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Mountain

di Raffaele Pavoni
  Mountain
Data di pubblicazione su web 05/09/2015  

In una casa adiacente al perimetro del cimitero del Monte degli Ulivi, monumentale luogo sacro a est di Gerusalemme nonché crocevia (letteralmente) di tre religioni diverse, vive Tzvia (Shani Klein), casalinga devota, insieme al marito Reuven (Avshalom Pollak), insegnante di Talmud, e ai loro quattro figli. Vagando nel cimitero per distrarsi dalle faccende casalinghe, una sera Tzvia si imbatte in un giro di prostituzione. Stanca di servire una famiglia che non la degna di giusta considerazione, la donna decide di portare di nascosto vivande calde ai nuovi ospiti del cimitero, senza tuttavia ottenerne riconoscenza.

Opera prima della trentaseienne regista israeliana Yaelle Kayam, questa curiosa coproduzione israelo-danese sbarca in Laguna nella sezione Orizzonti, nonché nelle parallele e contemporanee Giornate degli Autori. Mountain è la storia di una solitudine, di un’incomunicabilità, di un conflitto interiore insanabile, di un amore che in realtà è solo un disperato bisogno di condivisione. Il contrasto tra la ricerca di una presenza umana e l’assenza di vita dell’ambiente circostante è reso ancor più stridente dall’asetticità delle tombe ebraiche: lisce lastre di marmo senza orpelli, fiori o oggetti. Garante della preservazione di questa immacolata e impersonale sacralità è Abed (Haitham Ibrahem Omari), custode di religione musulmana con il quale Tzvia intraprende uno sgangherato flirt che, complici anche le differenze religiose, si risolverà in un nulla di fatto.

Un'immagine del film
Un'immagine del film

L’unica speranza di contatto per la protagonista è rappresentata da un letterato sudcoreano che parla perfettamente l’ebraico, appassionato come lei delle poesie di una scrittrice sepolta proprio nel cimitero degli Ulivi. Tuttavia la figura dell’intellettuale asiatico si rivelerà inafferrabile. Per omaggiare la poetessa, infatti, egli reciterà a Tzvia una traduzione in lingua coreana di alcuni versi. La poesia è relegata in uno spazio inaccessibile: l’estremo Oriente inteso come estremo altrove, come luogo di incomprensione. Questa scena, molto breve, riveste un peso decisivo nell’economia narrativa del film. Non solo perché sottolinea per converso una delle scene finali (quella in cui la protagonista cercherà senza successo di iniziare alla poesia Abed), ma anche e soprattutto perché costituisce un punto di non ritorno: il passaggio, sul piano dell’enunciazione, da un registro realistico a un registro simbolico (che da questo momento in poi diventerà sempre più evidente).

La vetta del Monte del Tempio, inaccessibile alla protagonista in quanto luogo di culto musulmano, si contrappone idealmente a quella del Monte degli Ulivi, luogo di morte. Si tratta anche in questo caso di un estremo altrove, perennemente fuori campo, ma la cui presenza è essenziale per delimitare il “campo”: campo fisico (il cimitero) e cinematografico (nelle inquadrature in cui le tombe, già di per sé astratte, subiscono un’ulteriore stilizzazione per farsi puro pattern grafico). Ma anche e soprattutto campo di forze nella mente della protagonista, nel quale quest’ultima prova a offrirsi (tramite pietanze culinarie) da un lato all’altro del recinto, per poi scoprire che all’interno di esso non può esserci alcun tipo di emancipazione. Inadeguata sia rispetto a una vita condotta secondo i rigidi principi della Torah sia rispetto ai vuoti e bestiali rituali del mondo moderno, costretta al mutismo più assoluto in entrambi questi universi (o peggio all’indifferenza del mondo esterno nei confronti dei propri silenziosi messaggi), la protagonista non trova altra via di uscita che l’annientamento totale, la tabula rasa.


Un'immagine del film
Un'immagine del film

A un anno da Viviane di Ronit e Shlomi Elkabetz, il cinema israeliano torna a occuparsi di tematiche di genere, e lo fa stavolta con un impianto simbolico solido, in cui la morte dei significati diventa morte dei significanti, in una dinamica simile – seppur su tematiche radicalmente diverse – a quella del recente Anime Nere di Francesco Munzi. La rivoluzione, di fatto impossibile, diventa accessibile solo attraverso la trasfigurazione operata dal mezzo cinematografico.

Incomprensibilmente escluso dalla competizione ufficiale (ma incluso in quella, sicuramente più attiva sul mercato internazionale, del Toronto Film Festival), Mountain è un grandissimo debutto, segnato da un’intuizione semplice ma che si offre a molteplici livelli di lettura, e a cui speriamo che la regista sappia dare seguito nelle sue opere future. Dipenderà molto, ovviamente, dalla ricettività del mercato europeo e internazionale, e dalla capacità di produttori e distributori nello scorgere nel talento della Kayam non solo un appagante femminismo in salsa esotica, ma uno sguardo sulla società che si fa tanto più potente quanto più arriva a interiorizzarla e a metterne in discussione gli ordinamenti (religiosi e non) sui quali essa è fondata.




Mountain
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La locandina
La locandina del film



 
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