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Vita superflua di un'umanità annoiata

di Gianni Poli
  Ivanov
Data di pubblicazione su web 26/10/2015  

Lo spettacolo è frutto di studio minuzioso e adeguata gestazione; di fedeltà al testo, né deviato né stravolto, tanto meno tagliato, nella traduzione di Danilo Macrì. Appaiono subito chiari sia lo stile, giovanile ma originale, del drammaturgo, sia i moventi dei protagonisti e degli interlocutori, riassumibili nell’ignavia e nell’irresponsabilità che producono angoscia e che conducono Nicolaj Ivanov alla disperazione.

Continuano in tournée le rappresentazioni di Ivanov da parte d’una compagnia valente e coesa da esperienze comuni, suscitando tuttavia qualche perplessità e l’impressione di durata eccessiva per ridondanza. Le tre ore compreso l’intervallo sono il risultato della tendenza a sottolineare in ogni episodio tanti segni e connotati didascalici. La recitazione segue variazioni ritmiche, in crescendo specialmente, creando furie e bonacce di un oceano metaforico, della vita che fluttua comune, banale e drammatica, in quella provincia russa in profondo mutamento. Nobili decaduti e nuovi (o aspiranti) ricchi non s’intendono e i più deboli accettano succubi la sconfitta come un destino. Nel suo primo dramma impegnativo (1887) Čechov lo ha già sentito e capito.

Un momento dello spettacolo
                                               © Michele Lamanna
Un momento dello spettacolo
© Michele Lamanna

Filippo Dini e compagnia intendono restituire il fascio di sentimenti, paure e incertezze da cui sono investiti i personaggi e condividerne l’umanità in crisi. In tale quadro ideologico e sociologico, il regista dà spazio scenico specifico a ognuno dei quattro atti. Con Laura Benzi compone altrettanti luoghi – con cambi a vista – per condizioni diverse, che suscitano malessere e senso di decadenza in ambienti dalle tinte scure e screziate. Le luci del tramonto all’aperto illuminano i primi incontri problematici; poi diventano rossastre nel salotto di Lebedev, quando catalizzano il clima d’una squallida depravazione. Il regista amplifica in genere il sottotesto, prolungando e dilazionando l’effetto drammatico. Il quarto atto, giudicato «rapidissimo e concitato», dà un senso di impaziente attesa, più che di suspense per il colpo di scena (e di pistola) del suicida. La scelta intesa a profitto degli interpreti, chiamati a giocare di virtuosismo, va a scapito della rapidità esecutiva, quando il potenziale comico del dramma si dispiega in variazioni farsesche, in numeri affidati alla creatività dell’interprete. Certe situazioni contraddittorie avrebbero potuto risolversi nel grottesco più netto e altre essere informate alla originaria leggerezza d’autore: «La commedia m’è riuscita lieve come una piuma, senza una sola lungaggine».

Un momento dello spettacolo
                                               © Michele Lamanna
Un momento dello spettacolo
© Michele Lamanna

L’aspetto più divertente di Čechov sembra comunque manifestarsi (pure contrastato dalla costante malinconica) nei ritratti personali ben definiti e nelle interazioni delle loro diverse tonalità. Sia negli scontri comici, sia nei nodi più problematici, si concentrano gli a-solo, i duetti e le scene-madre, quali la dichiarazione d’amore di Saša a Ivanov, la rivelazione della gravità della malattia ad Anna (che tramortita crolla e resta a terra, vittima del suo amore sprezzato), il suicidio, in scena, di Ivanov. Sono momenti esemplari delle incertezze, dei dubbi irrisolvibili della vicenda. A partire dalla condizione di Ivanov che, per Filippo Dini attore, è irresoluto tormentato, enfatizza gli errori e i relativi sensi di colpa e s’arrovella sulle cause del proprio male senza affrontarle. Sara Bertelà incarna in Anna Petrovna un difficile compromesso, quasi un ossimoro nell’esprimere amore e ragione: «È una che pensa e una che ama», asserisce l’attrice in un’auto-intervista (condivisa con i colleghi, nel Programma). Così infonde dolce allegria al suo comportamento, pure nel presagio di morte, lei malata incurabile. Sempre vestita di bianco, è vittima e testimone dell’abbandono, resa fantasma dal marito disamorato e traditore. Nicola Pannelli è un Conte zio, burbero e libertino, di forte presenza vocale e qualche compiacimento per valore aggiunto. Il Dottor L’vov è reso monocorde da Ivan Zerbinati, ripetitivo e isolato in un’onestà esibita e inefficace.

Eppure, accanto alla sua paziente, è un ottimista rappresentante del «mondo nuovo». Gianluca Gobbi fa di Lebedev un notabile volgare e beone, nel deluso ricordo degli ideali giovanili condivisi con Ivanov. Sua moglie Savišna è Orietta Notari, disinvolta e malata d’avarizia e di una venalità che intacca l’affetto per la figlia Saša. Quest’ultima è interpretata da Valeria Angelozzi, dalla giovinezza un po’ affettata. Innamorata fino da bambina di un uomo maturo e positivo, s’appassiona ora a salvarlo dalla depressione. Eccentrica, rispetto ad altri allestimenti, è la Babakina, che Ilaria Falini fa sembrare più giovane e davvero “allegra” vedova: una cacciatrice di mariti, bambola ballerina, in costume variopinto. Verve particolare Fulvio Pepe trasmette all’amministratore Borkin, l’unico a liberarsi da dilemmi e condizionamenti e a trarre vantaggio dai guai altrui. L’attore lo vive dichiaratamente come un essere lontano, un doppio da “eseguire” piuttosto che un personaggio da imitare. Perciò la sua resa è tanto diretta e convincente. Lo spettacolo in corso suscita il ricordo di almeno due precedenti edizioni memorabili: quelle con la regia di Andrée Ruth Shammah (protagonisti Franco Parenti e Lucilla Morlacchi. Salone Pierlombardo, 1978-79) e con la regia di Marco Sciaccaluga (con Gabriele Lavia e Daniela Giordano. Teatro Stabile di Genova, 1995-96). 



Ivanov
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