Ci
aveva avvisati, il direttore artistico Alberto
Barbera, che in questa edizione del Festival di Venezia i registi più noti
avrebbero presentato i film che meno ci saremmo aspettati da loro. E così, dopo
lomaggio al Louvre di Alexandr Sokurov
e lepopea del
bambino soldato di Cary Fukunaga, è il turno di
Drake Doremus. Il regista
indipendente americano sbarca in Laguna con un film di fantascienza: il
racconto distopico di un mondo regolato unicamente dal principio di efficienza,
e dove qualsiasi manifestazione di amore è considerata come un virus (S.O.S. - “Switched-On
Syndrom”) e punita con la reclusione in manicomio.
Protagonisti
del film, come prevedibile, due giovani aspiranti amanti, Silas (Kristen Stewart) e Nia (Nicholas Hoult), colleghi nella
redazione di una rivista scientifica. Perdutamente innamorati, i due fuggono
per sottrarsi ai rigidi controlli della macchina statale, con destinazione la
“Penisola”, luogo in cui si vocifera sia sopravvissuto un branco di
irriducibili selvaggi che vive in una società “deviata” in cui lamore e il
sesso sono la norma: lequivalente della riva del fiume sul quale approda lex-pompiere
Guy Montag alla fine di Fahreneit 451°
di Ray Bradbury. Se per Bradbury,
però, le pulsioni sessuali non sono vietate, ma banalizzate; e se ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley addirittura vengono incentivate come passatempo per i
bambini per evitare che questi sviluppino forme di attaccamento reciproco, qui tali
pulsioni sono tacciate come malattia in grado di minare la produttività della
società.
Una scena del film
Una
delle maggiori difficoltà del genere fantascientifico consiste non tanto nel
delineare i personaggi e i loro rapporti, quanto nelliniziare lo spettatore a
un universo altro, nel renderlo partecipe delle regole che lo sorreggono, dello
stadio di avanzamento (o di digressione) tecnologico e sociale. Soprattutto,
nel caso di racconti di matrice distopica, la difficoltà consiste nel mettere il
futuro in relazione al presente, per riconoscere nel secondo le cause del primo
e per incentivare lo spettatore ad attivarsi perché tali dinamiche non si
inneschino. Il tutto cercando di non risultare didascalici, investendo grandi
somme negli apparati scenografici e negli effetti speciali ed evitando, a meno
che il regista non si chiami Ridley
Scott, di sforare i fatidici 120. I produttori, tendenzialmente, non vanno
pazzi per questo tipo di film, fatta eccezione, appunto, per Scott.
Proprio
il regista di Alien e Thelma & Louise, fondatore con il
fratello Tony della Scott Free
Production, è il produttore esecutivo di questa pellicola, e la sua è una
presenza ingombrante. Simile per molti versi a quello della megalopoli di Blade Runner, il tessuto (anti)sociale
di Equals riprende molte delle ansie
e paure di cui era permeato il capolavoro scottiano: il problema dellidentità
del singolo, il conflitto uomo-macchina, lalienazione delle città moderne, la
nostalgia di unesistenza remota. Peccato che, nel frattempo, si sia evoluto
non solo il genere, ma anche e soprattutto la nostra visione del futuro, dimensione
in cui proiettiamo paure sempre meno legate al timore di un turbocapitalismo ipertecnologico
e sempre più contraddistinte dalla paura della barbarie (Cecità di José Saramago e
Fernando Mereilles, Snowpiercer di Bong Joon-Ho), della solitudine (Gravity di Alfonso Cuarόn,
Her di Spike Jonze), della scarsità di cibo e di materie prime (Interstellar di Christopher Nolan, Wall-E
di Andrew Stanton). Non basta
operare un restyling architettonico e sostituire i droidi con delle interfacce touch per interpretare il bisogno di
fantascienza del pubblico contemporaneo. Questo purtroppo Scott, uomo del suo
tempo, sembra non averlo capito, e la sua visione del futuro, che occupa più o
meno tutta la prima parte del film, genera più sbadigli che ansia.
Una scena del film
A
risollevare la storia dalla palude ci pensa, nella seconda parte, colui che ne
ha legittimamente diritto: Drake Doremus, rampante trentaduenne californiano,
che in pieno spirito indie non sembra
curarsi troppo della cupa atmosfera scottiana né delle regole del genere, sfruttandole
come semplice pretesto per ambientare il suo solito film: una disperata e
apparentemente impossibile storia damore tra persone comuni. Il tutto in pieno
“stile Sundance” (non a caso Like Crazy
ha guadagnato il Gran Premio della Giuria nel 2011): un romanticismo che non ha
paura di spingersi ai limiti del mellifluo, con personaggi semplici ingenui carini,
tanta improvvisazione, colori sgargianti dal sapore tipicamente pop, steadicam
onnipresente, giochi di silhouettes, messe
a fuoco selettive, musica elettronica o alternative
rock (notevole il contributo, in questo senso, del tedesco Sascha Ring, noto al pubblico come
Apparat). Per stessa ammissione del regista, daltronde, Equals chiude unideale trilogia dellamore iniziata con il già citato
Like Crazy (2011) e proseguita con il
meno riuscito Breathe In (2013),
avventurandosi nei territori della distopia non tanto per sviluppare una
riflessione sulle derive del presente, quanto per rilanciare lo stesso gioco
che sì, è di una semplicità disarmante, ma funziona proprio in virtù della sua esibita
leggerezza.
Lapproccio
di Doremus, pur rispettando la verità e la sincerità dei sentimenti in campo, è
libero, indipendente, ludico. Le sue scelte registiche sono spesso guidate da
una logica istintiva di “gusto estetico” più che da una riflessione sulle forme
cinematografiche, con buona pace dei cinefili più ortodossi. Si tratta di una
fantascienza in salsa indie, un po “piaciona”
ma mai gratuita, e che soprattutto non devia mai dalla narrazione di fondo. Liberando
il genere da qualsiasi discorso critico sullorganizzazione delle società del
futuro, ciò che resta è una storia damore pura e semplice, raccontata nella
sua evidenza, apparentemente adolescenziale ma al contempo incredibilmente
adulta. Certo, il fatto che Equals sia
ambientato in un futuro imprecisato non agevola limmedesimazione da parte del
pubblico, soprattutto dopo una prima parte allinsegna del torpore. Ma ecco che
insperatamente il regista riesce a convincere lo spettatore ad accettare quel
mondo, a crederci, ad appassionarsi, a divertirsi, quindi a supportare i
personaggi e, infine, a commuoversi e a gioire per loro. Questa è la visione
del cinema di Doremus. Chi ha qualcosa da obiettare lo faccia pure: lo chiamano
cinema indipendente, non a caso.
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