estetica del nuovo propugnata dai seguaci di Darmstadt.

Resta da vedere chi, in questo caso, sarebbe Dioniso e chi Penteo. L’ebbrezza bacchica è di coloro che, come Henze, non si peritano di riproporre – senza intenti mimetici, ma come capovolti e rimessi in discussione – gli slanci e i ripiegamenti veterostraussiani? La rigidità di Penteo rientra nella nouvelle vague dei Nono, dei Maderna e degli altri darmstadtiani, preoccupati di costruire una musica in programmatica opposizione con ogni retaggio ottocentesco? O non sarà, invece, il contrario? Sono ipotesi su cui lavorare, ma pure queste domande non offrono risposta. E lo spettacolo che ha inaugurato la stagione dell’Opera di Roma si adegua alla reticenza dell’autore, impaginando The Bassarids con intenti più di ottima confezione che realmente ermeneutici. 

Stefan Soltesz appronta una lettura musicale molto cauta e pulita, forse anche troppo: un certo formalismo è dietro l’angolo, trionfalismi sonori e illividimenti timbrici vengono omogeneizzati in un pedale di relativa uniformità. La stessa scelta (presumibilmente in accordo con la regia di Mario Martone, e comunque ammessa dallo stesso Henze) di eliminare l’intermezzo al centro dell’opera – un momento di teatro del teatro, che fa virare la tragedia euripidea in siparietto da dramma satiresco – non è felice: mancando questo brusco scarto stilistico, che oltretutto pone le premesse per la catastrofe finale, la concertazione di Soltesz appare ancor più indifferenziata. 

Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama

I cantanti si fanno onore soprattutto sul fronte femminile: Veronica Simeoni è un’Agave perfetta nell’isteria più esaltata come nei ripiegamenti lirici, Sara Fulgoni imprime i debiti affondi contraltili a un personaggio di nutrice che sconfina nella Madre Terra, Sarah Hershkowitz è una bella presenza ma non solo. Mentre tra gli interpreti maschili il Cadmo di Mark Doss – ben timbrato e assai autorevole, però mai granitico oltremisura – sopravanza i due protagonisti: Russell Braun non sempre ha lo spessore vocale richiesto da Penteo, e il registro acuto di Ladislav Elgr presenta gravi problematicità alle prese con la scrittura di Dioniso. Il Tiresia di Erin Caves e il Capitano di Andrew Schroeder lasciano intuire due buoni interpreti: ma questi ruoli restano troppo limitati, se si elimina l’intermezzo.

Come negli intenti di Henze e Auden, la messinscena di Martone e dei suoi collaboratori (Sergio Tramonti firma le scene, Ursula Patzak i costumi, Raffaella Giordano le coreografie) fa convivere un’ambientazione euripidea con abiti e oggetti talvolta di foggia moderna, ma la regia resta di segno classico: la dimensione del mito prevale sull’attualità politica, la correttezza figurativa pare più urgente di una presa di posizione che l’opera magari non ha, ma alla quale non per questo un regista dovrebbe abiurare. Insomma, in sintonia con Soltesz, anche Martone punta su rigore omogeneo e severità stilistica. Se qualcosa ne scapita, è la dimensione dell’eros: sono più tristi che attraenti quei nudi femminili così perfetti da risultare plastificati, e pure la vena omosessuale – nel libretto tanto sotterranea quanto palpabile – appare a sua volta disinnescata.

Gli affondi psicanalitici, inevitabili quando si ha a che fare con il mito, sono a loro volta risolti con elegante ovvietà, a cominciare dall’ebbrezza dionisiaca vista come spinta propulsiva dal basso verso l’alto, con le baccanti che affiorano da sotto il palcoscenico e il loro mondo orgiastico interrato restituito attraverso uno specchio utilizzato come fondale. Insomma una regia “impegnata”, ma fondamentalmente calligrafica. E nel teatro d’opera di oggi, forse, non c’è bisogno di uno Zeffirelli di sinistra.


The Bassarids
Opera seria in un atto


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Il regista Mario Martone
Il regista Mario Martone

 
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