In
una casa adiacente al perimetro del cimitero del Monte degli Ulivi, monumentale
luogo sacro a est di Gerusalemme nonché crocevia (letteralmente) di tre religioni
diverse, vive Tzvia (Shani Klein),
casalinga devota, insieme al marito Reuven (Avshalom Pollak), insegnante di Talmud, e ai loro quattro figli.
Vagando nel cimitero per distrarsi dalle faccende casalinghe, una sera Tzvia si
imbatte in un giro di prostituzione. Stanca di servire una famiglia che non la degna
di giusta considerazione, la donna decide di portare di nascosto vivande calde
ai nuovi ospiti del cimitero, senza tuttavia ottenerne riconoscenza.
Opera prima della trentaseienne regista israeliana Yaelle Kayam, questa curiosa coproduzione israelo-danese sbarca in Laguna
nella sezione Orizzonti, nonché nelle
parallele e contemporanee Giornate degli
Autori. Mountain è la storia di
una solitudine, di unincomunicabilità, di un conflitto interiore insanabile, di
un amore che in realtà è solo un disperato bisogno di condivisione. Il contrasto tra la ricerca di una presenza umana e lassenza
di vita dellambiente circostante è reso ancor più stridente dallasetticità
delle tombe ebraiche: lisce lastre di marmo senza orpelli, fiori o oggetti. Garante della preservazione di
questa immacolata e impersonale sacralità è Abed (Haitham Ibrahem Omari), custode di religione musulmana con il quale
Tzvia intraprende uno sgangherato flirt che, complici anche le differenze
religiose, si risolverà in un nulla di fatto.
Un'immagine del film Lunica speranza di contatto per la protagonista è rappresentata
da un letterato sudcoreano che parla perfettamente lebraico, appassionato come
lei delle poesie di una scrittrice sepolta proprio nel cimitero degli Ulivi. Tuttavia
la figura dellintellettuale asiatico si rivelerà inafferrabile. Per omaggiare
la poetessa, infatti, egli reciterà a Tzvia una
traduzione in lingua coreana di alcuni versi. La poesia è relegata in uno
spazio inaccessibile: lestremo Oriente inteso come estremo altrove, come luogo
di incomprensione. Questa scena, molto breve, riveste un peso decisivo nelleconomia
narrativa del film. Non solo perché sottolinea per converso una delle scene
finali (quella in cui la protagonista cercherà senza successo di iniziare alla poesia
Abed), ma anche e soprattutto perché
costituisce un punto di non ritorno: il passaggio, sul piano dellenunciazione,
da un registro realistico a un registro simbolico (che da questo momento in poi
diventerà sempre più evidente).
La vetta del Monte del Tempio, inaccessibile alla protagonista in quanto luogo
di culto musulmano, si contrappone idealmente a quella del Monte degli Ulivi,
luogo di morte. Si tratta anche in questo caso
di un estremo altrove, perennemente fuori campo, ma la cui presenza è
essenziale per delimitare il “campo”: campo fisico (il cimitero) e
cinematografico (nelle inquadrature in cui le tombe, già di per sé astratte,
subiscono unulteriore stilizzazione per farsi puro pattern grafico). Ma anche e soprattutto campo di forze nella mente
della protagonista, nel quale questultima prova a offrirsi (tramite pietanze
culinarie) da un lato allaltro del recinto, per poi scoprire che allinterno
di esso non può esserci alcun tipo di emancipazione. Inadeguata sia rispetto a
una vita condotta secondo i rigidi principi della Torah sia rispetto ai vuoti e
bestiali rituali del mondo moderno, costretta al mutismo più assoluto in
entrambi questi universi (o peggio allindifferenza del mondo esterno nei
confronti dei propri silenziosi messaggi), la protagonista non trova altra via
di uscita che lannientamento totale, la tabula
rasa.
Un'immagine del film
A un anno da Viviane di Ronit e Shlomi Elkabetz, il cinema israeliano torna a occuparsi di
tematiche di genere, e
lo fa stavolta con un impianto simbolico solido,
in cui la morte dei significati diventa
morte dei significanti, in una
dinamica simile – seppur su tematiche radicalmente diverse – a quella del
recente Anime Nere di Francesco Munzi. La rivoluzione, di
fatto impossibile, diventa accessibile solo attraverso la trasfigurazione
operata dal mezzo cinematografico.
Incomprensibilmente escluso dalla competizione ufficiale (ma
incluso in quella, sicuramente più attiva sul mercato internazionale, del
Toronto Film Festival), Mountain è un
grandissimo debutto, segnato da unintuizione semplice ma che si offre a
molteplici livelli di lettura, e a cui speriamo che la regista sappia dare
seguito nelle sue opere future. Dipenderà molto, ovviamente, dalla ricettività
del mercato europeo e internazionale, e dalla capacità di produttori e
distributori nello scorgere nel talento della Kayam non solo un appagante
femminismo in salsa esotica, ma uno sguardo sulla società che si fa tanto più
potente quanto più arriva a interiorizzarla e a metterne in discussione gli
ordinamenti (religiosi e non) sui quali essa è fondata.
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