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Free in deed

di Raffaele Pavoni
  Free in deed
Data di pubblicazione su web 15/09/2015  

Nella periferia di Memphis, Melva (Edwina Findley), giovane madre disoccupata, chiede aiuto alla chiesa pentecostale per il figlio Benny (RaJay Chandler), affetto da autismo, per il quale la medicina tradizionale non dà soluzioni. Il pastore Abe (David Harewood), fervente religioso in fuga da un passato burrascoso, decide di aiutare la donna, praticando esorcismi nel tentativo di cacciare il presunto demonio nascosto nel bambino. Le sedute, pur non sortendo alcun effetto, sono ripetute fino al tragico quanto inspiegabile decesso del paziente.

Ispirato da una storia vera, l’americano Jake Mahaffy, qui al terzo lungometraggio, ambienta il suo film all’interno di una reale comunità religiosa di Memphis, con un cast composto da attori per lo più non professionisti. Frutto di una gestazione durata dieci anni, il film vince un’importante scommessa alla quale moltissimi cineasti contemporanei guardano con attenzione: realizzare un buon film di finzione con denaro in gran parte ricavato dalle piattaforme di crowdfunding.


Una scena del film
Una scena del film

Il film parte dalla descrizione delle storefront churches, chiese di fortuna per lo più ricavate da edifici commerciali dismessi. Tali centri in molte zone del nord del paese rappresentano l’unica forma di solidarietà e di sostegno alle black communities locali, le stesse che hanno dato al regista sostegno e disponibilità nel corso delle riprese. Ed è proprio ai membri di tali comunità che Mahaffy si rivolge: la sua macchina da presa, attratta dal movimento dei corpi e dal deformarsi dei volti, indugia in primi e primissimi piani, rendendo lo stato di estasi provato dai soggetti catturati con mano sicura e con una forte consapevolezza espressiva.

Poche volte il cinema ha dato una rappresentazione così convincente della folle devozione di certe frange del cattolicesimo statunitense (e non). L’autore si dimostra interessato non tanto alle radici sociali o alle conseguenze fattuali di tale sentimento religioso, quanto alla sua fase dinamica, alle urla indemoniate, al dimenarsi dei corpi che invocano la salvezza, alle ossessive litanie che i pastori di turno cantano a squarciagola. Il ritratto della comunità afroamericana è potente, vibrante; Mahaffy sembra voler sottolineare, al netto di qualsiasi riflessione sociale, la funzione pervasiva della fede, capace di animare i corpi e, per contrasto, di abbandonarli. Quello del regista è un punto di vista agnostico, distante e oggettivo rispetto ai rituali rappresentati, e che ciononostante non esclude l’esistenza di una presenza ultraterrena. Il suo scopo non è quello di smascherare la falsità del credo, cosa che peraltro in fase produttiva gli avrebbe alienato la simpatia della comunità locale, ma la sua inadeguatezza.


Una scena del film
Una scena del film

Il decesso del piccolo Benny non è che la conseguenza di tale insufficienza: «lo stavo esorcizzando, e se ne è andato…», spiega l’incredulo pastore al poliziotto che lo sta arrestando, lasciando in quest’ultimo (e nello spettatore) dubbi irrisolvibili sulla sua effettiva colpevolezza. Mettendo in cortocircuito la verosimiglianza del racconto con la totale inspiegabilità di tale decesso, il regista sviluppa il suo punto di vista. La fede non è percepita come un danno, e anzi può rappresentare una formidabile occasione di riscatto personale (come per Abe) o di sostegno morale (come per Melva). Essa però non riesce a spiegare quei fenomeni paranormali che pure esistono, e che nel loro sfuggire al principio di causa-effetto sarebbe impossibile attribuire al caso. I continui tentativi di esorcismo, con il bambino che si dimena convulsamente sotto la stretta del pastore, assumono quindi una prospettiva quasi teleologica: la morte di Benny si configura come l’espressione della volontà di un’oscura immanenza, che la dottrina cattolica non fa che ostacolare e tentare di soffocare.

Il film evita ogni intellettualismo, prediligendo un’enunciazione diretta, descrivendoci il fervore mistico che aspira alla liberazione attraverso l’azione (la deed del titolo). Le gestualità e le voci dei credenti saturano il film, a livello sia visivo che sonoro, reprimendo sia lo svilupparsi di un discorso verbale sia il potenziale emergere dei sentimenti in campo (si veda l’amore segreto di Melva per Abe, destinato a rimanere insoddisfatto). La liturgia si fa linguaggio, e la sovrabbondanza di stimoli percettivi sembra sottolineare, per contrasto, l’impotenza dimostrata dalla religione cattolica di fronte alla morte del piccolo. Free In Deed è una riflessione amara e profonda, un buon capitolo di cinema indipendente in cui l’approccio documentaristico di partenza non fa che amplificare un dramma che si muove nell’ignoto, nell’inesplorato, nell’irrisolto, e che non può trovare alcuna consolazione, né dentro né fuori da sé.




Free in deed
cast cast & credits
 

La locandina del film
La locandina del film


Il regista Jake Mahaffy
Il regista Jake Mahaffy

 
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