Come
Peter Schlemihl, Undine o lOlandese, il personaggio di Hans Heiling è un
archetipo del romanticismo tedesco: ci si appigli alla vulgata di Theodor Körner, alla fonte dei fratelli
Grimm o al libretto che il
baritono-poeta Philipp Eduard Devrient approntò
per la «Romantische Oper in un
prologo e tre atti» di Heinrich
Marschner (ma il destinatario iniziale era Mendelssohn), questo principe degli gnomi figlio della Regina degli
Spiriti e di un uomo in carne e ossa, destinato dalla sorte al reame elfico ma
innamorato di una femmina terrena, ha in sé quei germi dellIo diviso che
caratterizzano pure gli altri personaggi leggendari di cui si diceva e, qualche
decennio dopo, saranno terreno fertile per la nascente psicanalisi.
Curioso
ma non infondato, dunque, che a Regensburg il bellissimo teatro cittadino (un mix di sfarzo bavarese e grazia
mitteleuropea) abbia proposto lopera di Marschner in una rilettura
drammaturgica dove, al centro della vicenda, viene collocato il capitalismo con
i suoi meccanismi: inteso come materia di rappresentazione, il capitale – lo
ricorda anche Pasolini – offre il
destro a una mitologia e veicola pulsioni utilizzate nel teatro più antico; e
le sue valenze simbolico-sociali non sono peregrine in rapporto alla vicenda di
Hans Heiling, principe ereditario di un mondo sotterraneo dove i sudditi elfi ricavano
pietre preziose, in un ideale rapporto padrone-operaio familiare al socialismo
romantico tedesco, cui perfino Wagner
dovette guardare (se vogliamo attenerci allanalisi di George Bernard Shaw nel suo The
Perfect Wagnerite) a proposito della lotta per la conquista delloro del
Reno. Mentre lo sforzo, da parte di questo Creso degli gnomi, di conquistare il
cuore di una donna diventa speculare – nella messinscena qui proposta dal
regista Florian Lutz e dalla
drammaturga Christina Schmidt – al
tentativo dun capitalista di scendere al livello del proletariato.
Un momento dello spettacolo
© Jochen Quast
Ma,
sembrano suggerire gli autori dello spettacolo, nonostante ogni utopia lamore
non porterà al sovvertimento sociale. E se Marschner chiudeva lopera sotto il
segno di un catartico pessimismo, con il protagonista che tornava rassegnato al
suo mondo, festeggiato dal popolo dei folletti ma con il sogno amoroso
irrimediabilmente infranto, Lutz e la Schmidt capovolgono il finale: far
convergere realtà non comunicanti (padroni e operai, entità fatate versus esseri umani) resta la più folle
delle ambizioni, e Heiling qui viene ucciso dalla stessa fanciulla amata.
Insomma, una messinscena dichiaratamente “a tesi”: stimolante nellassunto e
dipanata con giusta consequenzialità, ma che forse non supporta fino in fondo
il proprio stravolgimento. Brusco e violento, lepilogo dello spettacolo crea
una sconnessione tra realtà e simbolo, vanificando il ruolo di dea ex machina della Regina degli
Spiriti madre di Hans: daltronde, il viraggio della favola in termini
esclusivamente sociopolitici aveva già dimidiato il senso di questo personaggio
di mamma extraterrena, ma umanissima quanto a castrante ossessività, che
trasforma – autentico versante psicanalitico della fiaba – il ritorno del
protagonista presso il suo popolo in una regressione nel ventre materno.
Resta
lefficacia di molte soluzioni visive: il transito dal mondo fatato del prologo
a quello umano nel prosieguo viene realizzato attraverso uno spettacolo
itinerante, facendo prima accomodare il pubblico, con gli gnomi-coristi confusi
tra gli spettatori, nel retropalcoscenico (i fari e i tubi Innocenti accentuano
lidea di trovarsi in una fabbrica, ma intravedere al di là del velatino la
sala teatrale illuminata mantiene il sentore di un mondo fantastico); poi,
durante la Sinfonia (che Marschner colloca tra prologo e primo atto, a
sottolineare il cammino del protagonista da un mondo a un altro), ci si
trasferisce in platea, mentre il resto della messa in scena si svolge
“normalmente” sul palco.
Un momento dello spettacolo
© Jochen Quast
Funziona
piuttosto bene pure la riscrittura dei dialoghi parlati (benché composta nel
1833, Hans Heiling non rinuncia alla
vetusta formula del Singspiel), qui
per lo più affidati a un ideale narratore onnisciente – Nicklas, lunico dei
personaggi privo di momenti cantati già nel libretto – in veste dintrattenitore
televisivo, completo grigio chiaro e microfono in mano, sornionamente e
narcisisticamente incarnato dal tenore-attore Matthias Laferi. Dispiace invece il taglio di un brano pleonastico in
una simile chiave di lettura (il canto nuziale del rustico Stephan, ruolo minore
qui declassato a puro mimo), ma niente affatto inutile per Marschner, che
concepiva talune paginette esornative come momenti necessari a una dialettica
tensione-distensione: ed è la conferma duna certa insensibilità musicale di
questa regia, poi ribadita dai molti rumori, grida e frasi parlate che, nel
corso dello spettacolo, vengono a sovrapporsi al canto e alla musica.
Se
un concertatore più severo avrebbe limitato queste invasività, sta di fatto
però che la bacchetta di Tom Woods rende giustizia alla stratificata
partitura. Grazie anche allottima Orchestra Filarmonica di Regensburg, il
senso plastico della musica di Marschner si profila con nettezza: il corrucciato
brontolio dei bassi e il guizzante sciabolare dei fiati, nel prologo, pennellano
alla perfezione la natura sulfurea e mercuriale degli gnomi; corno e clarinetti
(Weber è dietro langolo…) emergono
nel loro peso coprotagonistico; e pure quel momento dimproba gestione che è il
cosiddetto Melodram (alternanza di
aria e melologo nello stesso brano, dove al cantabile si giustappone un
“parlato” comunque sostenuto dalla piena orchestra) viene risolto con
scioltezza.
Un momento dello spettacolo
© Jochen Quast
Il
palcoscenico, a sua volta, risponde bene: solo per il tenore Steven Ebel – efficace nellincarnare un giovanottone di
sinistra duro e puro, ma troppo acerbo nella sua sorda voce di testa – si può
parlare di una prova da mettere a punto. Il protagonista Adam Kruzel, invece, ha
pregi e limiti di quei baritoni robusti ormai avanti nella carriera: emissione
molto solida, timbro compatto ancorché irruvidito, qualche difficoltà nella
modulazione. Stando così le cose, la doppia natura di Hans Heiling – soprannaturale
e umanissima, diabolica e prostrata, che Marschner risolve con una sapiente
alternanza di declamato e sfumature quasi liederistiche – viene ben tratteggiata
sotto il primo, e meno bene sotto il secondo aspetto. Più che di Heiling, siamo
nei paraggi del protagonista eponimo del Vampiro
(laltro capolavoro marschneriano, anchesso con al centro un baritono,
stavolta cattivo senza “se” e senza “ma”): e tuttavia, pure in una certa
monodimensionalità che il manicheismo ideologico della regia enfatizza, quella
di Kruzel resta una prova energica e professionale.
Il
meglio proviene però dal fronte femminile. Vera
Egorova è una Gertrud spiritosa sul versante
interpretativo (la classica madre preoccupata che la figlia sposi un buon
partito), ma tuttaltro che caricaturale vocalmente: la sua ballata, nel
secondo atto, ha il debito retrogusto “gotico” e sinistro. Oggetto di desiderio
del protagonista, Michaela Schneider dà vita a un personaggio
femminile insieme maturo e fanciullesco, con lintermediazione di una vocalità
corposa ma luminosissima. Mentre Christina
Rümann, benché piombata a sostituire
il soprano titolare, è perfetta nei panni della Regina degli Spiriti madre di
Hans: una mamma giovane e sensuosa, ambigua quanto basta per trasformarsi in
rivale della fidanzata del figlio. E che pure sul piano psicologico-stilistico
centra in pieno il ruolo: trascolorando dalla vocalità svettante e vibrata
impressa nellaria del secondo atto («Grandioso», indica Marschner in
partitura) a unemissione ferma e marmorea, quasi da cantata bachiana, nella
serena severità del canto finale.
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