Nella
periferia di Memphis, Melva (Edwina
Findley), giovane madre disoccupata, chiede aiuto alla chiesa pentecostale per
il figlio Benny (RaJay Chandler), affetto
da autismo, per il quale la medicina tradizionale non dà soluzioni. Il pastore
Abe (David Harewood), fervente
religioso in fuga da un passato burrascoso, decide di aiutare la donna,
praticando esorcismi nel tentativo di cacciare il presunto demonio nascosto nel
bambino. Le sedute, pur non sortendo alcun effetto, sono ripetute fino al
tragico quanto inspiegabile decesso del paziente.
Ispirato
da una storia vera, lamericano Jake
Mahaffy, qui al terzo lungometraggio, ambienta il suo film allinterno di una
reale comunità religiosa di Memphis, con un cast
composto da attori per lo più non professionisti. Frutto di una gestazione
durata dieci anni, il film vince unimportante scommessa alla quale moltissimi
cineasti contemporanei guardano con attenzione: realizzare un buon film di
finzione con denaro in gran parte ricavato dalle piattaforme di crowdfunding.
Una scena del film
Il
film parte dalla descrizione delle storefront
churches, chiese di fortuna per lo più ricavate da edifici commerciali
dismessi. Tali centri in molte zone del nord del paese rappresentano lunica
forma di solidarietà e di sostegno alle black
communities locali, le stesse che hanno dato al regista sostegno e
disponibilità nel corso delle riprese. Ed è proprio ai membri di tali comunità che
Mahaffy si rivolge: la sua macchina da presa, attratta dal movimento dei corpi
e dal deformarsi dei volti, indugia in primi e primissimi
piani, rendendo lo stato di estasi provato dai soggetti catturati con mano
sicura e con una forte consapevolezza espressiva.
Poche
volte il cinema ha dato una rappresentazione così convincente della folle
devozione di certe frange del cattolicesimo statunitense (e non). Lautore si
dimostra interessato non tanto alle radici sociali o alle conseguenze fattuali
di tale sentimento religioso, quanto alla sua fase dinamica, alle urla indemoniate,
al dimenarsi dei corpi che invocano la salvezza, alle ossessive litanie che i
pastori di turno cantano a squarciagola. Il ritratto della comunità
afroamericana è potente, vibrante; Mahaffy sembra voler sottolineare, al netto
di qualsiasi riflessione sociale, la funzione pervasiva della fede, capace di animare
i corpi e, per contrasto, di abbandonarli. Quello del regista è un punto di
vista agnostico, distante e oggettivo rispetto ai rituali rappresentati, e che
ciononostante non esclude lesistenza di una presenza ultraterrena. Il suo
scopo non è quello di smascherare la falsità del credo, cosa che peraltro in
fase produttiva gli avrebbe alienato la simpatia della comunità locale, ma la sua
inadeguatezza.
Una scena del film
Il
decesso del piccolo Benny non è che la conseguenza di tale insufficienza: «lo
stavo esorcizzando, e se ne è andato…», spiega lincredulo pastore al
poliziotto che lo sta arrestando, lasciando in questultimo (e nello
spettatore) dubbi irrisolvibili sulla sua effettiva colpevolezza. Mettendo in
cortocircuito la verosimiglianza del racconto con la totale inspiegabilità di
tale decesso, il regista sviluppa il suo punto di vista. La fede non è
percepita come un danno, e anzi può rappresentare una formidabile occasione di
riscatto personale (come per Abe) o di sostegno morale (come per Melva). Essa
però non riesce a spiegare quei fenomeni paranormali che pure esistono, e che nel
loro sfuggire al principio di causa-effetto sarebbe impossibile attribuire al
caso. I continui tentativi di esorcismo, con il bambino che si dimena
convulsamente sotto la stretta del pastore, assumono quindi una prospettiva
quasi teleologica: la morte di Benny si configura come lespressione della
volontà di unoscura immanenza, che la dottrina cattolica non fa che ostacolare
e tentare di soffocare.
Il
film evita ogni intellettualismo, prediligendo unenunciazione diretta,
descrivendoci il fervore mistico che aspira alla liberazione attraverso lazione
(la deed del titolo). Le
gestualità e le voci dei credenti saturano il film, a livello sia visivo che
sonoro, reprimendo sia lo svilupparsi di un discorso verbale sia il potenziale
emergere dei sentimenti in campo (si veda lamore segreto di Melva per Abe,
destinato a rimanere insoddisfatto). La liturgia si fa linguaggio, e la sovrabbondanza
di stimoli percettivi sembra sottolineare, per contrasto, limpotenza dimostrata
dalla religione cattolica di fronte alla morte del piccolo. Free In Deed è una riflessione amara e
profonda, un buon capitolo di cinema indipendente in cui lapproccio
documentaristico di partenza non fa che amplificare un dramma che si muove
nellignoto, nellinesplorato, nellirrisolto, e che non può trovare alcuna
consolazione, né dentro né fuori da sé.
|
|