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A copy of my mind

di Raffaele Pavoni
  A copy of my mind
Data di pubblicazione su web 12/09/2015  

Giacarta: in un appartamento condiviso con un’anziana signora disabile, il trentenne Alek (Chicco Jerikho) si guadagna da vivere traducendo con Google Translate i sottotitoli dei DVD pirata (per lo più pornografici). Di lui si innamora Sari (Tara Basro), graziosa estetista ventottenne appassionata di cinema, che si rivolge al ragazzo per lamentarsi della scadente qualità di uno dei  DVD. Tra i due nasce un amore tenero e scalcagnato, pieno di fantasia e cinefilia. Intanto le piazze, le radio e le televisioni sono “invase” dalla campagna per le imminenti elezioni del governo nazionale.

Il film dell’indonesiano Joko Anwar ha le carte in regola per dar vita a una love story alla Wong Kar-wai vecchia maniera: la passione nelle piccole cose, la poesia dei corpi, dei contatti fisici, degli oggetti, dei dettagli. Ma a due terzi del film succede l’imprevisto: la protagonista, inviata in una prigione di lusso a fare la pulizia del viso a una donna incarcerata per corruzione, ruba un DVD in cui scoprirà un filmato compromettente per alcuni esponenti governativi. Improvvisamente scatta la violenza: il datore di lavoro caccia Sari dal negozio malmenandola, mentre Alek è rapito e torturato. La protagonista, da quel momento in poi, ripercorre tutti i luoghi del film, innescando una sorta di d’iterazione di quanto già visto, forse la “copia della mente” cui allude il titolo. Infine, il politico corrotto vince le elezioni e Sari riabbraccia il suo amato.

 

Una scena del film
Una scena del film

Non è chiaro quale sia l’intento di Anwar. Il film sembra riflettere sulla possibilità di una seconda chance per le nostre azioni e sul fatto che tale replica risulti più disillusa e “adulta” dell’originale: da qui lo straniamento della protagonista e l’analogia (malriuscita) con i film pirata del compagno. Un’altra ipotesi è che il regista intenda sottolineare come la violenza scaturisca dalla volontà di possesso (l’home theatre nel caso di Sari, la casa in campagna per il rapitore), ma, se così fosse, gli elementi critici risultano sporadici, vaghi, incoerenti. Non solo le intenzioni non sono chiare, ma la loro resa cinematografica non funziona: la presenza costante della steadicam anziché portarci nei meandri di Giacarta ce ne allontana appiattendo il contrasto tra quotidianità e realtà socio-politica.

Il tutto potrebbe essere archiviato, se non fosse che in un’intervista il regista ha dichiarato: Ğil film è la mia lettera di amore a Giacarta; soprattutto, però, volevo esporre la situazione politica attualeğ. L’intentio auctoris, prosegue Anwar, è quella di denunciare come Ğreligione, sperequazione sociale, corruzione e politica siano strettamente connesse alla vita di ognuno, anche e soprattutto di chi proviene da uno stato sociale bassoğ. Purtroppo tale proposito si è dissolto in una troppo ambiziosa riflessione autoreferenziale. Il topos del protagonista non politicizzato portato dalla dinamica degli eventi a confrontarsi con il potere, già di per sé ampiamente abusato, si rivela molto lacunoso a livello narrativo, quasi che i conti debbano tornare a priori: lo scontro fortuito con i “potenti” non porta i protagonisti a una presa di coscienza, né è ben chiara la gravità del crimine commesso.

 

Una scena del film
Una scena del film

Anwar cerca di denunciare una precisa situazione politica e al contempo se ne allontana astraendo i fatti dalle contingenze storiche. L’autore lascia che esse emergano spontaneamente dallo sfondo delle vicende amorose, ma senza che si instauri una connessione tra le due sfere. Volendo descrivere la realtà di Giacarta, Anwar non esprime che la sua confusa ambizione a entrare nello stardom dei registi d’essai, infarcendo il materiale di partenza di rimandi eterogenei e disomogenei. Tutto il film è condizionato da questo fatale errore di prospettiva.

L’invettiva sociale, a conti fatti, è talmente spuntata da trasformarsi nel suo opposto, dando allo spettatore occidentale l’immagine di una Indonesia non ricca ma tutto sommato benestante, in cui si vive in minuscoli appartamenti condivisi con decine di persone ma dove il lavoro non manca, i dipendenti hanno un forte potere contrattuale e chi arrotonda con qualche attività al nero riesce pure ad arricchirsi. Dispiace dover demolire un regista poco noto, ma con i film di denuncia non si scherza, e usare le proteste antigovernative come semplice espediente narrativo rende solo un pessimo servizio a tutti. Le competizioni internazionali si vincono non scimmiottando modelli “colti”, ma con una riflessione politica seria, consapevole e personale, come all’ultima Berlinale ha dimostrato l’ultimo, bellissimo Taxi di Jafar Panahi. Una grande occasione sprecata.



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Il regista Joko Anwar
Il regista Joko Anwar



 
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