Johann Simon (poi
Giovanni Simone) Mayr non dovrebbe passare
alla Storia solo quale maestro di Donizetti,
né il suo linguaggio musicale può essere liquidato come quello di un epigono
dei classici viennesi risciacquato nello stile Impero di Cherubini e Spontini. Questo
compositore bavarese-lombardo ha unidiomaticità sua propria, come le fugaci ma
significative riesumazioni di alcuni suoi titoli-chiave, da Ginevra di Scozia a La rosa bianca e la rosa rossa, hanno dimostrato negli ultimi
decenni. Pure il Mayr delle opere buffe, ancora quasi tutto da esplorare,
riserverebbe più duna sorpresa; sta di fatto, però, che i prodromi di
unipotetica Mayr renaissance – poi
caduta nel nulla, ma che sarebbe stato fruttuoso affiancare alla parallela
rinascita donizettiana – si ebbe nel 1977, quando Leyla Gencer rilanciò a Napoli Medea
in Corinto.
Un momento dello spettacolo © Paolo Conserva
Fino allora considerata una
fantomatica alternativa alla Medea
cherubiniana, lopera di Mayr – restituita al palcoscenico – mostrò le stimmate
del capolavoro: salvo subito uscire nuovamente di repertorio, comè nel destino
delle riesumazioni legate a una specifica cantante, e per di più ormai in fine
carriera, quale era la Gencer
del 77. Oggi il Festival della Valle dItria la ripropone con maggior
cognizione di causa (si è approntata ledizione critica) e un punto di vista
abbastanza distante da quelle recite di quasi quarantanni fa: se a Napoli
tutto ruotò attorno alla carismatica presenza genceriana, con una preminenza
dellelemento vocale che ragguagliava Mayr al più tradizionale repertorio
belcantistico, a Martina Franca la filosofia è quella del «prima la musica, poi
le parole». Il mattatore qui è sul podio – quel Fabio Luisi che, nato artisticamente al festival martinese, oggi è
una quotatissima star della bacchetta
– ed è la sapienza orchestrale di Mayr, più che le sue capacità di drammaturgo del
canto, a ottenere i maggiori primi piani.
Luisi coglie perfettamente il tono
dellopera, il suo impianto ancora metastasiano (con due coppie simmetriche di
amanti e una terza di confidenti-comprimari) terremotato da una piena adesione
alle esigenze drammatiche: sottolineate, oltre che dal pathos dei recitativi, da unorchestra incline a sonorità scure, speculari
alle scritture dei due protagonisti, spesso gravitanti nella regione bassa
delle rispettive voci (Medea è il tipico soprano Colbran, Giasone un classico
baritenore). Se il libretto di Felice
Romani – geniale innovatore nel
genere buffo e di mezzo carattere, dal Turco
in Italia allElisir damore alla
Sonnambula, ma aureo conservatore in
quello serio – garantisce il necessario retroterra classicista, le folate
preromantiche (siamo solo nel 1813) sono insomma tutte del compositore; e sebbene
Luisi, a suo tempo, abbia diretto con gran polso anche la Medea
di Cherubini, il divario tra la severità formale di questultimo e la maggior
libertà darticolazione di Mayr lo fa percepire tutto. A cominciare da una
sinfonia che, sviscerata nella sua dialettica tra civiltà strumentale tedesca e
felicità melodica italiana, è un eloquente biglietto da visita.
Un momento dello spettacolo © Paolo Conserva
Il coro svolge a sua volta una
forte funzione drammatica, e quello transilvano della Filarmonica di
Cluj-Napoca la fa percepire tutta, talvolta perfino con troppo volume. Mentre il
passaggio delle consegne protagonistiche da Medea allorchestra – lode al primo
violino e allarpa dellOrchestra Internazionale dItalia nei loro momenti
solistici – trae origine pure dallinadeguatezza della cantante scelta: Davinia Rodriguez non ha il registro centro-grave sonoro e tagliente richiesto
dal personaggio. Tenta affondi inchiostrati e mediamente risonanti, sopperisce
con il temperamento ai limiti di drammaticità timbrica, ha un fraseggio debitamente
altero, ma resta al di sotto dei desiderata
di Medea anche senza scomodare il fantasma della Gencer. La “seconda donna”
– Mihaela Marcu, nel ben più liliale ruolo di Creusa – sfoggia vocalità più
lirica, omogenea e, in definitiva, pure più sostanziosa nel suo “vibrato”
discreto ma incisivo. Ma soprattutto, per una volta, è Giasone a travolgere
Medea, grazie alla musicalità saldissima di Michael Spyres, il suo
accento sempre scolpito, laplomb inappuntabile
nel canto di bravura come nella declamazione.
A un Giasone baritenorile si
oppone il tenore contraltino concepito da Mayr per il personaggio di Egeo: Enea Scala affronta questo ruolo dinnamorato impetuoso e respinto con
una naturale lucentezza timbrica che compensa vari dettagli tecnici da mettere
a punto, ma sulla distanza – almeno per quanto riguarda la tenuta del registro
acuto – molti nodi vengono al pettine. Roberto
Lorenzi è un Creonte curiosamente giovanile,
molto autorevole nei recitativi e tutto da sistemare nel cantabile. Tra i
comprimari si fa valere Nozomi Kato
nei panni dellancella amica di Medea: il ruolo è minimo, ma la regia lascia il
personaggio spesso in scena e i minuscoli interventi danno conto di uno
strumento mezzosopranile gradevole e ben manovrato.
Resta da parlare, appunto, della
regia. Benedetto Sicca gioca la carta mimico-coreutica, assegna
un “doppio” a molti personaggi, porta in scena sin dal principio i figli di
Medea (non bambini, ma danzatori adulti), cerca la semplicità della natura (un
campo di papaveri, un volo di colombe…) in una tragedia che – incentrata
sullinfanticidio – trova la sua forza disperata nel più agghiacciante andar
contronatura. Il lavoro coreografico di Riccardo
Olivier è commendevole, il talento
dei ballerini Chiara Ameglio e Cesare Benedetti indubbio: ma la
sinfonia “visualizzata” distrae dalla musica e la volata conclusiva delle
colombe non approda a molto, salvo far planare poche piume e qualche altro
“ricordino” sugli spettatori delle prime file.
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