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L'uomo in titanica rivolta

di Gianni Poli
  Prometeoedio
Data di pubblicazione su web 21/10/2015  

Entrando nella sala Aldo Trionfo del Teatro della Tosse, si viene subito immersi in un’azione rumorosa e concitata: Efesto, il fabbro derubato del fuoco da Prometeo, e Cratos, figura mostruosa del Potere, eseguono l’ordine di condanna emesso da Zeus contro il ribelle temerario. Una nota musicale, bassa e ruggente e percussioni, in un impasto di heavy metal, sostengono il ritmo della coinvolgente sequenza iniziale di questo adattamento di Emanuele Conte dell’opera di Eschilo.

L’impianto scenico, unico e fisso, consiste in un’impalcatura per edilizia, chiusa da una grata. Al centro pendono catene con le quali viene brutalmente immobilizzato il fedifrago eroe. È un giovane attore, seminudo, dai muscoli in risalto, quasi un Cristo, una figura sacrificale tratta da immagini di repertorio di orrori consueti. La procedura di incatenamento dura a lungo ed è chiusa dalle martellate che inchiodano il condannato. Sbigottito, ma non domato, Prometeo tenta una spiegazione dei motivi del suo castigo. Mentre s’adatta a un equilibrio penoso e precario (per cui dev’essersi giovato dell’aiuto dell’acting coach Paolo Antonio Simioni, nel mantenere posizione eretta da crocifisso), considera le conseguenze del suo gesto generoso e illuminato verso l’umanità e contro la crudele insensibilità e la gelosia di Zeus. La gratuità del dono si confronta con l’insensatezza del dispotismo incontrato. Si evoca la conquista intelligente della libertà di fronte all’autorità cieca.

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Un momento dello spettacolo 
© Donato Acquaro

Questi sono il tema e il movente del protagonista, nel finale della Trilogia sul Potere allestita da Conte e che, da Antigone e attraverso Caligola, giunge alla ribellione radicale contro la divinità. Il titolo scelto per l’ultima prova propone un’estensione della figura mitologica fino a designare lo scontro assoluto, l’antagonismo che oppone l’uomo a Dio. Ecco allora il Coro delle Oceanine raffigurato in un attore vestito da donna, con un fazzoletto in capo, da devota cattolica filmata dal neorealismo. Quel Corifeo allestisce un altarino, dal quale offre preghiere. Ma a quale Dio? Il vecchio Zeus o il nuovo Salvatore?

L’alta figura del Re Oceano, tutta bianca e ornata d’uno strascico in plastica rifulgente lungo molti metri, discende la platea ed esorta il prigioniero a chiedere perdono per farsi liberare. Prometeo ribadisce le sue ragioni e decanta i benefici resi ai mortali. Il Coro accende candele sull’altare quando irrompe, urlando, Io, già adolescente sensuale, tramutata da Era in mucca, per avere ceduto alla seduzione di Zeus. La fanciulla, candida e cornuta, comincia a raccontarsi. Due grandi corna ricurve le nascono da un casco sul capo, un bell’ordigno scenografico, fra i costumi creati da Daniela De Blasio e realizzati da Umberta Burroni e Paola Ratto (allieve di Lele Luzzati, si capisce). La sventurata, una bella e flessuosa Alessia Pellegrino, è mossa da una continua danza, in un’agitazione forse indotta dalla puntura del Tafano, altro castigo di Era. Chiede a Prometeo notizie sul suo avvenire e Colui-che-prevede, un Gianmaria Martini dal semplice, convincente fervore rivoluzionario, le rivela le sofferenze che precederanno il coronamento glorioso della sua vicenda. Ultimo, appare Ermes in mezzo a statue stilizzate di uomini.


Un momento dello spettacolo© Donato Acquaro
Un momento dello spettacolo
© Donato Acquaro

Inizia un dibattito fra due visioni, in cui il portavoce del Padre-Padrone (così più volte è definito Dio) tenta di fare rinsavire l’ostinato contestatore. Risuonano parole prese dall’uso quotidiano, unica contaminazione linguistica concessasi dall’adattatore e regista, che usa espressioni attuali, anacronistiche rispetto alle antiche. La profetica profondità di Eschilo ha seminato il suo insegnamento, la sua parola ha già posto il suo dilemma eterno sul senso dell’uomo. La reazione di Ermes alla coerenza di Prometeo è quella di un (troppo) saggio servitore d’una concezione ingiusta e caduca. Lo interpreta Enrico Campanati (che era stato, in precedenza, Creonte di fronte ad Antigone e Cherea di fronte a Caligola) ridotto a sfogare, nella distruzione dei simulacri umani, una rabbiosa impotenza.

La scelta definitiva dell’eroe pare suscitare per incanto le condizioni della liberazione. In effetti, è per virtù propria, per fedeltà a oltranza alla propria vocazione (e non per intervento di Eracle, figlio di Io) che, quando tenta di sciogliersi dai lacci, le catene cadono facilmente. L’inconsistenza del potere e la vanità dei riti di pietà sono dimostrate. Sicuro e vittorioso, Prometeo si gode il successo, lo gusta salendo lentamente il corridoio gradinato ed esce dalla sala. Uno spettacolo con molte semplificazioni e qualche ridondanza simbolica e ingenuità. Ma non semplicistico, anche se devia dall’essenziale motivo drammatico dell’originale, il conflitto fra gli dei, estranei ai mortali. Testo e rappresentazione di “attualità”, secondo un umanesimo evidentemente ispirato sia a Goethe, sia a un cristianesimo neo-evangelizzato. Con attori – i più giovani, in particolare – che dall’immaturità traggono energia e sincerità espressive, capaci di conquistare lo spettatore. Applausi a scena aperta, anche dai molti “addetti ai lavori” presenti alla prima.



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