«La
maggior parte del tempo non succedeva niente. Come nei film francesi». Questa battuta,
contenuta in Mr Nobody, un
dimenticabile film di fantascienza del belga Jaco Van Dormael (stranamente a Venezia cinque anni fa), mal si
addice a entrambe le pellicole francesi questanno in concorso. Infatti sia Marguerite di Xavier Giannoli che Lhermine
di Christian Vincent trovano proprio
nella estrema leggerezza la loro più chiara virtù e il loro più evidente limite.
Vincent non è uno dei cosiddetti “registi da festival”. Fautore di un cinema
apertamente non impegnato si è sempre trovato a suo agio con quella che può
essere definita la commedia sofisticata e anche Lhermine (ovvero “lermellino”) non esce da questo binario.
Xavier
Racine (nome molierianemente rivelatore) è un giudice di corte dassise, così
preciso e pignolo da non risultare troppo amato né dai colleghi né, soprattutto,
dagli avvocati, che non perdono occasione di sparlare alle sue spalle, senza
neanche troppe precauzioni. In un momento particolarmente difficile della sua
vita (si sta separando dalla moglie), è chiamato a esprimersi su un drammatico
caso di infanticidio avvenuto allinterno di una famiglia di giovani sbandati
che sembra uscita da un film dei Dardenne.
Nelleterogenea giuria popolare che lo affianca Racine riconosce la bella
anestesista che lo ha avuto in cura alcuni mesi prima. Inizia così un delicato
corteggiamento che si intreccia con le udienze del processo, con i rapporti tra
i giurati e con le vicissitudini private del giudice, fino a quando tutto
arriverà a sentenza.
Una scena del film
Fin
troppo abilmente scritto (da cui il comprensibile, ma forse eccessivo, premio
per la migliore sceneggiatura della Mostra) il film ribalta la dinamica
rappresentativa di Un giorno in pretura
di Steno, trasformando il rito
giudiziario in una vera e propria rappresentazione teatrale dove il principale
ruolo attoriale passa dagli imputati e dai testimoni alla giuria con il giudice
Racine come assoluto protagonista, regista nonché autentico manipolatore delle
pièce. Chiaramente tutto funziona grazie alla strepitosa interpretazione di Fabrice Luchini (una meritatissima
Coppa Volpi) che, nei panni di Racine, offre un misurato ed esatto ritratto
della meticolosità con annessa inevitabile asocialità del personaggio: mai
sopra le righe e costantemente in parte, Luchini praticamente solleva il
regista dallonere della messa in scena lasciandogli solo il problema di come
inquadrarlo nel migliore dei modi.
«Volevo
parlare della Francia e avevo bisogno di un contesto significativo, un luogo in
cui le tensioni sociali siano cristallizzate come negli ospedali, nelle scuole
e appunto nei tribunali. Ho scelto questultima ambientazione proprio perché non
sapevo niente delle procedure penali». Così il regista ha descritto in
conferenza stampa le ragioni che lhanno spinto a pensare, scrivere e girare la
storia di un processo e del suo giudice, una storia che gli permette di
presentare in modo molto dignitoso e rispettoso una serie di personaggi
credibili con volti e corpi interessanti. Peccato che alla fine il tutto risulti
troppo schiacciato dallevidenza delle sue metafore (su tutte quella iniziale
in cui Racine toglie il verme dalla mela che si accinge a mangiare) e dalla
ferrea volontà del regista di non voler mai abbandonare la leggerezza del suo
registro, anche a costo di sprecare quelle buone occasioni di approfondimento
che la stessa storia poteva offrirgli. Ma, in fondo, si tratta comunque di un
peccato veniale.
Insomma L'hermine è una commedia godibile, ben strutturata
e soprattutto ben recitata che sembra quasi contraddire sia la folgorante frase
di Jean Cocteau per cui «i francesi
sono italiani sempre di cattivo umore», sia la menzionata battuta,
visceralmente anticinefila, del film di Van Dormael, a proposito del quale vale
la pena sottolineare che mentre quei “noiosi” film francesi ancora qualcuno li
ricorda, il suo Mr Nobody è andato
poco oltre al destino contenuto nel suo titolo.
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