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Equals

di Raffaele Pavoni
  Equals
Data di pubblicazione su web 07/09/2015  

Ci aveva avvisati, il direttore artistico Alberto Barbera, che in questa edizione del Festival di Venezia i registi più noti avrebbero presentato i film che meno ci saremmo aspettati da loro. E così, dopo l’omaggio al Louvre di Alexandr Sokurov e l’epopea del bambino soldato di Cary Fukunaga, è il turno di Drake Doremus. Il regista indipendente americano sbarca in Laguna con un film di fantascienza: il racconto distopico di un mondo regolato unicamente dal principio di efficienza, e dove qualsiasi manifestazione di amore è considerata come un virus (S.O.S. - “Switched-On Syndrom”) e punita con la reclusione in manicomio.

Protagonisti del film, come prevedibile, due giovani aspiranti amanti, Silas (Kristen Stewart) e Nia (Nicholas Hoult), colleghi nella redazione di una rivista scientifica. Perdutamente innamorati, i due fuggono per sottrarsi ai rigidi controlli della macchina statale, con destinazione la “Penisola”, luogo in cui si vocifera sia sopravvissuto un branco di irriducibili selvaggi che vive in una società “deviata” in cui l’amore e il sesso sono la norma: l’equivalente della riva del fiume sul quale approda l’ex-pompiere Guy Montag alla fine di Fahreneit 451° di Ray Bradbury. Se per Bradbury, però, le pulsioni sessuali non sono vietate, ma banalizzate; e se ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley addirittura vengono incentivate come passatempo per i bambini per evitare che questi sviluppino forme di attaccamento reciproco, qui tali pulsioni sono tacciate come malattia in grado di minare la produttività della società.


Una scena del film
Una scena del film

Una delle maggiori difficoltà del genere fantascientifico consiste non tanto nel delineare i personaggi e i loro rapporti, quanto nell’iniziare lo spettatore a un universo altro, nel renderlo partecipe delle regole che lo sorreggono, dello stadio di avanzamento (o di digressione) tecnologico e sociale. Soprattutto, nel caso di racconti di matrice distopica, la difficoltà consiste nel mettere il futuro in relazione al presente, per riconoscere nel secondo le cause del primo e per incentivare lo spettatore ad attivarsi perché tali dinamiche non si inneschino. Il tutto cercando di non risultare didascalici, investendo grandi somme negli apparati scenografici e negli effetti speciali ed evitando, a meno che il regista non si chiami Ridley Scott, di sforare i fatidici 120’. I produttori, tendenzialmente, non vanno pazzi per questo tipo di film, fatta eccezione, appunto, per Scott.

Proprio il regista di Alien e Thelma & Louise, fondatore con il fratello Tony della Scott Free Production, è il produttore esecutivo di questa pellicola, e la sua è una presenza ingombrante. Simile per molti versi a quello della megalopoli di Blade Runner, il tessuto (anti)sociale di Equals riprende molte delle ansie e paure di cui era permeato il capolavoro scottiano: il problema dell’identità del singolo, il conflitto uomo-macchina, l’alienazione delle città moderne, la nostalgia di un’esistenza remota. Peccato che, nel frattempo, si sia evoluto non solo il genere, ma anche e soprattutto la nostra visione del futuro, dimensione in cui proiettiamo paure sempre meno legate al timore di un turbocapitalismo ipertecnologico e sempre più contraddistinte dalla paura della barbarie (Cecità di José Saramago e Fernando Mereilles, Snowpiercer di Bong Joon-Ho), della solitudine (Gravity di Alfonso Cuarόn, Her di Spike Jonze), della scarsità di cibo e di materie prime (Interstellar di Christopher Nolan, Wall-E di Andrew Stanton). Non basta operare un restyling architettonico e sostituire i droidi con delle interfacce touch per interpretare il bisogno di fantascienza del pubblico contemporaneo. Questo purtroppo Scott, uomo del suo tempo, sembra non averlo capito, e la sua visione del futuro, che occupa più o meno tutta la prima parte del film, genera più sbadigli che ansia.


Una scena del film
Una scena del film

A risollevare la storia dalla palude ci pensa, nella seconda parte, colui che ne ha legittimamente diritto: Drake Doremus, rampante trentaduenne californiano, che in pieno spirito indie non sembra curarsi troppo della cupa atmosfera scottiana né delle regole del genere, sfruttandole come semplice pretesto per ambientare il suo solito film: una disperata e apparentemente impossibile storia d’amore tra persone comuni. Il tutto in pieno “stile Sundance” (non a caso Like Crazy ha guadagnato il Gran Premio della Giuria nel 2011): un romanticismo che non ha paura di spingersi ai limiti del mellifluo, con personaggi semplici ingenui carini, tanta improvvisazione, colori sgargianti dal sapore tipicamente pop, steadicam onnipresente, giochi di silhouettes, messe a fuoco selettive, musica elettronica o alternative rock (notevole il contributo, in questo senso, del tedesco Sascha Ring, noto al pubblico come Apparat). Per stessa ammissione del regista, d’altronde, Equals chiude un’ideale trilogia dell’amore iniziata con il già citato Like Crazy (2011) e proseguita con il meno riuscito Breathe In (2013), avventurandosi nei territori della distopia non tanto per sviluppare una riflessione sulle derive del presente, quanto per rilanciare lo stesso gioco che sì, è di una semplicità disarmante, ma funziona proprio in virtù della sua esibita leggerezza.

L’approccio di Doremus, pur rispettando la verità e la sincerità dei sentimenti in campo, è libero, indipendente, ludico. Le sue scelte registiche sono spesso guidate da una logica istintiva di “gusto estetico” più che da una riflessione sulle forme cinematografiche, con buona pace dei cinefili più ortodossi. Si tratta di una fantascienza in salsa indie, un po’ “piaciona” ma mai gratuita, e che soprattutto non devia mai dalla narrazione di fondo. Liberando il genere da qualsiasi discorso critico sull’organizzazione delle società del futuro, ciò che resta è una storia d’amore pura e semplice, raccontata nella sua evidenza, apparentemente adolescenziale ma al contempo incredibilmente adulta. Certo, il fatto che Equals sia ambientato in un futuro imprecisato non agevola l’immedesimazione da parte del pubblico, soprattutto dopo una prima parte all’insegna del torpore. Ma ecco che insperatamente il regista riesce a convincere lo spettatore ad accettare quel mondo, a crederci, ad appassionarsi, a divertirsi, quindi a supportare i personaggi e, infine, a commuoversi e a gioire per loro. Questa è la visione del cinema di Doremus. Chi ha qualcosa da obiettare lo faccia pure: lo chiamano cinema indipendente, non a caso.



Equals
cast cast & credits
 

La locandina del film
La locandina del film



 
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