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Il crollo delle utopie e i vizi della contemporaneità

di Riccardo Cenci
  Mahagonny
Data di pubblicazione su web 19/10/2015  

Il contrasto fra la legittima aspirazione dell’uomo alla felicità e le condizioni sociali che non permettono tale realizzazione è alla base del teatro brechtiano, e quindi anche di Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny, frutto più complesso e articolato del binomio che il drammaturgo tedesco costituì con il compositore Kurt Weill. Nell’aderire al progetto, Brecht supera la propria naturale idiosincrasia verso il teatro d’opera, considerato borghese ed eccessivamente legato al sentimento. Ne scaturisce la teorizzazione di una nuova epica, nella quale la musica viene subordinata al testo quale puro veicolo di critica sociale.

La personalità di Weill difficilmente poteva piegarsi a questi assunti. Per questo Mahagonny rappresenta un caso unico, un momento di equilibrio difficilmente ripetibile fra le aspirazioni comunicative del poeta e le ambizioni del musicista. Il nucleo del lavoro deriva da una precedente cantata scenica, eseguita per la prima volta nel luglio del 1927 al Festival di Baden-Baden. L’opera vera e propria venne invece presentata a Lipsia nel 1930, provocando scandalo e interminabili polemiche. Lo spettacolo torna ora al Costanzi di Roma dopo dieci anni, in un allestimento coprodotto con il Teatro La Fenice di Venezia e il Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia.

Un momento dello spettacolo
© Jochen Quast
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama

Graham Vick confeziona uno spettacolo chiassoso, completamente calato nella contemporaneità. La critica alla società capitalistica, destinata ad autodistruggersi a causa dei propri eccessi, si tramuta in un affresco dei vizi e della volgarità del nostro tempo, un poco didascalico nella sovrabbondanza dei riferimenti. Immagini di profughi e migranti sui loro barconi, personaggi abbigliati da terroristi e uomini bardati con il caffetano mediorientale, sotto il quale celano abiti femminili, suggeriscono il caos dell’attualità, senza trovare specifica corrispondenza con la drammaturgia brechtiana. Nella rappresentazione dei vizi trovano spazio il porporato, il carabiniere e le donne discinte in una declinazione italica non nuova, che richiama alla mente l’immaginario felliniano. Cartelloni autostradali, insegne aeroportuali e simboli presi direttamente da internet, come l’enorme segno giallo che indica le posizioni sulle mappe, suggeriscono una società irrequieta in continuo movimento, preda di una frenesia irresistibile.

Ne risulta uno spettacolo movimentato, in alcuni momenti eccessivo, ma comunque animato da una trascinante pulsione teatrale. Dopo il crollo dell’utopia socialista, il messaggio brechtiano si fa ancora più corrosivo nella sua assenza di soluzioni. Vick lo capisce, mettendo in scena personaggi sfrenati e vuoti. In una società dominata dal denaro l’amore può solo essere comprato, trasformandosi in squallida sessualità. I morti vengono portati via in cassonetti della spazzatura, a simboleggiare la perdita di valore dell’individuo. Il terzo atto, nella sua cruda amarezza, è forse il più efficace: i protagonisti tornano sulla scena invecchiati e stanchi, consumati dalla loro stessa irrequietezza. Il denaro non li ha salvati da un rapido declino, e allora ecco irrompere le giovani generazioni, le quali gettano con disprezzo banconote come a indicarne l’assoluta mancanza di valore.


Un momento dello spettacolo
© Jochen Quast
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama

La scena finale è una sorta di Giudizio Universale, durante il quale tutto appare privo di senso. Il sacrificio di Jim è stato inutile. Dai palchi vengono srotolati drappi dai messaggi estremi e contraddittori, mentre i protagonisti brancolano in platea come ombre senza meta. In quest’ottica l’opera assume i caratteri di una parabola non dissimile dai morality plays medioevali. Alcuni hanno letto nel testo una parodia della Bibbia. Certo è che il tifone annunciato alla fine del primo atto, pronto a distruggere la città del vizio e inspiegabilmente deviato, ha toni apocalittici. La disobbedienza all’ordine costituito, l’incapacità dell’uomo di seguire le leggi divine dovrebbero tradursi in una punizione che invece non avviene. Dal dramma emerge Jim il quale, in una sorta di delirio profetico, invece di indicare la retta via spinge l’umanità sul crinale del vizio più sfrenato. L’unico peccato in una città come quella di Mahagonny è la mancanza di denaro, e Jim lo sperimenterà sulla propria pelle. Dopo aver perso tutto in seguito a una scommessa viene processato e condannato a morte, in quanto privo dei soldi necessari per corrompere il giudice di turno. Nessuno lo aiuta.

Efficace l’esecuzione musicale. John Axelrod mostra grande senso del teatro, governando con diligenza e ritmo l’articolato meccanismo della partitura. Compatta e affiatata la compagnia di canto. Ottima Measha Brueggergosman, una Jenny Hill vocalmente duttile e ricca di sfumature interpretative, in particolare nella celebre Alabama song. Bravo anche Brenden Gunnell nel rendere l’evoluzione di Jim, dapprima sfrontato e esuberante, poi vittima dei propri errori. Efficace il veterano Willard White nella parte di Trinity Moses. Apprezzabili Iris Vermillion (Leokadja Begbick) e Dietmar Kerschbaum (Fatty). La recitazione è curata. Buona, infine, la prova del coro. La sala gremita suggerisce che il teatro moderno può far breccia anche nelle menti più conservatrici. Qualche defezione al termine del secondo atto non guasta il successo finale: gli applausi, dapprima moderati, divengono addirittura entusiastici alla fine del terzo atto, segno che il pubblico ha apprezzato l’idea di teatro totale proposta da Vick.




Mahagonny



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